martedì 27 dicembre 2011

Ci serve autorità per essere liberi


E se il deficit maggiore nella società del nostro tempo fosse l’Autorità? Impronunciabile parola ormai da troppi decenni, ci assoggettiamo senza critiche solo ai comandi impersonali del mercato, della Borsa, della tecnica, del progresso.

O accettiamo poteri e strapoteri in loro servizio, ma guai a sentir parlare di autorità. L’autorità sconta un discredito stagionato. Nel dopoguerra perché odorava ancora di fascismo e di antidemocrazia. Nel ’68 perché era la bestia nera della liberazione giovanile, femminile, proletaria. Nei socialismi, sovietici e liberali, perché considerata da ambedue nemica giurata dell’egualitarismo. Nelle società liberali e permissive perché vista come l’antagonista funesto della libertà. La principale carenza dei governi Berlusconi non è stata certo la deriva autoritaria, come spesso si è ripetuto, ma al contrario, l’assenza di un principio di autorità e di autorevolezza, la ricerca di compiacere gli italiani, di allentare le regole e di assecondarli, rinunciando a priori a ogni tentativo di correlare educazione e libertà.

Se la modernità sorge sulla fratellanza, l’uguaglianza e la libertà, l’autorità fu ritenuta uno sfregio a tutte e tre; perché l’autorità non è fraterna, semmai paterna, o al limite materna; non indica uguaglianza, semmai promuove differenza e gerarchia; e non è considerata amica della libertà, ma il suo inevitabile rovescio. Oppressiva in pubblico, repressiva in privato, l’autorità è stata l’innominabile belva della nostra epoca.

Per riammettere una sua vaga parente, si è preferito ribattezzarla in Italia col più rassicurante termine di authority, anglosassone e americano, tollerata perché «di servizio», a tutela delle regole. O dissimulata nell’invocazione diffusa della leadership. E invece l’autorità ci manca, eccome se ci manca.

È uscito di recente un saggio di Alexandre Kojève, La nozione di autorità (Adelphi, pagg. 143, euro 29) che risale al 1942 ma che fu pubblicato postumo pochi anni fa - il filosofo morì nel 1968 - e ora tradotto in Italia. Un saggio scritto all’ombra di Vichy, con un’appendice che riguarda il regime di Pétain, con curiosi riconoscimenti al Maresciallo collaborazionista, provenienti da uno che lottò contro l’occupazione nazista. Proprio nei mesi precedenti, Kojève indirizzava a Stalin un altro suo saggio filosofico. Incroci pericolosi. Kojève classifica quattro tipi originari di autorità - del Padre, del Signore sul servo, del Capo e del Giudice - e ad essi fa risalire tutte le forme di autorità. In realtà altre fonti di autorità ci sembrano irriducibili a quelle indicate dal filosofo russo: l’autorità fondata sul carisma spirituale -religioso o sul ruolo di pontifex, l’autorità fondata sulla sapienza e sul ruolo di magister, e l’autorità fondata sull’opera o l’impresa e sul ruolo di artifex. Autorità di derivazione diversa. Kojève distingue tra l’autorità trasmessa per nomina, per elezione e per eredità. L’autorità può discendere anche dal divino: per Kojève «è divino tutto ciò che può agire su di me senza che io abbia la possibilità di reagire nei suoi confronti». Originale e dinamica la sua idea di autorità, perché per lui l’autorità non garantisce la stabilità e lo status quo, come diffusamente si ritiene, ma il mutamento e il movimento: «l’autorità appartiene a chi opera il cambiamento». Emerge qualche assonanza col decisionismo di Schmitt: «Sovrano è colui che decide in stato di eccezione». Un’idea dell’autorità dopo la modernità, che non riposa sul sacro e immobile universo degli enti eterni e immutabili.

L’autorità è un bisogno vitale di ogni società, non solo per garantire l’ordine e la tradizione, ma anche per governare il cambiamento e cavalcare la tigre della trasformazione. Quando manca una norma e una tradizione a cui attenersi, là insorge il bisogno di un’autorità che colmi quel deficit con la sua autorevolezza.

L’autorità è un onere prima di essere un onore, è una responsabilità e non un privilegio. Solitamente è un argine contro gli abusi, le violenze e le ingiustizie; solo degenerando diventa essa stessa abuso, violenza e ingiustizia. Allora sorge l’autoritarismo, dove il rapporto costitutivo dell’autorità si capovolge: non è l’autorevolezza a decretare il potere, ma il potere a decretare l’autorevolezza. La superiorità, da causa diventa effetto. Ma il potere senza autorità è abuso, la forza senza autorità è prevaricazione, il comando senza autorità è sopraffazione. Perché l’autorità è una legittimazione sul campo, fondata sul merito e il talento, la cultura e la capacità, la competenza e l’esperienza, e nei livelli più alti il carisma e la sapienza. Non è un bisogno di chi la esercita, ma di chi la segue.

Quando diciamo che mancano le guide o gli educatori, i modelli e i punti di riferimento, le classi dirigenti o le vere élite, parafrasiamo il bisogno di autorità. Urge l’auctor, in ogni campo. Visibile, credibile, affidabile. È l’autorità che distingue una classe dirigente da una classe dominante, per usare due categorie gramsciane. Ma l’autorità è pure ciò che distingue un leader da un esecutore (oggi diremmo un tecnico). Perché il tecnico è esperto di mezzi, autorità è invece chi sa commisurare i mezzi ai fini. Tecnologico uno, teleologica l’altra.

L’autorità garantisce la libertà, sorveglia i propri confini che le permettono di esprimersi e fluire, senzadisperdersi, esondare o capovolgersi nel suo contrario. La libertà ha bisogno dell’autorità e viceversa. La negazione dell’una o dell’altra o la coincidenza dell’una nell’altra segna la fine di una civiltà. E tutti coloro che le hanno teorizzate, se non si sono perduti in forme utopiche o anarchiche, hanno promosso, avallato o abbracciato soluzioni dispotiche e liberticide.

Oggi tutti parlano della libertà, ma chi osa evocare l’autorità e ricercarne gli uomini, i segni e i ruoli? Che sia questo il compito di questi anni e, in Italia, di questa delicata fase di transizione cieca? Facile l’obiezione:chi sono, dove sono, le forme e le élite in grado di incarnare l’autorità? Certo che non si vedono, ma intanto aprite le porte, intanto cercate, scrutate, riconoscete...

(di Marcello Veneziani)

1 commento:

  1. Veneziani scrive a chi si vuol sentir dire certe cose. Veneziani è passato come sono passati quelli che abboccano alle sue parole.
    Autorità, autoritarismo, rifiuto del mondo moderno, critica alla libertà, all'uguaglianza e alla fraternità. Mi sembra veramente di rileggere un copione già scritto da altri, riaffermare i soliti ideali di un gruppo che ormai si è disciolto all'interno di una società che deve cercare nuovi valori, e che dovrebbe attualizzare quelli vecchi ormai patrimonio comune. Occorre riscrivere le regole del gioco, ma in che modo? Certo non riproponendo stantii concetti di autorità. Criticare l'autorità delle banche, del mercato, di quello Stato che ormai non ha più il potere di una volta, non significa dover accettare l'autorità intesa come imposizione di una presunta tradizione condivisa, di un qualcosa di trascendente che tutti ci accomuna e protegge. Accomuna chi poi? Parli per se il sig. Veneziani.
    Autorità, tradizione, verità dogmatica sono concetti che ormai hanno fatto il loro corso. Ebbene si, al progresso invece si può ancora credere, ma soprattutto si può trasformare questa retrodatata autorità in autorevolezza, quella che riconosce un popolo sufficientemente istruito a una classe dirigente responsabile.
    Veneziani è passato, può scrivere a tutti quelli che orbitano in una destra veramente terminata.

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