lunedì 27 febbraio 2012

Cassa integrazione, istituto superato. Impariamo dalla Svizzera


In era preindustriale non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati «servi della gleba» (più correttamente chiamati servi casati) è vero che non potevano lasciare i campi del feudatario, ma non potevano nemmeno esserne cacciati. Nel settore artigiano era proibita la concorrenza (si vadano a leggere gli statuti), la stella polare del sistema nato con la Rivoluzione industriale. Le terre erano divise non secondo il criterio del maggior rendimento ma dell’equità sociale (G. Felloni, "Storia economica dell’Europa dal Medioevo all’Età moderna"). Il concetto di base era che ogni nucleo familiare doveva avere il suo spazio vitale. Non era un sistema particolarmente efficiente ma era umano, non era particolarmente razionale ma era ragionevole.
Ma questi erano gli scandalosi «secoli bui». Oggi noi tutti parliamo tranquillamente di «mercato del lavoro» senza più percepire l’ignominia di questo concetto.

Il lavoro, cioè l’uomo, è diventato una merce come un’altra, che si può vendere e comprare come gli schiavi dell’antichità. Ma finché il sistema è questo, in attesa che crolli da solo (perché un modello che si basa sulle crescite all’infinito, che esistono in matematica ma non in natura, nel momento in cui non può più crescere, e ci siamo vicini, collassa su se stesso) è all’inverno dei suoi schemi che dobbiamo ragionare. In questo senso la cassa integrazione, della cui abolizione si sta discutendo, è del tutto irrazionale. È stata il modo che l’assistenzialismo clientelare ha assunto nel Nord Italia (al Sud prevalevano le pensioni di vecchiaia fasulle e di invalidità false). Quando il mercato tirava l’imprenditore assumeva e si gonfiava come una rana, quando si contraeva metteva i lavoratori in cassa integrazione, scaricandone il costo sulla collettività. Si chiamava, per l’imprenditore, «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite». Ma il sistema faceva comodo anche al lavoratore. Del 1974 feci, per l’Europeo, un’inchiesta sulla prima cassa integrazione in Italia, alla Fiat di Torino. Parlai naturalmente con gli operai e dopo un po’ mi accorsi che, dietro i piagnistei di facciata, tutto volevano fuorché tornare a lavorare in fabbrica. Erano in maggioranza «barotti», operai di origine contadina che avevano conservato i loro campi. Col 90% circa del salario e tutto il tempo a disposizione per coltivare la propria terra chi glielo faceva fare di cercarsi un altro lavoro? Ma nella stessa situazione si trovavano anche gli altri operai che, lavorando in nero, prendeva in pratica, due salari rimanendo però legati all’azienda con un contratto a tempo indeterminato, indissolubile. Ma questa manna la pagava il contribuente.

Nella vicina Svizzera il lavoratore può essere licenziato in ogni momento e prende un alto sussidio di disoccupazione (come il neolaureato o il neodiplomato in cerca del primo lavoro). Nel frattempo può frequentare, gratuitamente, corsi di riqualificazione che lo orientano verso settori della produzione che in quel momento van bene. Dopo un po’ l’Ufficio del Lavoro gli fa una proposta di impiego. E il lavoratore può rifiutarla. Dopo un altro po’ gliene fa una seconda che il lavoratore può rifiutare. Infine gliene fa una terza che il lavoratore può sempre rifiutare. Ma perde il sussidio. Così invece di immobilizzare forza-lavoro dove il lavoro non c’è come avviene con la cassa integrazione, la smista dove il lavoro c’è. Un sistema semplice e logico. Ma la Svizzera è un Paese jansenista, noi siamo invece bizantini.

(di Massimo Fini)

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