domenica 2 dicembre 2012

La sacralità della redazione: così cade anche l'ultimo tabù


Dura lex sed lex diranno i feticisti del diritto, quelli che, come spiegò una volta l'onorevole e poi presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, la toga di magistrato ce l'avevano cucita nel petto. 

E dunque, se si deve arrestare il direttore di un quotidiano si va in sede, si sale nel suo ufficio e lo si porta via. Che volete che sia. Se in ottemperanza alla legge si preleva a forza un bambino all'uscita di una scuola, non si potrà portare via un uomo grande dall'interno di un giornale? Sì, certo, c'è la sacralità della libertà di stampa, la salvaguardia del quarto potere, il giornalismo cane da guardia delle istituzioni, la lettura dei giornali come preghiera kantiana e mattutina dell'uomo laico, la tutela delle fonti e insomma tutto l'armamentario della libertà d'opinione e dello Stato di diritto, ma, appunto, dura lex sed lex. Detto nell'anno di grazia 2012, e visto il pasticcio politico-giuridico che ruota intorno al caso Sallusti, questo principio del Digesto sembra più, con rispetto parlando, una battuta di Totò.

Gli inventori del diritto romano sapevano benissimo che Summus ius summa iniuria, e non c'è bisogno di sapere il latino per capire di che cosa stiamo parlando. Nel tentativo di uscire dall'impasse, si violano le norme più elementari del vivere civile, della dignità professionale, del buon senso. Fino a ieri, quando si perquisivano le abitazioni dei giornalisti e si mettevano sotto sequestro i loro strumenti di lavoro, era tutto un gridare indignati all'attentato contro le libertà costituzionali, oggi si salgono le scale del Giornale in via Negri 4, si porta via, elegantemente blindato, senza manette, ma sotto scorta, il suo direttore e davvero non è successo nulla, davvero ci vogliono far credere che non si poteva fare altrimenti, meglio, non si doveva fare altrimenti? Ma davvero pensano i politici e i responsabili dell'ordinamento giudiziario che ci beviamo la favola del rispetto della legge? Favola, va da sé, che proviene da due caste braminiche che tutto sono tranne che eguali al semplice cittadino quanto a privilegi e guarentigie.

Diceva Thoreau che «sotto un governo che imprigiona ingiustamente, il vero posto per un uomo giusto è la prigione». L'essenza della vicenda Sallusti è tutta qui, ma siccome è talmente evidente, per l'uomo della strada, che andare in galera per omesso controllo di un articolo, è un non senso giuridico ed etico, si sarebbe preferito che Sallusti avesse acconsentito all'«aiutino», tanto la nostra classe politico-giudiziaria assomiglia ormai a un gioco a quiz corredato di pacchi regalo: grazie al jolly, pescato da noi, ti diamo i domiciliari, non sei contento? Così si dà anche il destro a molti servi di scena e di redazione di ironizzare, di fare la morale con il piglio dell'uomo di mondo, gli stessi che pur di far rimettere una querela darebbero in cambio la madre.
La fine di un regime politico la si vede anche da questo, dall'incapacità di misurare le azioni e le conseguenze, dal delirio cieco con cui si ignorano le più elementari regole del fair play, il gioco pulito, il tener conto delle storie, delle persone, di ciò che esse, nel grande come nel piccolo, rappresentano. La fine di un regime politico la si vede quando è incapace di legiferare, fare luce, evitare i fraintendimenti. Niente è più attuale rispetto all'attuale politica italiana del vecchio Tacito degli Annali: Corruptissima repubblica plurimae leges, quando lo Stato è corrottissimo le leggi sono moltissime. Sallusti si è sempre limitato a chiederne una: se sono colpevole vado in galera. Punto, tutto il resto è corruzione.

Per anni, quelli che adesso fanno i giustizialisti col botto si deliziavano con una frase di Gaetano Salvemini: «Se mi accusano di aver stuprato la statua della Madonnina del Duomo, per prima cosa fuggo all'estero». Ma, si sa, Salvemini era un sincero democratico e un vero antifascista. Qui invece c'è un Sallusti pericoloso criminale che non vuole sconti ma, guarda un po', la certezza del diritto. Pur di togliersi un peso, imponendogli quei domiciliari con cui pensano di salvare la capra giudiziaria e il cavolo della politica siamo certi che sarebbero andati a prenderlo persino dentro al Duomo di Milano, perché la sacralità dei luoghi alla fine è un optional rispetto al braminismo delle caste.

Un grande giurista, Salvatore Satta, ha scritto che «il giudizio è una pena, è la sola vera pena. Il genio di Pascal ha fissato per sempre questa verità in un sublime pensiero: “Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme di giustizia, perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per sedizione ingiusta”». Il caso Sallusti è la dimostrazione di uno Stato che il giudizio non sa nemmeno cosa sia. 

(di Stenio Solinas)

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