giovedì 29 settembre 2011

Fazio, c’è una favola da invitare


Gentile Fabio Fazio, non so se le piacciano le favole vere ma ce n’è una che merita la sua attenzione. L’ha scritta Pietrangelo Buttafuoco, animo di poeta in corpo saraceno (si chiama “Il lupo e la luna”, la pubblica Bompiani). L’ha scritta per amore e perciò senza ombra di colpa, forse visitato da un sogno capriccioso che gli ha trasmesso la più straziante potenza espressiva immaginabile oggidì.

Buttafuoco si è provato a romanzare la vita eccelsa di Scipione Cicala detto Cicalazadè, nato nobiluomo cinquecentesco in Sicilia e morto Lupo in grazia maomettana dopo aver combattuto i mortali e le ombre del Tartaro pregando il suo nuovo dio, dopo aver sconfitto le sue origini e dopo aver conquistato la Luna per congiungersi a lei in un letto stellato. Come avrà capito, gentile Fabio Fazio, Buttafuoco ha voluto esagerare, ha cercato il capolavoro, si è fatto cantastorie (un cantore de li cunti), di quelli che nell’Isola (senza aggettivi può essere soltanto la Sicilia) verseggiavano le passioni in forma orale. Non so se ci sia più ardore o più ardimento in questa folle impresa la cui trama, scolpita nella storia delle guerre di religione, aspettava da mezzo millennio il ritmo di uno pseudo Omero. So però che Buttafuoco, se non fosse battezzato e ribattezzato islamico, nella prossima vita rinascerebbe con la lyra in mano e le fiere mansuefatte ai piedi. Oppure cieco, accoccolato in un palazzo dal focolare ampio e inghirlandato, a favellare di ninfe sedotte e clangori di scudi.

Uomo anche moderno, figlio del grano biondo e di quello turco, Pietrangelo ha scelto come il suo eroe Cicalazadè di regolare i conti con le origini. Lo ha fatto a fil di scimitarra, disputando al suo alter ego galileo la pretesa (oh che pretesa) di dirsi erede di una sapienza più antica. Nella trama di Buttafuoco Cicalazadè indigna i suoi fieri soldati perché, concepito da un guerriero di Messina con una madre della Mezzaluna convertita a forza (dunque mai convertita), rapito fanciullo e cresciuto musulmano, una volta adulto – tra un cristiano sgozzato in terra e una preda razziata in mare – riuscirà a onorare perfino Giove Ammone in nome del Grande Alessandro; e come un semidio, incoraggiato da un derviscio danzante (di quelli che oggi i tagliagole islamisti non tollerano più), rivivrà dentro di sé la metamorfosi dell’uomo-lupo: colui che nel trionfo delle armi diventa Sole e, nel trionfo dell’amore, trascina la Luna nella sua alcova e la possiede (“possedere” è un verbo che il senso comune corrente cerca invano di esiliare dal talamo di Venere, Cicalazadè dimostra come si può possedere una donna essendone anche posseduti).

Perché tutti questi complimenti, signor Fabio Fazio? L’amicizia può fare velo, siamo d’accordo. Eppure qui c’è dell’altro. Qui c’è che il tempo presente, in fatto di letteratura, è per lo più abitato dai nemici delle Muse. Sicché c’è da esultare quando si trova un narratore capace di soffiare sulle braci dell’epica, come fa Buttafuoco. Bisogna fuggire il rimpianto di non averlo al fianco destro delle proprie idee (quello in cui lo scudo altrui ci protegge): lei immagino a sinistra, gentile Fabio Fazio; noi sul Parnaso, altri chissà dove.

E bisogna però non lasciarsi alle spalle l’occasione di processare Buttafuoco, con il suo Lupo e la sua Luna, nel tribunale mediatico-letterario di “Che tempo che fa”, lì dove il peggior capo d’imputazione è l’assenza. La galleria degli ospiti è già un albo d’oro coi fiocchi: Claudio Magris, Andrea Camilleri, Eugenio Scalfari, Francesco Guccini e James Ellroy e altri.
Adesso, gentile Fabio Fazio, è il momento di invitare Pietrangelo-Cicalazadè, che è pure animo saraceno in corpo di poeta e non traffica nella direzione della corrente storica. Gli chieda se davvero è come scrive lui, se davvero Tommaso Campanella ha trovato nel Lupo un raggio d’arcobaleno per trasportarci i suoi discepoli nella Città del Sole. Gli offra una lyra per accarezzarla e cantarci la sua Luna.

(di Alessandro Giuli)

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