martedì 17 gennaio 2012

Adesso anche la Chiesa "riabilita" il Gentile teologo


Quando il Papa-filosofo Ratzinger disse che sono più vicini a Dio gli inquieti non credenti che i devoti per routine; quando il cardinal Martini, facendo il verso al papa laico Norberto Bobbio, disse che la vera differenza non è tra chi crede e chi no, ma tra chi pensa e chi no; e quando il teologo Vito Mancuso ha sostenuto che il senso della fede dev’essere stabilito solo dalla ragione, tutta questa santa e illustre comitiva fa un incontro inconsapevole ma imbarazzante: con Giovanni Gentile. Sì, il filosofo del fascismo, ma qui la politica c’entra poco e il fascismo ancor meno. Semmai il filosofo condannato dalla Chiesa per i suoi scritti sulla religione, e questo imbarazza di più.
Potrei citare tutta l’opera gentiliana che coerentemente negli anni esprime la sua posizione su Dio e la religione. Per chi vuole approfondire c’è il corposo La religione (uscito da Sansoni nel 1965) dove sono raccolti i suoi principali scritti e discorsi sulla religione, Dio, il modernismo. Ma tra questi vi invito a leggerne almeno uno: la sua conferenza del 9 febbraio del 1943 a Firenze, La mia religione, che è il condensato del pensiero gentiliano su Dio e la filosofia. Con lo stesso titolo Miguel de Unamuno aveva scritto nel 1910 un testo mistico ed eretico. Raffrontate il discorso gentiliano con il testo di pochi mesi antecedente del suo sodale-rivale Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, una riflessione limpida ma laica sulla religione, considerata più come fattore storico e morale di coesione civile, come per «gli atei devoti». In Gentile, invece, c’è uno spirito fortemente religioso, come notò Del Noce, e un’aperta professione di fede non solo cristiana ma cattolica. E tuttavia, la sua opera fu condannata dalla Chiesa, che non sbagliò dal profilo dottrinario.
Cosa sostiene Gentile? Innanzitutto notate l’approccio personale: come Mancuso premette già nel titolo del suo libro l’Io a Dio, così Gentile premise il pronome possessivo alla religione; la mia religione, il mio cattolicesimo, sempre in prima persona. In secondo luogo, Gentile ricorda alla Chiesa che lo ha condannato che fu lui quando era ministro a reinserire il crocifisso nelle scuole e l’insegnamento della religione; ma la sua idea originaria era che rimanesse nelle scuole di primo grado. Per una ragione filosofica e non didattica: perché per Gentile la religione è la filosofia per l’infanzia, è lo stadio primitivo del pensare, è metafisica per il popolo. La religione deve accompagnare i primi anni di studio, poi tocca alla filosofia. La religione, però, non deve restare in ambito privato, ma farsi pubblica, comunitaria. Sono belli e toccanti, nel discorso fiorentino, i ricordi di Gentile della sua infanzia, la fede inculcatagli della madre, la sua voce che risuona nella sua memoria; e poi del sacerdote don Onofrio Trippodo, precettore dei suoi figli, di cui ricorda una lezione: l’importante è credere in Dio, anche se ciascuno a modo suo. Due ricordi citati per rafforzare la sua idea della religione come educazione morale e spirituale puerile, impartita dalle madri, che da adulti diviene libera professione di fede. A ogni io il suo dio.
È curioso notare che nella sua conferenza Gentile rivendica il diritto, anzi la virtù, del libero pensiero nella religione. Ognuno è cattolico a modo suo, dice Gentile, niente pensiero unico imposto dalla Chiesa. La stessa cosa sostiene ora Mancuso. Gentile lo faceva richiamando la tradizione filosofica cristiana e in particolare la poligonia teorizzata da Gioberti. Peccato però che il Gentile filosofo politico contraddica il Gentile filosofo religioso e sostenga invece che la libertà del singolo qui coincide col volere universale dello Stato. Anche nei Discorsi di religione lo ribadisce: lo Stato è un solo, grande uomo e coincide con il suo popolo. Un uomo, un popolo, uno Stato. Perché lo stesso impianto monistico non vale per la religione - un papa, un’ecclesia, una dottrina e un’istituzione? La libertà che per il cittadino deve identificarsi nello Stato, non s’identifica invece per il credente nella Chiesa. La poligonia religiosa non diventa pluralismo in politica. Bella incoerenza.
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Secondo Gentile la religione nel suo grado più alto si risolve nella mistica, in cui l’io si annulla in Dio, il soggetto nell’oggetto. La filosofia realizza la sintesi tra soggetto e oggetto, tra Io e Dio; una sintesi che non si compie una volta per tutte, ma è processo incessante dello spirito. «La religione vive dentro la filosofia».

Non più dunque itinerarium mentis in deum, come voleva San Bonaventura, ma il suo contrario: itinerario di Dio nella mente, ossia nella filosofia. Il Dio di Gentile vive dentro la filosofia, che a sua volta vive nella storia dello spirito. Con altro linguaggio Heidegger aveva sostenuto un processo analogo, la religione è come in una matrioska: la divinità rimanda al sacro e il sacro abita nell’Essere. Ma lo Spirito di Gentile, l’Essere di Heidegger, come l’Uno di Platone e di Plotino, cosa sono? Forse il Dio ignoto di una nuova teologia negativa? È come la radice oscura del Dio cristiano e di ogni dio. È trascendente o immanente? Sappiamo che è nel Pensiero, pastore dell’Essere o luce dello spirito. E tuttavia quel Dio gentiliano è l’ospite inatteso evocato dal cardinal Martini, da Bobbio, da Mancuso e perfino da Papa Ratzinger. Un Dio dei pensanti, non dei credenti. Il Dio cercato dagli inquieti, dice Benedetto XVI, e così diceva pure Gentile concludendo il suo discorso: «La vita è ricerca - come poi ribadirà il suo allievo Ugo Spirito in un’opera intitolata La vita come ricerca - e se vi lascio insoddisfatti, benedetta sia l’inquietudine che vi ho data». Aprendo agli inquieti, il papa filosofo mira a ricucire non tanto lo scisma di Martin Lutero, ma l’altro scisma tedesco dell’altro Martin: Heidegger, e con lui la filosofia tedesca. A cui si abbeverò pure Gentile, nel versante idealista. I circoli viziosi ma divini della filosofia con la teologia.

(di Marcello Veneziani)

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