martedì 27 dicembre 2011

Il genotipo antifascista della generazione Bocca


Molte cose si possono rimproverare al fascismo, ma certamente non d’aver trascurato la salute del suo vivaio in tuta da ginnastica. Prima di sputare l’anima, Giorgio Bocca ha scavallato con lucida ostinazione i novant’anni. E come lui ce n’è una turba, di intellettuali coi fiocchi o politici di lunghissimo corso il cui nero destino di morte li coglierà idealmente in piedi, forse sull’attenti, in omaggio alla loro classe d’età. Non alle idee o alle esperienze della giovinezza: questo è evidente, ma in fondo può essere marginale.

Di rado è concesso a qualcuno di esprimersi a nome di una generazione senza risultare ridicolo – troppo nostalgico se già canuto o troppo ambizioso se ancora in fiore. Ma a differenza delle generazioni pulviscolari del Dopoguerra, Bocca e i suoi (più o meno) contemporanei hanno invece questo, dalla loro parte: ci appaiono come una comunità di destino anche laddove la sorte li abbia messi gli uni contro gli altri. Bastardi o leali che fossero, partigiani, fascisti, badogliani o semplici figli di puttana, li diresti comunque fratelli di latte, figli di un Io collettivo, progenie di un genotipo che negli anni ha perso consistenza. (Lo si dirà sempre meno sottovoce, fino al giorno in cui saranno tutti altrettanti sepolcri e finalmente la storia si prenderà in dolce custodia la memoria delle nostre viscere sanguinolente).

Capita, scorrendo alcune foto seppiate scattate all’inizio del secolo scorso, d’individuare negli avi nostri certi volti, certe espressioni e profondità di sguardi e di vita interiore ormai stranieri alla contemporaneità. Quasi anime mai più incarnate. Anche anime porche, anime ubriache, anime nere, naturalmente. Ma vive. Ma accese. Ecco, quelle persone – osiamo, osiamo – erano o sono come Giorgio Bocca. Magari gente che quando ha scelto l’antifascismo lo ha fatto spesso perché il fascismo non sembrava fare abbastanza sul serio; e quando ha dato di fascisti leggendari ai brigatisti rossi lo ha fatto per manifesta incomprensione della propria obsolescenza narrativa.

Nel caso di Bocca è giusto riconoscere una durevole capacità di leggere il suo presente, in modo fazioso e a volte strafottente, ma sempre tonico, atletico e infine anche recriminatorio. Con il procedere dell’età, i coetanei di Bocca hanno variamente riconosciuto la dismisura che corre tra la forza formatrice ricevuta in gioventù e la feroce indifferenza riscontrata nei loro nipoti, hanno conosciuto il rimpianto di un lessico famigliare. Si sono sparati addosso, hanno praticato il brigantaggio e il rastrellamento, a volte hanno sbagliato patria: la Germania o l’Unione sovietica al posto dell’Italia risorgimentale, il cui sogno di radiosa compiutezza è stato identico nel cuore fascista di Ezio Garibaldi come in quello di suo fratello Sante, esule in Francia. Possibile riconoscere questa verità, e libare agli eroi e ai dannati senza sentirsi traditori del proprio lignaggio? Non ancora.

(di Alessandro Giuli)

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