sabato 21 gennaio 2012

Ma quale Cuba libera qui si muore di dittatura


All'inizio di gennaio era toccato a René Cobas, 46 anni, dissidente cubano in carcere, colto da infarto mentre faceva lo sciopero della fame. Adesso arriva la notizia della morte di Wilmar Villar, 31 anni, anche lui detenuto politico: era giunto al suo 50° giorno di digiuno…

È invece viva e vegeta, per fortuna, Yoani Sanchez, la blogger di Generacion Y che Time ha incluso nelle 100 personalità più influenti del pianeta. Tanto influente in patria non deve essere, visto che negli ultimi quattro anni il governo cubano le ha negato per 18 volte il visto per uscire dal Paese... L'ultimo divieto è di questi giorni, nonostante le aperture natalizie del presidente Raùl Castro in materia di espatrio.

Resta in carcere, infine, l'americano Alan Gross, condannato a 15 anni per crimini contro lo Stato: avrebbe aiutato la comunità ebraica cubana a installare una rete Internet «controrivoluzionaria».

Ogni volta che Cuba torna alla ribalta della cronaca, si ha la sensazione del deja vu: da un lato i sostenitori della piccola «isola rivoluzionaria» impegnata a difendere il proprio comunismo nazionale dal vorace e vicino capitalismo yankee forte del suo embargo economico; dall’altro i critici dell’ultimo «gulag» ancora esistente, con gli oppositori sbattuti in galera, la censura e le condanne a morte, la caccia agli omosessuali, la crisi economica per incapacità politica. È davvero così?

Al museo Alejandre de Humboldt, nell’Avana vecchia, fa bella mostra di sé la replica di un dinosauro di cinque metri di altezza e dodici di larghezza ritrovato nel 2001 da paleontologi messicani nel deserto di Coahuila. Castro (Fidel come Raùl) è come quel dinosauro, solo che è un originale e non una copia, un dinosauro immerso nella sua era, alla sua era sopravvissuto. Politicamente a Cuba non c’è il comunismo di Fidel (o di Raùl), ma il fidelismo (e ora il raulismo) del comunismo. Fidel Castro è stato ed è un caudillo latino-americano che si servì del comunismo, inteso come alleanza con l’Urss, per rafforzare e mantenere il potere.

Era un’alleanza per certi versi obbligata, non tanto e non solo dalle circostanze internazionali, ma soprattutto perché una partnership di quel genere era l’unica che potesse far fronte alla incapacità economica da un lato, al pericolo di una contestazione politica dall'altro. «Il costo economico della Cuba castrista - ha scritto Carlos Franqui nell’autobiografico Cuba, la rivoluzione: mito o realtà? - era mostruoso, ma Cuba era il cavallo di Troia del comunismo in America latina, in Africa e nel Terzo mondo, sosteneva il movimento di guerriglia, le guerre africane e costituiva una formidabile piattaforma militare e spionistica a novanta miglia dal territorio degli Stati Uniti. La vita era austera, ma non insopportabile. Dal punto di vista materiale, il crollo del sistema sovietico ha privato i cubani di tutto».

Per chi nel 1959 aveva ereditato un’economia solida, come Castro stesso si era vantato dicendo di aver fatto «una rivoluzione senza esercito, contro l'esercito, in assenza di una crisi economica», non è un bel risultato.

Quello che oggi resta è una gerontocrazia, età media 75 anni, una crisi profonda quanto irreversibile del sistema, l’ipotesi di una «via cinese» (liberalizzazioni, capitalismo di Stato eccetera), ma anche quella di una seconda Haiti, un malcontento generale, o anche una apatia, l'aver fame di tutto, ma non credere in niente, la vita come diffidenza.
Non è un caso che in quella che è stata chiamata la «narrativa del disincanto», ovvero la Cuba narrata dagli scrittori cubani che a Cuba sono rimasti, non se ne sono andati, ad emergere è un’isola colta nella sua glaciazione politica ed ebollizione umana: emarginati, prostitute, arrivisti, mendicanti, emigranti (balseros che se ne vanno e gusanos che ritornano), pazzi, drogati e soprattutto omosessuali (di ogni sesso e tendenza), quasi tutti segnati da scetticismo, scoramento, e a volte dallo squallore più amaro…

La rivoluzione, insomma, è andata a fondo e ciò che rimane a galla sono i relitti del sistema da un lato, i naufraghi dal fallimento dall'altro. Chi si aggrappa ai primi difende lo status quo, non un’idea, chi nuota fra i secondi si preoccupa semplicemente di non affogare. Ciò rende impossibile qualsiasi relazione che vada al di là di una semplice constatazione dei rapporti: chi ancora detiene il controllo ha smesso da tempo di credere nell’indottrinamento, nella convinzione e nell’esempio come arma del consenso, chi ne è succube è consapevole che è comunque il tempo a lavorare in suo favore e si accontenta di durare. Sopravvivere è il suo modo di combattere.

Via via, dunque, che l’attualità da raccontare si rivela sempre più privata e sempre meno pubblica, ovvero si finisce per considerare la res publica come un altro da sé reale, ma non essenziale, l’orizzonte intellettuale si restringe, si fa narcisistico-individuale, non riesce più a essere costitutivo di un’epoca, di una società, di una classe sociale. Negli anni Sessanta, quando Cuba era ancora un esempio e per certi versi un modello, lo scrittore Alejo Carpentier aveva osservato che «nella maggior parte dei romanzi di Balzac i personaggi sono tutti segnati dagli eventi della loro epoca.

Tutti vivono in funzione di qualcosa che è accaduto: la rivoluzione, il crollo dell'impero, la restaurazione della monarchia, i fermenti rivoluzionari». Cinquant’anni dopo, questa sorta di balzacchismo fatto di illusioni perdute, illusioni disattese, illusioni rubate, illusioni sbagliate, ha lasciato il posto all’assenza, più che alla fine delle illusioni stesse: ciò che resta è l'accettazione di una sorta di limbo contemporaneo in cui rifarsi al passato è impossibile, criticare il presente è vietato, sognare un futuro è velleitario e in fondo inutile, perché non c’è nulla su cui farlo poggiare.

Il fatto che ancora oggi Cuba possa esercitare un fascino indipendente dalla miseria politico-ideologica, dalla sua pratica quotidiana, dall'anacronismo di una satrapia familiare cinquantennale, dal contrasto stridente fra una teoria libertaria e una prassi concentrazionaria, la dice lunga sull’incapacità in una certa sinistra di fare i conti con la realtà.

(di Stenio Solinas)

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