giovedì 26 luglio 2012

Heidegger e il mal di Grecia della Germania che vorrebbe essere Sparta


Corrado Guzzanti dice che quando i tedeschi non capiscono una cosa finiscono sempre per invadere la Polonia. La battuta ci può stare poiché segnala (anche involontariamente), nella costituzione profonda dell’essere germanico, una rigidità schematica di natura recriminatorio-aggressiva. Inutile macerarsi oltremisura sul fatto che la Germania tende a germanizzare il mondo intorno a sé (Umwelt, direbbe Massimo Cacciari) e che l’idealtipo del germano resta un inguaribile romantico (tendenza olio su tela di Caspar Friedrich con “Viandante sul mare di nebbia” in redingote) anche mentre presidia la torretta d’un campo di prigionia.

Andrebbe piuttosto svelato il rapporto intimo di Berlino con la Grecia, un magnifico palinsesto di pulsioni sentimentali al limite dell’erotismo efebico, nel quale però il barbaro ingentilito pretende di esercitare il ruolo del maestro di paideia con il degenere discendente di Tirteo. Johann Joachim Winckelmann, Wolfgang Goethe, Johann Christian Friedrich Hölderlin e Heinrich Schliemann, ma pure Albert Speer con la sua teoria del “valore delle rovine” che sedusse l’animo architettonico di Adolf Hitler alle prese con la riprogettazione millenaria del Reich: sono tutti esempi parlanti di un debito culturale nato dall’incontro di anime gelide riscaldate dalla luce del Meriggio europeo, e che nel tempo inclina verso l’ombra lunga di un impossessamento impaziente (fuori dalla lista figura Friedrich Nietzsche, lui rivendicava con orgoglio sangue polacco e antitedesco).

Ciò che non è dato fare con la poco poetica e molto dominatrice Roma antica – di qui la diffidenza anticapitolina del Mommsen e della sua scuola – i tedeschi l’hanno azzardato con la Grecia.
E’ un caso di scuola antropologico nel quale, come avrebbe detto lui, soggiorna appieno l’esserci di Martin Heidegger, di cui Guanda ha da poco mandato in libreria i “Soggiorni” ellenici (73 pagine, 10 euri, nella traduzione di Alessandra Iadicicco che coglie felicemente un’invalidante versione tedesca di un oracolo delfico in Eraclito, cui oppone l’intuizione perfetta di Giorgio Colli). Il suo è il diario di una crociera risalente al 1962, metafisicamente spettrale come un racconto di Massimo Bontempelli, nel quale l’estenuante ricerca della “grecitudine” (das Griechische) è scandita dal ritmo del fallimento: durante gli scali il filosofo preferisce troppo spesso meditare sull’oggetto del suo viaggio rimanendo in nave, sempre turbato dal timore del tradimento fattuale. Soltanto l’apollinea Delos gli si accenna. Ma Heidegger, prigioniero del soliloquio mentale, non ha la prontezza interiore di ammettere la propria indisponibilità a mettersi “nella dimensione dell’ascolto” (secondo la formula di Walter Otto, autentico amico delle Muse). Conclusione laconizzante heideggeriana: “Il congedo dalla Grecia divenne l’avvento della Grecia”.

Non esiste, forse, frase più perspicua per rendere ragione anche dell’oggi, con le sue intermittenti promesse di abbandono e di salvezza: deve morire la Grecia in sé (cioè l’Europa tutta) affinché rinasca la Grecia in me (l’Euro-Germania). E’ una sentenza che sembra scolpita nel tempio interiore del ceto dirigente teutonico come la proiezione immaginaria della propria essenza irrealizzata. Ed è appunto questa la meccanica che secondo Ludwig Feuerbach spiega (ma è un errore) la nascita dell’idea di Dio nel cuore degli uomini. Sopra tutto è la conferma che la Germania non può che pensare a sé stessa se non come a una Grecia glaucopide chiamata a germanizzare il mondo.

(di Alessandro Giuli)

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