domenica 3 luglio 2011

Un Cav. che decade ma non cade


Solo perché è ricco assai non decade Silvio Berlusconi. E non perché ieri ha celebrato il suo congresso di gemmazione. Dalle spine di un disastro politico è nata la leadership del simpatico e spedito Angelino Alfano, rosa purissima tra pungenti roveti ma Berlusconi, malgrado le rovine di una stagione altrimenti solida di rappresentanza parlamentare, non crolla perché ancora oggi può dispensare dindini.

Seppure rabbioso in quel suo dragare Montecitorio – in quel suo cercare fino all’altrieri i mangiapane assenti al voto, quelli che “prendono lo stipendio e non lavorano”, colpevoli nell’aver mandato sotto il governo – lui è sempre quello che appena può mette mano al portafoglio. Figurarsi cosa possono essere per lui degli elicotteri. Se ne porta almeno una dozzina in tasca.

Il Cavaliere, infatti, non è esattamente un morto appeso a un destino. Il Cavaliere, agli occhi dei suoi vicinissimi, è solo una cassaforte che cammina. Questo sovversivo che tanto ci piace, questo smoderato fatto leader dei moderati, non è poi uno tenuto in piedi da una nomenclatura. Non ha un gruppo, un clan o un “cerchio magico”. Non ha neppure una corte né cortigiani, ha forse pochi amici, messi ai margini dell’estremo circo dei gironi infernali e se nessuno dei Fedele Confalonieri o dei Marcello Dell’Utri può più prenderselo sotto braccio, fosse solo per leggere e cantare, al Cavaliere resta la compagnia di ladri d’anime e di succhiapozzi perché, infine, non è neanche più un carro da dove scendere. Vincente o perdente che sia, di fatto, è egualmente solvibile. Non è, ovviamente, per tutti così: il nostro amico Angiolino (per dirla con Paolo Conte), ci mette di suo la liberalità di una strana avventura, e perciò auguri ma il Cavaliere è una ghiotta occasione perfino per i suoi acerrimi nemici: cosa sarebbe tutta la pubblicistica giustizialista, il messianismo televisivo dei Michele Santoro e l’antipolitica di un Beppe Grillo senza di lui?

Ed è solo uno da soccorrere e da abbracciare stretto tanto da sfilargli il contante. A maggior ragione nel perdurare del tramonto. E così come certi miliardari malati si fanno ancora più prodighi nel pagarsi farmaci e terapie, tanto da tentarle tutte, anche con maghi e fattucchiere, così il nostro – eroe di una singolarità tutta italiana, con una punta studentesca, quella del suo sorriso – accresce la propria disponibilità illudendosi in politica di prendersi questo e quello. E tutti quelli che se la ridono perché un altro eroe a noi caro, Mimmo Scilipoti, era sì alla Camera quel giorno, ma a quella dei Lord, dovrebbero saperlo che sono ben altri “gli irresponsabili”, quelli dell’altra gamba del traballante tavolo della maggioranza. Traballante, ben intesi, perché sovraccarico di danari il benedetto tavolo. Traballante per menar le danze nell’imbuto di un turbinio fatto di interessi, carriere, vanità e quella continua fabbrica di scontenti che è il governare.

E poi dice che non è un generoso il Cavaliere, disposto a svenarsi, il Cavaliere. Se si pensa che, perfino alla vigilia del voto del 14 dicembre scorso, oltre ai “Responsabili”, dovette risolvere un pari e patta anche con quei truffaldi che, fingendo di avere cospicue offerte politiche altrove – tra promessa e certezza – trattavano la propria fedeltà mettendogli sotto il naso la cambiale della lealtà a termine. Alle solite: un caso di sfacciata simonia. Con losco sotterfugio – questi signori – si guadagnavano l’indulgenza, ma sempre per campare inguattati dentro a una promessa.
E sono quelli che per amarlo fino all’ultimo momento hanno bisogno di soppesarne il guadagno baciandolo. E così, quest’uomo – del quale ancora oggi ammiriamo la sua sfida all’inosabile, ovvero la sua guerra all’establishment – è diventato rotondetto come un soldino moltiplicatore di infiniti soldini. E i suoi vicinissimi, che non hanno la spavalda follia dei fedelissimi, sono solo occhiuti ragionieri.

In questa Italia del declinar berlusconiano nessuno glielo racconta il declino perché per conoscerla a fondo, Berlusconi non ci va in incognito per strada, ma se la fa raccontare. Si affida a ciò che gli raccontano e tutti quelli che se lo vogliono vicino per continuare a piluccare dall’imbuto raccontano solo quel che può rallegrarlo.
Ed è così che in questa Italia del berlusconismo compiuto ma in accanimento terapeutico non ci sono topi che se la filano via. Nessuno abbandona la nave che affonda perché la stiva, sebbene allagata, abbonda di formaggio. E questi fedelissimi sono un inedito antropologico. Non assomigliano agli autenticissimi seguaci di altre cadute e di altre decadenze perché questi non si schierano al fianco del proprio capo in virtù di un’estrema illusione o di una follia.

Non sono, insomma, i Dario Fo e i Giorgio Albertazzi arrivati all’adunata dell’ultima raffica a Salò. Non sono neppure come Alda D’Eusanio che corre ad Hammamet accecata di generosità perché da quei capi in disgrazia, poveri – poveri al punto di affermare quale rito l’appenderli per i piedi per non sentirne cadere nessun soldino – non c’è da scucire una sola lira o euro che dir si voglia. Quando Bettino Craxi è spiaggiato in Tunisia è un uomo finito. E così Benito Mussolini a Piazzale Loreto. Berlusconi, invece, malgrado la smobilitazione di tutta la sua stagione non finisce perché – ciclope con un occhio solo – vede solo chi gli sta davanti e che chiede, pretende e riscuote e non riesce ad accorgersi di quello che gli precipita a destra come a sinistra.

E’ come un palazzo scoronato, il Cavaliere. Destinato allo sbadiglio di un museo, con le stanze numerate come in un penitenziario o come in un convento (una per ogni coordinatore, più la cella nobile riservata al segretario), il Cavaliere è perciò pronto a un priorato e non alle sedizioni della politica.
Solo che non è il tempo dei voltagabbana questo, ma quello degli avvoltoi. Berlusconi che non ha la solitudine shakespeariana del tiranno, accigliato com’è adesso – abbottonandosi la giacca, aggiustandosi la cravatta, lisciandosi il mento raso – deve soccombere all’affollarsi della clientela giunta sotto casa sua perché non c’è una sartoria a disposizione di chi vuol cambiare casacca.

Tutti gli si accostano sebbene lo vedano già lebbroso. Anche chi lo considera “bollito” fuori da ogni riserbo. E tutte quelle ulcere – si chiamino Tremonti, Draghi, Casini e financo, per chi ne serbi ancora un ricordo, Fini – su quel suo corpo segnato dalle stanchezze, all’occorrenza del pronto accomodo, diventano belle pietre preziose degne del Sardanapalo.
Sembra che Berlusconi riviva quelle giornate di attesa nell’apnea del 1920 quando a un Duca d’Aosta immalinconito dall’immobilità dell’Italia appena ebbra del ricordo di Fiume e dei legionari, accarezzando l’idea di una repubblica proclamandosi presidente incontrò una sola obiezione, quella dell’aiutante di campo: “Altezza, per fare il Napoleone terzo, prima della presidenza della repubblica, bisogna aver fatto un po’ di carcere”. Ed egli soggiunse: “Questo non mi si confà”.

E non si confà a Berlusconi il ruolo di un Napoleone terzo. E, dunque, è fuori catalogo anche rispetto al “cesarismo”. Non vogliamo certo esagerare dicendo che i nostri studi marxiani franano di fronte al suo interessante caso perché il caso, per l’appunto, è assai speciale e poco arcitaliano. Qui, infatti, non si può fare il lungo viaggio attraverso il berlusconismo in un solo giorno. Qui non c’è un Ruggero Zangrandi che esce da villa Torlonia per entrare dritto a Botteghe oscure. Qui non ci sono le poesie mistiche e fascistissime di Pietro Ingrao perché qui – in questa Italia che si congeda dal berlusconismo – non c’è un fascismo che diventa comunismo.

Specialissimo e complicatissimo caso. Non c’è una totalità da cui uscire per entrarsene in un’altra e l’accozzaglia non avrà alcuna amnistia, sarà tutto una Expositio super Apocalypsim e non sarà mai smaltita, piuttosto imbalsamata dalla ferocia del paragone proprio impari. Mussolini che vedeva ogni sera l’Italia come un giornale da fare e da impaginare, due o tre idee al giorno, per poi, la sera dopo, ricominciare è agli antipodi di un Berlusconi che, ogni giorno, si ritrova un’Italia in attesa di ereditarne l’impronta, fosse pure per un contravveleno, un antidoto ma quando poi si deve dare un successore o, un prosecutore, il Cavaliere gli è come quel tale, “Si filium habuero, facili me non utetur patre”, se avrò un figlio, facilmente non sarò suo padre.
Ferocissimo e assai dolente destino. E tutti quelli che, al mattino, si svegliano con la voglia di diventare berlusconiani della prima ora, tutte le sere se ne vanno a letto umiliati.
E’ l’ora dei bilanci, dunque, e la passione sfuma. “Voglio un partito degli onesti”, ha detto Alfano, “e non tutti lo sono”. Nella Summa theologica della politica tutti siamo peccatori e si fa dottrina solo di ciò che non è sfogo lirico o visionario ma di companatico, motivo per cui, alle solite: vince solo quello che fa uno sproposito di meno.

Ma forse è solo una faccenda di trasposizione dantesca. E non per via del contrappasso, ma per struttura e contenuto perché se non si cade, quantomeno ci si svela. Ed è apocalisse ciò che si dispiega in queste giornate del doloroso rio. Non c’è ministro che, in privato, non faccia spallucce per poi dire: “Dio mio, adesso anche le mani gli sudano”. Il mondo perbene del berlusconismo non avrà da presentarsi ai posteri con le eroiche angustie di una dinastia scomparsa. Un tempo lunghissimo è trascorso: guardavamo ancora Drive In quando lo incontrammo la prima volta. E chi gli vuol bene vive questa decadenza senza caduta con lo sgomento di un mancato rancore: tutto quello che si poteva fare non si farà mai. Né una Salerno-Reggio Calabria, né il Ponte di Messina, meno che mai meno tasse per tutti e giammai una classe dirigente in grado di raccoglierne valori che non siano i “pagherò”, le “cambiali” e “le liquidità”.

La vicenda di Emilio Fede in triangolazione con Lele Mora (e non in quel senso, di triangolo…) pare che non abbia insegnato nulla al Cavaliere e tutta la gens nova attorno a lui brulicata – sbucata come da un colpo di scena, quali topi intorno ad una sugnosa polla di ricco lardo – si scatena senza più freni quasi a replicare tutti i gironi danteschi. E così, dagli iracondi ai lussuriosi, dagli accidiosi ai violenti, dai golosi ai simoniaci di cui abbiamo detto appena sopra, mancano sempre all’appello i traditori ma solo perché trasfigurati in tutte le altre fraudolente virtù, avvitacchiati come sono al capo fattosi sempre più moneta sonante.

La più divertente delle storielle in tema d’ira è quella che vede protagonista un assai attivo parlamentare, telegenico e già collaboratore di un ministro, coautore con lui di libri dati in lettura al popolo e il ministro stesso. Succede che il deputato, non potendone più delle bizze del titolato di dicastero, gli prende il telefonino dalla scrivania e glielo frantuma sul muro. Quindi gli scaraventa sul pavimento il personal computer, quindi gli fa crollare lo schermo al plasma e, poi, tutto uno scagliare telecomandi, fascicoli e soprammobili. E tutto nel frattempo che gli agenti di scorta restano impietriti non potendo che assistere alla sfuriata, pronti a intervenire solo nel caso che tra gli oggetti volanti – a caso – venisse preso lo stesso ministro.

Tutto si placa quando il parlamentare, quale Attila dopo aver rasato per benino il prato, se ne va via soddisfatto ma per esplodere ancora quando, allo squillo del telefono, sente una voce: “Buongiorno onorevole, sono il maresciallo T. T., capo scorta del signor ministro”.

L’onorevole non può che ruggire: “Guardi che io non ho torto un solo capello al signor ministro, possono testimoniare i suoi uomini”. L’agrodolce di ogni decadenza, anche di quella che non cade, è sempre nell’avanspettacolo. E il capo scorta, infatti, risponde: “Guardi che io sto chiamando solo per congratularmi con lei, onorevole”.

E’ un peccato non mettere i nomi ma gli è che non vogliamo mettere in difficoltà la scorta. E neppure l’onorevole. Il ministro, invece, un poco sì, un poco di difficoltà se la merita, non fosse altro per l’umana commedia di chi sta in mezzo al tenebroso cerchio degli iracondi che si picchiano troncandosi co’ denti a brano a brano.

Non tocchiamo che solo sfiorandolo l’argomento della lussuria per abuso di letteratura sul tema. Un’amica che ci fa racconti su racconti intorno a quest’uomo, pur grande e geniale, quando s’immagina distesa e gemente sul lettone assai noto, per l’appunto racconta: “Quando s’è spogliato e dopo i risucchi di sbadigli mi dorme e russa e ha la tosse è solo un uomo del nostro livello. E io lo stringo a me, come per ritrovarlo snello, bello e insolente. E tale mi diventa”. Davvero?

Le rivolgiamo la domanda mostrandoci curiosi, ma solo per cortesia, in omaggio alla sua gioiosa vocazione di filosofa. E lei, soddisfatta, risponde: “E’ tutta una faccenda di psicologia”. Insomma, la rilasciatezza dei costumi è pittoresca, non tragica – “Amore e Psiche” dice ancora la dolce amica – e Berlusconi non decade perché è ricco ed è anche così che si compra l’opinione sbagliata che s’è fatta di se stesso: e il danno è che non si va più in là del poter finalmente cadere e andare. E che il caso resta padrone della famosa cassaforte. Quella che cammina.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

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