giovedì 2 agosto 2012

Quel film scomodo sul delitto Giralucci


«Gli anni '70 per me sono la scuola elementare, i giochi con le amiche, nascondino, prendersi, alla guerra. Di quel che accadeva intorno a me conservo poche immagini sfuocate, avevo una vaga paura degli uomini con i capelli lunghi, delle manifestazioni, delle scritte sui muri. Una, di fronte a casa di mia nonna, nella periferia di Padova, diceva: “Fuori i compagni del 7 aprile”. Perché “fuori”, perché “compagni”?». Inizia così, con delle bellissime e commoventi immagini familiari girate in un Super8 ancora splendente e con un commento autobiografico letto dalla stessa Silvia Giralucci il suo documentario Sfiorando il muro, diretto insieme a Luca Ricciardi, proiezione speciale fuori concorso alla prossima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia a fine agosto. 

E non sarà - non è - un film che passerà inosservato. Perché per Silvia Giralucci gli anni '70 sono stati soprattutto l'uccisione del padre Graziano, avvenuta nel 1974 nella sede padovana del Movimento Sociale Italiano. Primo - duplice - omicidio rivendicato direttamente dalle Brigate Rosse per cui sono stati condannati per concorso morale Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti e come esecutori Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli, Susanna Ronconi, Giorgio Semeria, Martino Serafini. Silvia aveva 3 anni, il papà - rugbista, agente di commercio e militante missino, appena 29. Ma Sfiorando il muro, con le bellissime musiche di Stefano Lentini non è un lavoro ispirato, neppure lontanamente, da sentimenti di rivalsa. «La mia storia personale - spiega l'autrice che l'anno scorso ha pubblicato per Mondadori L'inferno sono gli altri all'origine di questo documentario - si porta dentro diverse contraddizioni: sono figlia vittima del terrorismo, ma di destra, quindi meno vittima degli altri, anzi, diciamo pure un po' colpevole. Sono figlia di un missino e rispetto la storia di mio padre ma non mi sento di destra». Così nel film non può non documentare gli annuali «Presente!» strillati in strada con le braccia tese ma - dice - «per loro mio padre è un simbolo per me è una persona, ed è qualcosa di più». Ciò che Silvia Giralucci fa è semplicemente cercare di capire, finalmente dal punto di vista di una vittima (come Mario Calabresi e Benedetta Tobagi) dopo le tante - troppe - voci dei protagonisti della violenza, come sia possibile che nel nostro paese l'appartenenza politica «oscurasse persino la pietas per i morti dell'altra parte». Fino a poco tempo fa peraltro. «La prima scena che ho girato - spiega l'autrice - è la targa che ricorda a via Zabarella a Padova l'assassinio di mio padre. Era appesa a un palo perché il condominio non la voleva sul palazzo, poi il sindaco (Flavio Zanonato del Pd, ndr) ha ordinato la sua affissione. Un momento simbolico in cui ho potuto affrontare il mio lutto grazie anche al riconoscimento pubblico». Perché tutto parte da Padova, paradigmatica incubatrice della violenza bipartisan e malefica aula d'insegnamento di cattivi maestri alla Toni Negri. Il professore di Potere Operaio che - ricorda Silvia Giralucci - «non mi ha mai voluto incontrare e quando per caso su un treno ci siamo trovati faccia a faccia mi ha ribadito il suo no senza voler gettare la maschera». Molto diverso è l'ex autonomo Raul Franceschi scappato in Francia per non finire in galera all'indomani del 7 aprile del 1979 quando furono arrestati decine di giornalisti, professori, leader e militanti del movimento e di Potere Operaio (da qui le scritte sui muri «Fuori i compagni del 7 aprile»). Verso di lui la più bella forma di pietas dell'autrice che, non a caso, lavora anche per la rivista Ristretti Orizzonti sul mondo carcerario: «Ho trovato un sopravvissuto a 10 anni di eroina e una persona che ha creduto, onestamente, di poter cambiare il mondo, e che ha pagato carissimo il prezzo di averlo fatto nel modo sbagliato. Una vita alla deriva. Mi sento male a pensare alla sua stamberga alla periferia di Parigi e alla casa veneziana di Toni Negri».

Il film dal taglio cinematografico, con le interviste girate con le tecniche del grande documentarista statunitense Errol Morris, si avvale di un'imponente ricerca di filmati (anche in Super8) e fotografie poco o mai viste. Prodotto da Marco Visalberghi, Sfiorando il muro ha avuto i contributi della Regione Veneto e della municipalizzata padovana AcegasAps ma non quelli del Ministero dei beni culturali. «Il doc - dice l'autrice senza voler suscitare polemiche - non ha avuto un punteggio sufficiente in due diverse richieste. Peccato perché altrimenti lo avremmo potuto distribuire meglio nei cinema».

(di Pedro Armocida)

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