lunedì 12 dicembre 2011

I rovinati da Berlusconi


Noi, noi che siamo stati
rovinati da Berlusconi, noi che l’abbiamo sempre difeso, restando nei paraggi del suo largo ombrello, adesso che l’ha chiuso per consegnarsi mani e piedi a Pier Ferdinando Casini siamo come i cani. Costretti a roteare su noi stessi per acchiapparci la coda. E venirne a capo.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi, mentre lui ha scelto di dismettere la sua parte politica rovinando l’idea stessa di fazione, non possiamo che abbaiare alle nostre stesse natiche. Come si può essere, infatti, faziosi se quell’idea tutta italiana di guelfi e ghibellini, per tramite dei Pannunzio e dei Longanesi, arrivata agli Scalfari e ai Montanelli, deve adesso risolversi nello scoprire che sulla punta esatta della nostra conclusione (parlo di noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi) abbiamo Emilio Fede, non certo un Indro Montanelli, rovinato pure lui, buonanima, costretto a passare alla storia come un comunista.

Uno che sceglie il campo delle libertà, uno che coglie l’occasione di riemergere dalla marea conformista prendendosi il passaggio di diciassette anni di berlusconismo – l’occasione buona per un punto di vista diverso – si rovina perché si ritrova marchiato da truffatore. Rosicchiamo, infatti, la coda che è il nostro inizio e la nostra fine e finisce che ci ritroviamo a masticare le memorie difensive redatte da avvocati – i furboni d’un tempo – diventati succhiasoldi (di suoi soldi) senza peraltro avergli mai fatto vincere una causa. Se non è una sceneggiatura da commedia all’italiana non è certo tragedia, tutto è parodia e quello che ci ritroviamo cacciato in gola è la coppola storta di don Verzé che nessuna mitezza di Sandro Bondi potrà mai rendere digeribile. I versi, appunto, sono stati fatti perversi dalla bottega politica e finirà che perfino Nichi Vendola dovrà rinunciare alla poesia – non sarà più possibile la miscela di poesia e politica – altrimenti rischierà di essere epigono, una sorta di Guido da Verona davanti a siffatto Gabriele D’Annunzio.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi non siamo soli nella disgrazia. Con noi, rovinati quanto noi, ci sono anche i suoi più rabbiosi nemici: sono quelli contro cui abbiamo incrociato le lame, sono i Roberto Benigni, i Fabio Fazio, ma anche i Michele Santoro, o gli amici del Fatto, quelli che con il loro fucile sempre carico devono sparare alle quaglie adesso che non c’è più Berlusconi. Devono accontentarsi di Mario Monti. Oppure farsi largo dentro il cortile della sinistra come hanno fatto l’altro giorno. Hanno messo in prima pagina Ezio Mauro, il direttore di Repubblica, come a farne una segnaletica. Era stato fotografato allo stadio accanto a Pier Francesco Guarguaglini, l’ex presidente di Finmeccanica, quello dalla liquidazione milionaria. Il direttore e il manager si sono ritrovati seduti accanto casualmente ed è sembrato un vecchio trucco quello del Fatto, uno degno del Sun inglese, della Bild tedesca, il giornalismo da prurito, o meglio ancora uno di quelli che faceva Jo Stajano, lo scandalosissimo primo trans d’Italia che si appostava accanto agli irreprensibili ministri cattolici per farsi fotografare e poi far scrivere ai giornali scandalistici: “Che ci faceva l’invertito Jo col ministro Clelio Darida?”.

Berlusconi, insomma, ha lasciato una grande fregatura a chi l’ha amato e a chi lo ha odiato ma a voler stabilire chi è più malandato – chi, più infelice, tra Augusto Minzolini o Roberto Saviano – è ovvio che sia il direttore del Tg1 quello messo male perché se Saviano potrà far conto sulla rendita aureolare, Minzolini che fu quel dio del taccuino retroscenista non riuscirà a rendersi credibile quando darà le notizie da Parigi, da New York o da qualunque luogo sceglierà di andare dopo la sua ovvia epurazione perché, poi, tutti, non guarderanno la Tour Eiffel o lo skyline dei grattacieli alle sue spalle ma solo e sempre – tutti – penseranno all’Enciclopedia Treccani. Quella che si teneva dietro nei suoi editoriali.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi, dovevamo capirla l’antifona quando già l’avevano dovuta capire i terzisti. Il mancato abbraccio con il mondo di Luca Cordero di Montezemolo, di Paolo Mieli, di Lamberto Dini, di Renato Ruggiero che fu ministro degli Affari esteri con Berlusconi per poi tagliarla lì, subito subito, è l’errore degli errori del berlusconismo. Tutto quel mondo presentabile che stava con lui di nascosto per vedere l’effetto che fa nel “vengo anch’io” non aveva che da aspettare un fischio per fargli da classe dirigente. Sono stati molto tentati e, pur vestiti di terzismo e di distacco, certamente l’hanno votato.

Certo, non volevano farsi fotografare con Silvio, giusto per non cadere nella trappola di Jo, ma gli editoriali di Piero Ostellino e di Pigi Battista, le aperture di credito di Sergio Romano (ma anche quelle di Mario Calabresi, direttore della Stampa, ben lieto di liberarsi di Barbara Spinelli, “pubblicata anche quando non eravamo d’accordo”), poco potevano quando, vedendosi sfilare sotto il naso gli Stracquadanio, le Brambilla e i Frattini, hanno rivisto un vecchio film, quello dove i compagni di cordata vengono trasformati in camerieri. Anche Mike Bongiorno se ne andò via da lui, se la filò con Fabio Fazio e perfino Mediaset, pupilla dei suoi occhi, perse smalto con lui regnante per conclamato conflitto d’interessi laddove l’interesse non deve essere qui inteso in termini di propaganda o di news drogate bensì in raccolta pubblicitaria. La battaglia per la pubblicità di un tempo, infatti, ai tempi gloriosi di Marcello Dell’Utri, non era rivolta contro i film d’autore ma per vincere la concorrenza e, ahinoi, hollywoodizzare l’Italia.

Arrivandogli le inserzioni in forza del ruolo, invece, ci si sedeva sul comodo, tutto era dovuto ed è perciò che si rovinavano le ballerine, si rovinava il meraviglioso Bagaglino, si rovinava il gareggiare con la Rai e chissà cosa diventerà poi quella formidabile macchina (finalmente liberata) col figlio, Piersilvio, formidabile di suo, che però si dedica un giorno sì e un giorno no a dichiarare al Corriere della Sera di voler assumere Giovanni Floris. Come se il povero Alessio Vinci, cui è toccato in eredità “Matrix”, fosse un arancio caduto a terra e non il campione strappato alla Cnn. Ecco, nel buttarsi a sinistra metterà Curzio Maltese alla direzione del Tg5.

E ci sarebbe da aprire il foglio del libro più scottante, quello dell’informazione, con tutta la pittoresca pletora della pubblicistica che s’è raccolta nei giornali di destra. O in tivù. Non senza i famosi “nuovi Santoro”. E la macchina del fango, poi, ridotta a cacchina: con quello straordinario scoop di Claudio Brachino sui calzini del giudice Mesiano.

Noi, noi che siamo stati rovinati da Berlusconi la smetteremo di raccontarcela in privato e prima o poi, anche il grandissimo Vittorio Feltri, riconoscerà che gli Angelucci – e stiamo dicendo gli Angelucci! – al confronto con tutta questa fiera delle improvvisazioni al ribasso, sembrano tanti Lorenzo de’ Medici.
Tutti pensano che Berlusconi abbia rovinato Marco Travaglio o Roberto Benigni (Sabina Guzzanti no, perché annoiava già da prima) ma non è così, anche Santoro troverà la strada per tornarsene in Rai. Quelli che si sono veramente rovinati sono quelli della struttura Delta (Mauro Masi, facciamo per dire, prima di Silvio, era stimato nell’ombra, prendeva premi, eccelleva) tutti quelli che si sono tinti i capelli come lui e noi, noi che l’abbiamo sempre difeso anche quando – rispetto al cane di cui sopra – noi che avevamo tutti i buoni motivi per dire: “Ma ‘u cani non è mio!”, siamo ro-vi-na-ti.

Noi, tutti noi coscientemente finiti in malora, ci siamo rovinati nel diventare macchiette e cosa dovevano essere allora i Sindona o lo stesso Riina per un Andreotti, ora che il furbo, per noi deve essere Valterino Lavitola?

Noi, tutti noi precipitati nella rovina, a suo tempo l’avevamo scritto, qui, sul Foglio, il lungo elenco di tutti quelli rovinati da Berlusconi. Un gran signore come Jas Gawronski, un analista della politica come Mimmo Mennitti, un filosofo come Lucio Colletti, un genio della tivù come Agostino Saccà e tutta un’infinita teoria di uomini, proclamati di volta in volta, “braccio destro”, ingoiati dall’oblio. Proviamo a farne i nomi… ecco, non ne ricordiamo uno. Forse Alessandro Meluzzi? Nel rovinio ci sono anche tutti quelli che sono mancati all’ultimo appuntamento, quelli come Roberto Antonione e Gabriella Carlucci (per un pelo anche Ghedini), danneggiati in finale senza neppure vantare il privilegio dell’estrema scilipotizzazione. E restare così – da rovinati – nel cuore di Berlusconi.

L’ultimo che gli resta da rovinare a Berlusconi è se stesso. Tutto cominciò con una frenesia a volte trattenuta, a volte sparata coi fuochi d’artificio. E in tema di fuochi non si può dimenticare quella prima campagna elettorale, Silvio Berlusconi contro Luigi Spaventa, collegio Roma centro, con gli amici che si raccomandavano con Duccio Trombadori di far votare bene la sua mamma. Votare Berlusconi alla Camera non era un problema. Al Senato c’era da votare per Giulio Maceratini, fondatore con Pino Rauti di Ordine Nuovo. E Duccio Trombadori, occhi al cielo, diceva: “Ma come faccio a dirglielo? Mamma è stata partigiana! Faceva la staffetta partigiana. Portava materiale clandestino all’hotel Flora!”.

Tutto proseguì nel finire del secolo scorso, il Novecento moriva dolcemente e alle signore s’alzavano i calcagni. Fabio Granata se ne partì per Arcore e si ritrovò nei prati di “una storia italiana” con tante hostess che gli facevano i test per il casting elettorale. Fece il suo ingresso in società Daniela Santanchè e con lei capitava di vedere, nei convegni dell’Italia che scende in campo, Paola Ferrari e Alba Parietti. Berlusconi vinse le elezioni e alla Camera, in Transatlantico, passò da lì Ignazio La Russa che si sentì chiedere da Luigi Sidoti, un deputato di Catania: “Gnazio! Un posto ‘na cultura ppi mia non c’è?”. Tanti diventarono parlamentari, si ritrovarono alla Camera tanti che non erano messi nel conto e tutta un’Italia mai rappresentata si ritrovò alla ribalta anche facendosi danni da sola in forza di ingenuità e per far passare tutto in cavalleria.

Tutto ebbe a proseguire e i colleghi dei grandi giornali dicevano, “insomma, scrivetelo un diario”. E, insomma, l’abbiamo fatto questo benedetto diario. Al Caffè della Pace, dietro piazza Navona, misero un cartello tipo “i signori fascisti sono pregati di accomodarsi altrove”. Si andava tutti al Rubirosa, c’era la buonanima di Pinuccio Tatarella, c’era Filippo Milone, l’attuale sottosegretario alla Difesa, che cantava benissimo (altro che Apicella) e c’era Italo Bocchino, il più lesto di noi, che riusciva a sedere a un tavolo vicino a quello di Paolo Berlusconi. C’era da farsi avanti, con Salvatore Sottile, al Secolo d’Italia compilavamo i questionari che Repubblica sottoponeva a Teodoro Buontempo. Alla domanda sull’autore di riferimento gli scrivevamo “Camille Paglia”. Teodoro ci diede soddisfazione perché poi se lo studiò bene bene “Sexual personae”, c’era proprio da farsi avanti e quando io, io che sto rileggendo il mio diario, dissi a Paolo Mieli di essermi formato sulla Nue e sul catalogo Einaudi giustamente ebbi in risposta un “ma che palle!”.

Tutto ebbe a proseguire perché tutti volevano il nuovo. Ebbi perfino una sbandata da think tank, una piccola ubriacatura liberale a forza di frequentare i convegni di Marcello Pera e sto scoprendo da quei vecchi quaderni che mi piaceva perfino Woody Allen – ne sono rinsavito a colpi di Martin Heidegger – solo che adesso, specie di questi tempi, con la barzelletta che s’è rovinata ogni reputazione, appena dico: “La sapete quella?” mi ritrovo guardato male e non posso rifugiarmi nell’avanspettacolo. Tutto è esaurito, tutto è cancellato.

Ma è l’epoca che interessa, non il privato, Berlusconi ha maneggiato la politica senza conoscerla, disprezzandola, ingaggiando gare col Corriere della Sera sulla conoscenza di tutto Luigi Sturzo, cui si paragonava, facendo man bassa col ghostwriter di turno. Tutto però è politico e la rovina è solo quella della weltanschauung – larga quanto si vuole, eccentrica quanto basta, arcitaliana nell’aspirazione – che non ha più avuto modo di accordarsi con questo qui, l’uomo del fare, che s’è svelato per l’uomo dell’io-io-io che non è proprio un raglio ma il muro invalicabile dove si sfascia ogni noi. E quando si va dal dentista ed entra l’igienista dentale, ecco, tutti, tutti noi, le controlliamo lo stacco di coscia. O il decolleté.

L’ultimo che gli resta da rovinare – l’ultimo amante da tradire – è se stesso. E anche chi non è stato né con Berlusconi né contro Berlusconi, a riprova che in Italia il né-né non è possibile, si ritrova rovinato. Anche chi non ne ha beneficiato viene marchiato. Anche noi né né. Appena ne parli male, ecco, “corre verso il carro del vincitore”. Quando ne parli bene, ecco, “lo stipendiato”. Mai una volta che si possa fare un esercizio di critica, e quindi, è chiaro: ecco, sono rovinato.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

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