martedì 9 ottobre 2012

Ma il puzzle siriano non torna


Credo che ormai le incaute speranze e i più ancor incauti entusiasmi per le cosiddette “primavere arabe” si siano più o meno volatilizzati. Ci siamo accorti che – a parte l’iniziale “caso” tunisino, che aveva forse preso di contropiede governi e imprenditori occidentali – la rivolta si è invariabilmente indirizzata contro paesi musulmani retti da regimi che, se non democratici, sono (o erano) comunque grosso modo quel che noi – impropriamente – definivamo “laici”.

Nemmeno uno dei ricchi e feroci tirannelli degli emirati, quelli che petrolio e turismo ha ormai resi arciopulenti e che sono interlocutori preziosi di banche e di lobbies occidentali è stato rovesciato. Questa premessa è credo indispensabile per aiutarci a guardar in modo più obiettivo e ragionevole a quel che sta accadendo proprio in questi momenti in un paese-chiave del Vicino Oriente, la Siria.

Già, la Siria: un grande paese, una grande civiltà. Storicamente, l’area che fin dall’antichità era una delle più civili e popolose del mondo – con “culture di villaggio” fino dal VII millennio a.C. e fiorenti centri urbani come Ugarit e Mari dal III a.C. – corrispondeva al territorio oggi occupato dagli stati di Siria, Israele, Giordania e Libano: un’immensa area di più di 310.000 chilometri, anche se in gran parte desertici, vivificata tuttavia dai corsi dell’Eufrate, dell’Oronte e dal Giordano e coincidente pertanto con gran parte della cosiddetta “fertile mezzaluna”, la fascia fertile e popolata attigua a quei grandi fiumi.

Ma oggi, con la parola Siria s’intende un paese che l’impero ottomano aveva organizzato in una provincia dipendente dal governatorato di Adana e che dopo gli infausti accordi segreti Sykes-Picot del 1916 – in violazione con gli accordi presi con le popolazioni arabe locali – fu occupato tre anni dopo, nel ’19, dalle truppe francesi che vi stabilirono un “mandato” purtroppo legittimato tra ’20 e ’22 dalla Società delle Nazioni.

Dopo oltre un quarto di secolo di dure lotte, l’indipendenza fu conquistata solo nel ’46. Nacque così la Repubblica Araba di Siria, 185.180 chilometri quadrati in gran parte desertici, con una popolazione di oltre 22 milioni di abitanti della quale più della metà concentrata nelle grandi città di Damasco, Aleppo e Homs. Dopo l’effimera unione con l’Egitto nella Repubblica Araba Unita, fra 1958 e 1961, dal ’63 lo stato siriano è dominato dal regime monopartitico del Baath (“rinascita”), a tendenza nazionalista e socialista originariamente nasseriana; dopo la crisi della guerra arabo-israeliana del ’67, conclusasi tra l’altro con l’occupazione da parte d’Israele delle alture del Golan (che implica lo sfruttamento israeliano della sorgente idrica di Baniyas e la perdita da parte della Siria dell’accesso alle acque del lago di Tiberiade), dal ’70 il potere è nelle mani della famiglia del generale Hafez el- Assad, deceduto dopo una lunga infermità nel 2000 dopo aver assicurato il passaggio dei poteri al figlio Bashar, il cui ruolo presidenziale è stato confermato nel 2007 da un referendum.

Hafez el-Assad era stato un uomo duro (tristemente celebre la repressione dei ribelli sunniti ad Homs) e le accuse che da parte internazionale pesano sul governo siriano riguardano la violazione dei diritti umani in politica interna, il costante atteggiamento favorevole all’Iran in politica estera, l’atteggiamento egemonico in Libano culminato nel 2007 nell’assassinio del presidente libanese, il sunnita Hariri e nell’appoggio al partito Hezbollah. Tuttavia, sotto altri aspetti, gli osservatori internazionali sono finora stati concordi nel sottolineare alcuni caratteri non negativi del governo di Bashar, che personalmente non ha certo ereditato la spietatezza paterna. Lo stato sociale siriano si è distinto per un buon funzionamento, le istituzioni e le strutture pubbliche reggono bene, il sistema di welfare è nettamente migliore di quanto non sia nella maggior parte dei paesi vicino-orientali.

Le sanzioni imposte dal 2004 alla Siria, sulla base di presunte e mai ben precisate connivenze con il “terrorismo islamico”, erano state finora debolmente applicate e il clima diplomatico, anche rispetto agli Usa, era nettamente migliorato nel 2009. Diversamente vanno le cose con Israele, rispetto al quale pesa il contenzioso per il Golan e i postumi del raid aereo israeliano del 2007 contro presunte installazioni nucleari siriane (la cui esistenza non è mai stata comprovata).

Ma con queste premesse, a parte la “rivolta di popolo” (che è sempre difficile capire quanto e in che misura sia spontanea e da che punto in poi eterodiretta), quali sono le premesse della situazione siriana? Per una sua più corretta comprensione, bisogna valutare anzitutto quattro cose: la Siria è dagli anni Sessanta le più costante, sicura e valida interlocutricealleata in Vicino Oriente dell’Urss prima, della Russia poi; il governo di Assad, di famiglia alawita, controlla un paese all’80 per cento di osservanza sunnita (gli alawiti, non più dell’11 per cento, sono piuttosto un gruppo “sciita-ereticale”) ed è altresì stato sempre, dal ’79, in buoni rapporti con il governo della repubblica islamica dell’Iran, paese sciita; permane l’occupazione israeliana del Golan, con relativo sfruttamento delle sue risorse idriche, nonostante le risoluzioni dell’Onu al riguardo. A margine di questo, andrebbero messe in conto anche l’annosa tensione tra Siria e Turchia dovuta a questioni tanto etnoreligiose quanto confinarie e idriche (le sorgenti dell’Eufrate stanno in territorio turco), nonché la recente scoperta di giacimenti sottomarini di gas nelle acque territoriali turca, cipriota, libanese e siriana.

Una delle considerazioni più importanti da tener presente è anche che gli alawiti chiamati anche nusayri (sciiti “settimimani”, che a differenza degli iraniani riconoscono una sequenza di soli sette imam discendenti di Ali cugino e genero di Muhammad: a differenza della maggioranza sciita, “decimimana”, che ne riconosce dodici), nella cui dottrina musulmana sono presenti anche elementi d’origine cristiana e mazdaica, hanno sempre avuto tutto l’interesse a mantenere in Siria un clima costituzionale che noi definiremmo “laico” in quanto temono l’egemonia sunnita: ciò li ha portati tradizionalmente a fraternizzare con i cristiani che in Siria sono distinti in varie Chiese che in tutto non vanno oltre il 9 per cento, cioè circa 2 milioni distinti tra cattolici greco-melkiti, greco-ortodossi e siriaci d’origine monofisita (ciascuna di queste tre Chiese ha un suo patriarca), oltre a minoranze maronite, armene, e “caldee” che ormai hanno aderito alla Chiesa cattolica ma hanno mantenuto i loro riti liturgici.

Il patriarca melkita Gregorio III Laham è più volte intervenuto (autorevole, ma inascoltato dai media) sull’attuale situazione, sottolineando che non risponde a verità il fatto che i cristiani siano favorevoli al regime di Assad, ma come tuttavia fino ad oggi la costituzione e il governo di Damasco abbiano garantito libertà e tutela alle Chiese cristiane, autentico “anello debole” della società civile siriana, e come esse abbiano invece motivo di temere che, nel fronte ribelle, possano prevalere i sunniti fondamentalisti tra i quali le istanze anticristiane si sono di recente appesantite; inoltre egli ha denunziato come all’interno di quel fronte forti siano le presenze e le ingerenze straniere e occidentali. Insomma, una Siria 2012 che comincia stranamente a somigliare per certi versi alla Spagna 1936. Le Chiese cristiane si sono in generale dette favorevoli al piano di pace proposto da Kofi Annan a nome dell’Onu e dalla lega Araba e appoggiato da movimenti siriani non-violenti come l’interreligioso Mussalah. Analoghe posizioni sono nella sostanza sostenute da uno dei più seri e intelligenti conoscitori italiani della questione siriana, il gesuita Paolo dall’Oglio, che pure è stato sostanzialmente espulso dalla Siria nel giugno 2012 dopo che vi viveva da trent’anni e vi aveva fondato la bella comunità di Deir Mar Musa.

Dall’Oglio è stato espulso perché fino dall’inizio del movimento che noi definiamo “primavera araba” ha sempre sottolineato la spontaneità e la sincerità di tanti soprattutto giovani, che vogliono libertà e chiedono un futuro migliore, nonché le menzogne e le violenze del governo. Il quale ha ottenuto dalle autorità ecclesiastiche cattoliche il suo trasferimento. Ma Dall’Oglio sottolinea in un’intervista a Jesus del settembre 2012 come «il movimento di massa, che all’inizio era di emancipazione civile, si è presto colorato islamicamente». Com’è successo in Libia e come potrebbe succedere in Egitto. Dall’Oglio ha certo ragione quando contesta la teoria del “complotto internazionale” sostenuto da americani, europei e israeliani contro il regime di Damasco: una teoria semplicemente ridicola, come sempre sono le teorie complottiste.

Egli denunzia anche il fatto che, messi alle strette, gli alawiti ancora al governo (che rappresentano un paio di milioni di persone) potrebbero puntare sulla resurrezione dello stato autonomo alawita insediatosi nella zona attorno a Lattakya (nel sud-ovest del paese), che la Francia aveva riconosciuto nel 1922 e che fu eliminato con la fine del mandato francese del ’46: e sostiene che ormai, messo alle strette, Assad che ha visto fallire il suo primitivo progetto di semplice repressione del movimento ribelle ha tutto l’interesse a prolungare la resistenza: cosa che però rafforza, sul fronte ribelle, la pericolosa componente sunnita fondamentalista.

La posizione del Dall’Oglio è onesta e ragionevole. Essa sembra tuttavia sottovalutare due dati effettivi: primo, la forza e l’intensità con la quale i paesi arabi sunniti si sono impegnati per “islamizzare” la rivolta contro Assad, e che ormai appare irreversibile; secondo, che per accelerare al massimo la soluzione del conflitto occorrerebbe non l’invio di una forza Onu a sostegno dei ribelli (come si è fatto in Libia, con le conseguenze che conosciamo), bensì un accordo internazionale al quale per il momento si oppone con la sua forza di veto al Consiglio di Sicurezza la Russia (appoggiata dalla Cina, ma anche da Brasile, India e Sudafrica), in quanto essa chiede attraverso il suo ministro degli esteri Sergheji Lavrov che le trattative si conducano tenendo presenti anche le posizioni del governo di Damasco anziché far di esso un pregiudiziale capro espiatorio. Ma le posizioni russe sono presentate dai media come “unilateralmente” ispirate da una diplomazia che per ragioni legate alla geopolitica e al petrolio sono considerate “unilateralmente” filoiraniane. In modo analogo, è passata sotto silenzio la lettera con al quale l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha denunziato il fatto che «si è insediata in Siria una forza terroristica, ostile a ogni mediazione» e ha smascherato la speculazione mediatica sul famoso massacro di Hula, precipitosamente attribuito alle forze governative Ora, è proprio questa forzatura interpretativa a scoprire una parte importante della realtà.

Qui non si tratta dell’isterico complottismo antiamericano giustamente denunziato dal Dall’Oglio: si tratta della più che ragionevole ipotesi che alla base dell’impegno teso ad eliminare il governo baathista dalla scena politica vicino-orientale ci sia la volontà di alcuni ambienti statunitensi e israeliani di portare un attacco militare diretto contro le vere o supposte installazioni nucleari iraniane. E anche quella è una forma d’isterismo complottista uguale e contraria al complottismo antiamericano: solo ch’è molto più forte politicamente e militarmente; e potrebbe prevalere se – Dio non voglia – i repubblicani vincessero le elezioni statunitensi di novembre.

(di Franco Cardini)

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