lunedì 14 maggio 2012

Il fallimento di Gianfranco Fini


Avanti così e di lui resterà soltanto l’abbronzatura dal colore autunnale. Un testa di moro sempre fuori stagione, unico elemento di continuità nella carriera politica di Gianfranco Fini da Bologna: l’attuale terza carica dello Stato, già fascista del 2000 con vent’anni d’anticipo, poi berlusconiano atipico, quindi terzopolista con Pier Ferdinando Casini; e oggi relegato nella terra di nessuno, senza nemmeno il preavviso, dal più svelto genero di Caltagirone. La sindrome dell’abbandono è un tratto fondante dell’anatomia patologica catacombale: dal “non rinnegare e non restaurare” di Giorgio Almirante nei confronti del fascismo (a modo suo una prima forma di congedo dalla casa del padre Benito Mussolini) fino al “che fai mi cacci?” rivolto a Berlusconi da un Fini con indice eretto e rabbia liberatoria, passando per il lavacro antifascista di Fiuggi nel 1995, si può leggere in filigrana la microstoria di un mondo incapace di pacificarsi coi propri demoni.

Molto dipende dalla malriposta convinzione d’essere in credito con la verità, per via dell’esilio in patria cui fu costretto il Movimento sociale italiano dal 1945 al ’92 (a parte un’episodica e funesta interruzione nel 1960, con l’effimero governo Tambroni). Anche di qui l’aggressività e una certa sguaiatezza che ancora oggi affiora nel discorso pubblico dei post fascisti. Ma la vicenda di Fini è dopotutto un caso a sé, una storia personale nella quale il branco c’entra poco e molto dipende dalla formidabile certezza d’essere sempre stato un passo oltre rispetto ai consanguinei. Nello stesso Fini che adesso vagola solitario fra la caligine di Montecitorio, il suo regno a scadenza ravvicinata, già alla fine degli anni Settanta abitava un solipsista pronto a immolare anime e corpi per un disegno personalissimo: macellato il Msi, identica sorte avrebbe conosciuto Alleanza nazionale, quindi il Pdl nella versione condominiale con Forza Italia, infine quella parodia del caffè delle Giubbe Rosse che non avrebbe voluto essere, ma è stata, Futuro e libertà. Un rogo continuo alimentato dalle speranze e dalle ambizioni di un sottobosco militante via via rarefattosi, sino a svaporare.

Eppure Gianfranco Fini è sembrato l’uomo politico più interessante del triennio 2009-2011. Per la prima volta la sua inclinazione al parricidio appariva legata all’esigenza di costruire un domani per la destra post berlusconiana, e non soltanto per se medesimo, una strategia e non più solo una tattica. Il Cav. gli aveva offerto suo malgrado, insieme con una strepitosa vittoria elettorale culminata nella presidenza della Camera, l’irripetibile chance di farsi adulto e rivendicare una proposta politica autonoma nel mare grande del berlusconismo. Nasceva così l’idea della destra repubblicana chiamata a incastonare il centralismo carismatico del Cav. in un patriottismo costituzionale più aperto all’Europa e alla laïcité, occhieggiante ai diritti dell’uomo che piacciono alle oligarchie del pensiero convenzionale (vedi la battaglia contro lo ius sanguinis), centrato sul terreno delle responsabilità civili come della legalità coniugata a un certo spirito libertario. Fuor di politichese: chiudere uno stato d’eccezione personalistico nato in piena Tangentopoli e ormai destinato a imminente consunzione naturale, salvando l’esperimento bipolare e la declinazione italiana di una cosa a metà tra il gollismo non dichiarato e il Führerprinzip alla brianzola. Dentro il politichese: andare con Berlusconi oltre Berlusconi. Cioè quello che oggi il democristiano Casini, e non più, e non mai Fini, ha di nuovo a portata di mano. Ma perché? In fondo il monarca di Arcore aveva servito al vassallo Gianfranco pure un’altra, inestimabile cornucopia ricolma di frutti politici: il ruolo della vittima. Berlusconi non sapeva tollerare l’indipendenza di giudizio con la quale Fini, rivestito della neutralità istituzionale garantita dall’incarico a Montecitorio, osava correggere le esuberanze dell’allora premier in materia di giustizia, temi eticamente sensibili, procedure parlamentari e perfino rapporti con l’allora opposizione. Quella fu l’autentica stagione di gloria finiana: chi avrebbe dubitato della sua centralità politica e mediatica? Per i giornali tutti divenne d’obbligo – e conveniente – spiare le prime pagine del Secolo d’Italia di Luciano Lanna e Flavia Perina; i corsivi internettiani dell’avanguardista in bermuda Filippo Rossi, le interviste del più serio professor Alessandro Campi e le più popolari comparsate televisive di Angelo Mellone. La fondazione finiana FareFuturo – pareva illudersi l’osservatore – era il marchio di un modo d’essere destri senza più troppi complessi sottoculturali, con una giovanile malmostosità verso il colonnellume rimasto incollato a Palazzo Grazioli (Gasparri, La Russa, Matteoli) o esodato a suo tempo verso lidi più estremi (Storace).

Berlusconi non sapeva tollerare. E più i suoi giornali incanaglivano, gridando al tradimento, al badoglismo consustanziale, al familisimo immobiliare di Fini (e che due palle con quel cognato in Ferrari domiciliato a Montecarlo), alle sue immersioni vietate e alle sue vacanze spiaggiate con la nuova famiglia, agli incontri editoriali coi potenti di Rcs (come Paolo Mieli, l’ex direttore del Corsera che aveva fatto l’endorsement a Prodi nel 2006); insomma più si urlava contro la ripulitura ultima di un oggettivo cafone corporale come Fini, cui non si perdonava l’audacia di avere d’improvviso delle idee culturali e nemmeno tutte sconce, e più quello saliva nell’applausometro ideale della politica, dei salotti, dell’establishment, dei media, delle logge e delle chiese. Raro esempio di autolesionismo berlusconiano, infine, fu la decisione di metterlo alla porta, “quell’ingrato”. Apice di fama e onore, per Fini, il giorno in cui Silvio Cav.-Zedong pronunciò contro di lui l’atto d’accusa nella direzione nazionale del Pdl, trasformandolo in un martire del libero pensiero con venature da icona pop. In un colpo solo Berlusconi sancì la sopraggiunta senescenza del proprio fiuto politico e la fine di una maggioranza parlamentare che sarebbe stata solo apparentemente messa in salvo da Responsabili e frattaglie varie rappattumate in giro per i corridoi del Palazzo.

Ecco, la specialità finiana sta nell’aver dissipato tutto. Carattere pigro, anima superba in un corpo longilineo sovrastato da una testa ostinatamente quadra, Fini ha lasciato che fosse l’inerzia a occuparsi del suo destino. Ha ritrovato in Casini un’alleanza motivata più da comuni risentimenti che da prospettive politiche (faute de mieux si sarebbe aggiunto Francesco Rutelli). E ha lasciato che i suoi nuovi colonnelli prendessero la testa del coro finiano: Italo Bocchino in maniche di camicia e iPad in grembo a reclamare in prima serata il berlusconicidio sul posto; Fabio Granata a farfugliare di sintesi rossobrune con tutte le consonanti sbagliate in bocca, come nemmeno La Russa; il troppo educato prof. Giuseppe Valditara a sofisteggiare come un Domenico Fisichella senza adenoidi; il radicale Benedetto Della Vedova a costruire castelli di liberismo sulla palude di una destra ancora oscillante tra i Diciotto punti di Verona e l’economia sociale di mercato. Il Secolo d’Italia santorizzato, FareFuturo convertito dal culto di D’Annunzio a quello di Gian Burrasca. Troppo, davvero troppo perché il beverone non finisse per disgustare anzitutto il capo. Il quale ha deciso di sorbire il calice fino alla feccia, pur di poter declamare che senza di lui Berlusconi era politicamente, numericamente, storicamente finito. Dopo un anno di agguati parlamentari andati in vacca, caduti e feriti e transfughi sul terreno, Lady Spread e Giorgio Napolitano si sarebbero incaricati di timbrare il concetto chiudendo il libro mastro del berlusconismo di governo.

Ma quando la Giunta tecnocratica s’è insediata – novembre scorso –, il finismo era già collassato a sua insaputa. Prima ancora che l’elettore ne decretasse l’inanità al netto o al lordo del Terzo polo. Se l’uscita dall’orbita berlusconiana era scontata e per molti aspetti salutare perfino, non lo è stata però la protervia con la quale i finiani si sono accaniti contro il Cav. Di un antiberlusconismo sempre meno carsico, distillato da una destra sempre più chiodata, ci siamo occupati per tempo, individuandone i limiti immanenti: c’erano già Antonio Di Pietro e il Fatto in quota plebea, più i borghesi azionisti e i girotondini del centro storico. E infatti andò che i finiani di concetto rimasero disoccupati, come il generoso Lanna, ripiegarono in una feritoia travagliesca, come la Perina, ovvero si ritirarono al caldo della politologia accademica come Campi. Quanto al post berlusconismo moderato, scaltro e bifido, come poteva Fini illudersi di scavalcare il doroteo Casini? E infatti anche il presidente della Camera è rimasto politicamente disoccupato: assente ingiustificato nei conversari della maggioranza tripartita; incapace di spiegare a se stesso e al suo piccolo mondo nuovo con quale faccia avrebbe potuto scendere a patti con Berlusconi e i suoi dopo aver sottoscritto la vulgata anti Caimano, anti Egoarca e anti Bunga bunga scritta nel palinsesto del popolo di Rep. Ma, al tempo stesso, come si fa ad accoccolarsi intorno a Mario Monti (e Fini a parole lo fa di continuo) senza partecipare dello spirito grancoalizionista che alimenta l’esperimento tecnocratico, sia pure obtorto collo?
Il principio di non contraddizione non è mai stato un problema per l’ex delfino di Almirante: fascista e antifascista, statalista e liberista, guelfo e laicista, bossiano e multiculturalista, anti americano e atlantista, proibizionista e radicale, e via così. In tempi non sospetti fu canonizzata questa spregiudicata logica dell’“et-et” – una versione paracula delle nuove sintesi della Nouvelle Droite di Alain de Benoist e Marco Tarchi – e se ne concluse che per reggere tale vertigine basta non credere in nulla. Al punto da poter ricominciare da capo: nei mesi d’oro del finismo anti Cav. sentimmo dire (in privato) da un dirigente di Futuro e libertà che il loro antifascismo di maniera era in definitiva l’unico modo di essere modernamente fascisti (de sinistra e à la page). Eppure non è più sufficiente, qui e ora, ridurre l’equazione personale di Fini al luogo comune (sebbene autentico) del rinnegatore che ha restaurato soltanto il peggio del missinismo. Fini una sua autenticità l’ha via via raggrumata, un profilo di assoluta sterilità è riuscito a darselo, non diciamo uno stile, ma quasi, intonato alla fungibilità universale: io non sono più nulla, tutto mi è possibile essere, che si fa dopo il Cav.? Domanda ormai anacronistica.

Perché la sublimazione figurativa del più sveglio fra i camerati di allora, transitando per lo stadio della riserva repubblicana cui va stretta la casacca del capobranco in cerca di voti, ha prodotto un risultato chimicamente indecidibile e politicamente irrilevante. Non che un giorno Fini non possa tornare ministro, o addirittura vicepremier, in omaggio alla logica del repêchage oligarchico nella quale eccelle il ceto parlamentare italiano. Si fatica, tuttavia, a comprendere in nome di quale pelle, di quale ulteriore incarnazione tipologica l’ex capo di An dovrebbe pervenire a tanto. I suoi caporali lo vorrebbero giù dalla torre di Montecitorio, in piedi fra le rovine a far valere le qualità innegabili della sua oratoria. Ma per dire che cosa? E a chi? A Destra s’indovina il richiamo della foresta lepenista, un magnete custodito da Storace e che già attrae maledettamente i colonnelli ammanettati al Pdl. Al centro non c’è un voto, a parte quelli che Casini non vuole più mettere in comune. Di lato scorre Italo, con Luca di Montezemolo in divisa da capotreno e una paccata di inviti per berlusconiani e tecnocrati che vogliano giocare alla politica con lui.

Desolazione. Quante volte ancora Gianfranco Fini potrà dire “in qualche modo”… “lei fa torto alla sua intelligenza”… “gli italiani sono più informati di quanto lei pensa”… “lei ragiona con categorie del secolo scorso”… “il punto non sono i contenitori ma i contenuti”… senza sembrare quel “disco rotto” che in troppe occasioni gli è servito da banalità metaforica per uscire dall’angolo? Almirante gli ha insegnato che, in mancanza di argomenti politici sonori, si può sempre manifestare “nostalgia del futuro” e vedere l’effetto che fa. Però bisogna per lo meno avere alle spalle uno straccio di popolo, in tasca dei quattrini, in testa un disegno e sopra ancora uno sponsor autorevole. E anche qui non ci siamo. Sondaggi cupi, tesoreria disadorna, Terzo polo dissolto. Ah, gli sponsores: Carlo De Benedetti e il suo Gruppo Espresso hanno vezzeggiato l’ego di Fini pur di farne un pugnale affilato per le Idi del Cav. Adesso hanno altri pensieri, devono cucinarsi Passera e Montezemolo per scongiurare che diventino la prosecuzione sdoppiata del Cav. con altri mezzi e chic. Figurarsi se il presidente uscente della Camera possa servirgli all’uopo. Nella Milano dei Lumi nessuno se l’è mai davvero filato, Fini. Gli hanno sempre preferito Casini e Rutelli, meglio rappresentati nel variopinto patto di sindacato Rcs. Tranne Paolo Mieli, che ama gli sport intellettuali estremi e figura tra i pronubi delle nozze di Fini con Rizzoli (ma provate a dirgli in una stradina buia e deserta che gli ha fatto lui da ghost writer per “Il futuro della libertà” e sentirete la sua sacrosanta smentita affondare nella vostra giugulare). Quanto a Futuro e libertà, agli occhi di Fini ha lo stesso fascino di una Alleanza nazionale in miniatura, ma potrebbe ancora tornargli utile nell’ottica dell’ennesima diluizione in un cartello in cui lui possa continuare a non portare voti e a chiedere una verifica a ogni batosta elettorale.

Deve però essergli chiara la rotta personale, altrimenti il gioco tornerà noioso. E sopra tutto devono aprirgli un uscio nuovo. Ed ecco schiudersi il volto arcigno della realtà: secondo in casa Berlusconi, ai bei tempi; terzo in casa Casini (dopo Rutelli), fino all’altroieri; in un eventuale Partito della nazione a trazione centrista (una roba alla Luigi Federzoni, non aggiungiamo altro) e ibridato con quel che sarà del Pdl dopo la sterzata moderatissima impressa da Angelino Alfano e Angelo Bagnasco, uno come Gianfranco Fini che razza di posto potrebbe occupare? I suoi farefuturisti lo supplicheranno di tornare a D’Annunzio: vado verso la vita, a sinistra! Con Vendola? Ai margini dell’opposizione gruppettara alla nuova maggioranza monstre popolar-post-berlusconiana? Auguri. Altrimenti ci sarebbe lo spazio per una seconda conversione? Servirebbe l’ultima delle facce bronzee per sfilare nuovamente al passo delle oche davanti a Fabrizio Cicchitto e Mariastella Gelmini. Meglio la solitudine. Foss’anche la presidenza di un’Authority grattata a forza di suppliche. Lì poi si lavora poco.

(di Alessandro Giuli)

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