Il tribunale del buon senso non conosce legittimi impedimenti, sopra tutto quelli di un presidente del Consiglio. L’Amor nostro circola da troppo tempo, come niente fosse, con indosso una bandiera russa cucita sulla manica sinistra dello spolverino e all’altezza del cuore l’aquila bicipite degli zar moscoviti. I simboli contano anche quando a elargirli è un amico. Il fatto che il soprabito del Cav. sia un regalo dell’amico Putin di certo non migliora le cose. Al contrario. Nella migliore delle ipotesi si potrebbe volentieri accogliere il contegno berlusconiano come un cedimento alla moda degli ultras.
E’ noto infatti come i tifosi viscerali delle squadre di calcio amino talora indossare capi d’abbigliamento griffati col marchio delle curve gemellate o con i segni di quelle più toste, cui si vorrebbe somigliare un poco. Il che vale anche per i sostenitori del Milan, dei quali il nostro presidente del Consiglio è primo rappresentante. Ma bisognerà ricordare al Cav. che esiste una gerarchia in nome della quale l’incarico istituzionale viene prima della tifoseria e delle amicizie internazionali? Oltretutto, in mancanza di reciprocità, diventa legittimo il timore di una sottomissione per lo meno psicologica. Quasi una sudditanza, opportunamente rilevata da chi di minorità altrui se ne intende: Financial Times e Wall Street Journal ieri esibivano in prima pagina la stessa foto che immortala il Cav. russificato. Siccome non risulta che Putin vada in giro per l’ex Unione sovietica indossando la mimetica della Folgore o la divisa della Brigata Sassari (e se lo facesse, siamo sicuri che ci piacerebbe?), gli antipatizzanti più fantasiosi ora vanno propalando il sospetto che Berlusconi ami mostrarsi in veste putiniana per lanciare messaggi occulti ai presunti sodali dell’ex Kgb o minacce meno occulte ai propri nemici. Perché attirarsi tale fanghiglia?
Per avere un termine di paragone concreto, si dovrebbe immaginare se i Galli di Francia perdonerebbero mai al loro presidente Nicolas Sarkozy una sua eventuale sfilata per gli Champs-Élysées con la Union Jack britannica cucita sul cuore – e sarebbe pur sempre un evento democraticamente corretto – o se non gli infliggerebbero invece qualche penosa ripetizione di gollismo. Prodigi della grandeur. Nel Millequattrocento il turco Maometto II espugnò Bisanzio, “altera Roma” di Costantino, illudendosi di trarne la legittimazione per dirsi Cesare. Nell’Ottocento Napoleone cercò invano di abbeverare i propri cavalli a Mosca con l’idea di vincere la terza Roma e riportarsi a Parigi il diritto di rappresentare il quarto simulacro della Città Eterna. E il nostro Cav. tricolore? Ha la fortuna di governare nella prima Roma, che se ne fa delle bandiere esotiche?
Un razzismo tira l’altro. La brutta storia di Rosarno rischia di diventare un altro capitolo per dannare il Sud all’inferno. Non accodiamoci per favore alla caccia al sud promossa sulle fasce laterali da Bocca, versante piemontese, e Stella, versante veneto, e come centravanti di sfondamento il leghismo viscerale lombardo. Non c’è una ragione etnica dietro la pagina bestiale di Rosarno, non è colpa del sud. C’è la guerra tra poveri che scoppia ovunque, c’è l’egoismo tribale che prospera al sud come al nord, c’è la paura del diverso che prende più al nord che al sud, c’è lo scarso senso civico che prevale al sud rispetto al nord, c’è la chiusura nel proprio guscio di benessere che predomina nel ricco nord più che nel povero sud e c’è la malavita organizzata che domina in molto sud e poco nord. C’è lo sfruttamento dei clandestini, al nord come al sud, ma i parametri economici sono rapportati alle condizioni di vita e ai livelli economici a cui si riferiscono. E c’è l’inefficienza delle istituzioni, locali e centrali, la scarsa presenza dello Stato, che si vede di più al sud perché più fragile è l’assetto civico e più esposto perché più bisognoso.
I meridionali sono più impulsivi sia nell’offrire l’ospitalità e aprire le loro case, i loro paesi, la loro vita agli stranieri; sia nel passare dall’insofferenza all’ostilità, dalla chiusura all’aggressività. Ma se Rosarno o Casalprincipe sono impensabili al nord, impensabile è pure l’accoglienza di Riace, della Basilicata o della Puglia intera verso i clandestini, la convivenza con gli albanesi e i romeni nel sud intero, l’integrazione dei maghrebini a Mazara del Vallo e in larga parte della Sicilia, il calore napoletano o palermitano verso i poveracci del terzo mondo, certamente più flebile a Torino e Verona, Bologna e Milano. No, il sud non è Rosarno e non è nemmeno la Calabria. È un pluriverso di contraddizioni, di alti e bassi, di generosità e ferocia, di senso comunitario e chiusure tribali. La gente di mare in generale è più aperta e ospitale e il sud è tutto immerso nel mare, più del nord; senza nulla togliere alla malavita napoletana o tarantina, il peggio avviene nell’entroterra, nel cuore duro della Sicilia, nell’entroterra ruvido della Calabria e della Campania, vegliato da ’nrangheta, camorra e mafia.
Il ricordo troppo recente dell’emigrazione dal sud, la persistenza di una fuga anche se di livello più alto dal sud odierno, rendono il meridionale più comprensivo per ragioni biografiche nei confronti dei cafoni che vengono dal sud del pianeta. Sembrano i loro parenti poveri, i loro zii e nonni, la versione in bianco e nero del loro passato, il remake delle foto della loro infanzia. Le società più povere hanno meno terrore di perdere il loro standard di vita e hanno meno paura dell’homeless; la gente che per clima, tradizione e indole va più in giro, è meno preoccupata dall’insicurezza delle strade per la criminalità. Ma soprattutto un dubbio vorrei insinuare a lorsignori. Che le pagine nere scritte da gente meridionale non derivino, come spesso si lascia intendere, dalla natura arcaica e inestirpabile della brutta razza meridionale. Ma provengano in larga parte dalla brutta modernità costruita a sud, tra abusivismo e quartieri da schifo, cattedrali nel deserto e insediamenti eco-rovinosi, egoismi recenti e modelli televisivi e consumistici non veicolati certo dal sud. Insomma, molti dei mali che vengono considerati endemici, ed atavici del sud, sono in realtà derivati dagli scompensi e le contraddizioni della modernità calata al sud dall’alto e dall’esterno, o assimilata al sud dai ceti più furbi e cinici. C’è perfino, sottotraccia, un rozzo leghismo d’importazione che serpeggia a Mezzogiorno.
Il sud che viveva per strada era più aperto e disponibile; è il sud chiuso negli abitacoli delle auto, barricato nelle case a vedere la tv o adorare i feticci del benessere, ad avere più diffidenza verso gli stranieri. Persino la criminalità organizzata è cresciuta ed è peggiorata con la modernizzazione barbara del sud, anziché attenuarsi. È cresciuta non con il familismo meridionale ma al contrario, con il collasso del reticolo famigliare; si è allargata non con il tessuto religioso e superstizioso arcaico ma con il suo declino, fastoso o miserabile. Il sud ha perso il suo antico sistema immunitario, le sue compensazioni culturali e naturali, i suoi contrappesi.
Tutto quel che dico, lo confesso con spietata onestà, dipende anche dall’amore per la terra mia, per la gente mia, per le radici terrone da cui provengo. Sono pur sempre figlio del sud e autore di libri sul sud. Ma, credetemi, quel che dico non dipende solo da quello; deriva anche dal fatto che conosco bene il mio sud, giro, confronto, vedo e vivo il sud, il centro e il nord, vedo e paragono molti nord e moltissimi sud del mondo. Il primo passo non è quello di smobilitare il sud, di scaricarlo all’Africa, di separarsi. E nemmeno quello di promuovere una secessione interna, un'emigrazione interiore, nei meridionali salvabili. Ma è spingere il sud a non vergognarsi di essere sud, a non stare lì col cappello in mano a chiedere sostegni e soldi, ma a reagire alla malavita e alla mala clandestinità con dignità e fierezza. Faccimme vedè che simm signure e tenimme o' core granne e a' mente fina.
La definizione di «Rivoluzione conservatrice» all’apparenza può risultare un ossimoro, una contraddizione in termini. Il termine rivoluzione indica, infatti, il massimo dell’accelerazione in un processo di cambiamento storico, sociale e politico; mentre quello di conservazione esprime una volontà di fedeltà alla tradizione. La storia ha smentito questa visione semplicistica dimostrando la modernità dei conservatori e la loro capacità di essere in alcune fasi autentici rivoluzionari capaci di innescare un forte cambiamento ispirato dai valori tradizionali.
Lo storico tedesco Ernst Nolte, fra i maggiori studiosi contemporanei, da tempo ha intrapreso un percorso, comune a molti pensatori, che da storico dei fatti lo ha portato a indagare la storia delle idee. In questa prospettiva appare chiara la finalità dell’ultimo libro di Nolte pubblicato in Italia La Rivoluzione Conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar (Edizioni Rubbettino, pagg.76, euro 10; a cura di Luigi Iannone), che partendo dalla «corrente di pensiero e di azione politica che si delineò in Germania», alla vigilia della Prima guerra mondiale e più compiutamente dopo ha finito per forgiare una vera e propria categoria storica ancora attuale. Non è un caso che Nolte richiami l’anatomia della Rivoluzione conservatrice messa a punto da un altro studioso, Stefan Breuer, che ascrive a questo fenomeno alcune rivoluzioni terzomondiste dove alla modernità occidentale è stato contrapposto un richiamo alla tradizione.
Nolte individua immediatamente il nocciolo della Rivoluzione conservatrice nel «rifiuto del concetto di tempo lineare e l’accettazione della natura ciclica» della storia, in altre parole il progresso etico e morale di una comunità non è nell’andare avanti verso un cambiamento a tutti i costi ma spesso il progresso di un popolo è nel ritorno costante alla propria tradizione. La Germania non fu l’unico sedimento di questo movimento, in Italia
Vilfredo Pareto e Enrico Corradini, insieme a Gabriele D'Annunzio ma anche il gruppo della rivista La Voce (Papini e Prezzolini) e i sindacalisti rivoluzionari possono essere ascritti alla Rivoluzione conservatrice. In Francia già all’indomani della rivoluzione giacobina del 1789 comincia la rielaborazione dinamica dei valori della tradizione, attraverso grandi scrittori come René de Chateaubriand, Joseph de Maistre e Louis de Bonald, che porterà al nuovo conservatorismo dell’«Action francaise» di Charles Maurras, dove il regionalismo viene contrapposto al centralismo giacobinismo e alle simpatie filotedesche dei liberali.
Per Nolte è riduttivo inquadrare la Rivoluzione conservatrice come una mera reazione al marxismo, piuttosto è «un movimento composto da un nutrito gruppo di intellettuali con premesse molto diverse, che videro nel marxismo e nel comunismo la vera sfida dell’epoca, una sfida di natura non solo politica» e organizzano una risposta innanzitutto filosofica che «fosse all’altezza di quella marxista» muovendosi dalla stessa premessa del falso idealismo dei ceti dominanti.
Il saggio di Nolte traccia i profili delle figure rilevanti della Rivoluzione conservatrice nella Germania di Weimar: da Mann a Spengler, da Kagles a Schmitt, fino a Moeller van den Bruck e Jünger. Il grande affresco familiare dei Buddenbrook, l’opera più famosa di Mann, nel proporre la saga decadente di una grande famiglia del Nord della Germania rende chiara la contrapposizione fra Kultur e Zivilisation, perché non sempre il progresso, la civilizzazione, corrispondono a un reale avanzamento culturale.
La storia non ha un cammino progressivo, che ha un inizio e una fine, dove il dopo risulta essere meglio del prima, essa è piuttosto una «coesistenza di culture diverse» autonome nella loro sostanza, non esiste un Medioevo o un’Antichità, ma ciascuna cultura è nella sua Antichità o nel suo Medioevo in anni diversi. È la tesi che Osvald Spengler propone ne Il tramonto dell’Occidente, successo editoriale del 1918 di un autore fino ad allora sconosciuto, che attraverso una critica serrata a una civilizzazione che è «l’opposto della vita» propone un’idea di Europa culla della cultura occidentale e faustiana. L’opera spengleriana destinata a diventare un classico del conservatorismo anticipa efficacemente l’opposizione al cosmopolitismo cui contrappone la tradizione etica.
Questo contrasto intellettuale tra «sangue» e «intelletto», lo scontro tra volontà di lotta e realtà quotidiana, che altri hanno mantenuto su un terreno di nazioni, trova in Ernst Jünger una spiegazione più filosofica attraverso la nozione di «mobilitazione totale». È l’autore più consapevole che la sfida al marxismo va portata sul suo stesso terreno, quello del lavoro e della condizione del proletariato, ecco perché l’operaio propone una dimensione organicistica e etica della società. Il lavoro è la proiezione della propria personalità non solo un fatto salariale ma una partecipazione alla costruzione dell’equilibrio sociale.
Nella galleria di Nolte il personaggio di gran lunga più significativo della Rivoluzione conservatrice è Carl Schmitt, il giurista che organizza la struttura del diritto nella concezione tradizionalista. Discendente della tradizione cattolica tedesca pone al centro della sua riflessione la crisi della civiltà occidentale perché «cerca di dimostrare che il parlamentarismo liberale ha perso terreno dal punto di vista della storia spirituale e continua a restare in vita solo come vuoto apparato».
La democrazia non è solo quella che esaspera il parlamentarismo perché spesso il formalismo delle parole rende solo apparenti quelli che sono l’essenza democratica «libertà di parola, di stampa, di associazione e di discussione».
Se Osvald Spengler e Ernst Jünger si tennero ben lontani dal nazismo, esprimendo anche coraggiosi giudizi critici, Carl Schmitt si macchiò di imbarazzanti collusioni con il regime hitleriano, fino ad essere ritenuto il Kronjurist del Terzo Reich. Nel dopoguerra i pensatori della Rivoluzione conservatrice hanno sofferto di un’impropria assimilazione al nazionalsocialismo dal quale non solo si tennero aristocraticamente lontani ma lo avversarono nei postulati teorici. Al centro della loro riflessione c’è l’antimarxismo e l’antibolscevismo ma soprattutto la denuncia di uno sradicamento e la riproposizione di uno spazio spirituale nella storia. Moeller van den Bruck lanciò l’appello a fare da «sentinella sulla soglia dei valori» con un attacco all’Illuminismo, consapevole che i veri conservatori non sono coloro che sono reazionari nella quotidianità.
Nolte ne offre una delle più accurate ricostruzioni, che tiene conto del dato filosofico più che di quello politico. «Nei periodi di profonda crisi - scrive il curatore, Luigi Iannone - gli intellettuali hanno il dovere di esplorare tutte le strade possibili, anche le più ardite», da notare che alcune originalità dei conservator-rivoluzionari della stagione di Weimar troveranno germoglio decenni dopo, molto lontano, negli Stati Uniti, dove l’organicismo spirituale animerà i cosiddetti neo-conservatori.
Il mondo va tanto avanti e le cose stanno cambiando tanto, come ben scrive Roberto Arduini su l’Unità di ieri, che il giornale fondato da Gramsci fa ammenda su l’autore de Il Signore degli Anelli dopo appena 40 anni e oggi si fa corifeo di un positivissimo Tolkien «romantico», quando all’epoca della traduzione italiana del suo capolavoro lo denunciò come «fascista». Un incredibile passo avanti, non c’è che dire, che ha come tappe intermedie l’interpretazione di Alessandro Portelli di un Tolkien «allegorico» nel 1982 e di un Tolkien antinazista («Fascisti giù le mani da Tolkien») del critico cinematografico Alberto Crespi nel 2001 all’epoca del primo film di Peter Jackson. Una serie di approssimazioni alla rivalutazione del professore oxoniense che sembra essere giunta ora alla conclusione con la scoperta di un volume collettaneo, La falce spezzata (Marietti 1820), che propone - sai che scoperta - un’immagine di Tolkien come inserito nel «filone tardoromantico» inglese di Morris e MacDonald, risalendo sino addirittura a Novalis: nomi a quanto pare del tutto sconosciuti alla critica tolkieniana estranea agli interessi arduiniani, quella volgarmente detta «di destra» che a lui fa tanto schifo (eccetto quando va a chiedere favori ai suoi rappresentanti...). Che Arduini scriva, assai più di me e di Quirino Principe, corbellerie e non di tipo bibliografico bensì sostanziale, sta nel fatto che insiste col dire che nel libro in questione si negano le «interpretazioni allegoriche, tradizionaliste e mistico-dualistiche tanto in voga sino a tutti gli anni Novanta». Ora, Arduini dovrebbe spiegare quando mai su Tolkien ci sono state interpretazioni «allegoriche» (o «metaforiche»): casomai erano quelle che sosteneva proprio su l’Unità il professor Portelli che si affannava a contrastare l’unica interpretazione possibile circa il senso della narrativa tolkieniana, che è quella simbolica, che a Portelli, Arduini&C. dà tanto ai nervi, per ricondurla sotto l’allegoria e la metafora più accettabili a una critica «di sinistra». Queste «visioni non trovano fondamento nell’opera» tolkieniana? Ecco un’altra corbelleria, considerate le minuziose analisi effettuate sui simboli che lo scrittore sparge nei propri scritti. Dare una interpretazione «simbolica» o «tradizionalista», facendo riferimento alle idee e alle opinioni di Tolkien, è un reato di lesa maestà? Un Tolkien «romantico» è forse in contrasto con un Tolkien «simbolico»? L’apologia del mito, del simbolo, della fantasia, del ritorno alle radici leggendarie, tipica del romanticismo, è forse in contraddizione con il Tolkien che si richiama alla Tradizione e alle tradizioni? Soprattutto l’antimoderno e neomedievale Morris che Tolkien considerava un suo maestro (e in parte MacDonald) non si richiamavano forse a questi stessi punti di riferimento? Dov’è allora la clamorosa novità che annullerebbe l’enorme lavoro esegetico fatto da tanti critici sino all’avvento dei vari Manni e Arduini? Il punto, sottinteso ma evidente, è un altro. A certa intellettualità risulta insopportabile che un autore di successo universale come Tolkien non possa essere ascritto al «progressismo». Tolkien si autodefiniva un conservatore, e tale lo definisce anche il suo biografo Carpenter, e non ha scritto certo opere «progressiste». Per certa sinistra si può accettare in toto qualcuno solo se lo si può cooptare alla propria fazione e se lo si può lavare dell’onta di essere «di destra» - come la sinistra unanime lo ha definito almeno sino al 2001 - e se si può considerare nulla tutta l’opera dei critici definiti «di destra» che lo hanno difeso dalle assurde accuse di cui è stato oggetto per decenni in Italia. Ora a quanto pare all’Unità è sufficiente che Tolkien possa venir inserito nella corrente «tardoromantica». Benissimo: fu un romantico che cantò i miti ancestrali, ripropose l’epos in pieno ’900, esaltò il coraggio individuale e collettivo, rivalutò il passato, amò la Natura, si oppose al Potere corruttore. E dov’è contraddizione con quel che scrissero «i più zelanti alfieri della interpretazione di destra»? È che per Arduini e gli altri come lui sono le «interpretazioni di destra» che non vanno di per se stesse. Meglio abolirle in blocco con una polemica che lascia il tempo che trova.
L’esordio è perentorio: "Gianfranco avrebbe fatto meglio a restare a casa sua, in via della Scrofa 39, nel suo partito. Che cosa c’ha guadagnato a svendere il partito a Berlusconi? Nulla, solo di diventare suo subalterno”.Donna Assunta Almirante, nel giorno dell’Epifania, sfoglia i giornali con rabbia. Ce l’ha con "questa classe politica che sta portando l’Italia ad un livello di degrado morale mai visto perché è incompetente e inadeguata al ruolo". “Sono tutti dei nominati – tuona dal divano del suo appartamento ai Parioli, a Roma – pieni di presunzione e minacciano pure di cambiare la Costituzione come se loro fossero in grado di scriverne una migliore. Ma mi facciano il piacere!"
I soliti comunisti, donna Assunta?
"Macché! Ce l’ho con i miei. E con i loro. Con i miei che adesso non rispondono neanche al telefono se li chiami (a parte La Russa, che per me c’è sempre) perché chissà chi si credono di essere diventati. E anche con i loro. Perché Bersani e Franceschini, mi si consenta, non sono proprio all’altezza.Ma pensi che sono due giorni che provo a chiamare Matteoli e non risponde. Ma le pare normale? Io arrivo al Papa e non arrivo a loro? Ma andiamo! E lo sa perché questo succede? Perché sono dei nominati, perché nessuno si è mai dovuto sudare nulla, mentre io cittadina devo aver diritto a scegliere i miei rappresentanti e di votarli, invece questo diritto non ce l’ho per cui dico agli italiani: non andate più a votare, non legittimate più questa classe politica che ci ha tolto ogni valore e che sta portando il paese allo sfascio anche dal punto di vista economico". Siamo senza scampo? Governano i suoi… "Alt! Diciamo le cose come stanno. Il Pdl è un partito senz’anima. E io mi auguro che Gianfranco se ne renda conto e torni indietro. Deve avere il coraggio di farlo, tanto è chiaro che non potrà essere il successore di Berlusconi e che non avrà mai voce in capitolo; lui è un monarca, comanda solo lui. Gianfranco ha sbagliato a chiudere il partito, doveva fare come la Lega, dare l’appoggio esterno, e questo non gli avrebbe certo impedito di fare il presidente della Camera. Ma con bel altro potere".
Alla scissione, dunque! "Siamo tutti delusi, soprattutto i militanti. Lei non sa quanta gente mi chiama o mi ferma per strada e mi chiede: quando ce ne andiamo? Io rispondo che non posso saperlo, che conto solo sul coraggio di Gianfranco di ammettere un errore e di tornare sui suoi passi; ?Almirante gli ha lasciato un partito vero, ricco di valori morali ed economicamente solido. Mi creda, la gente lo voterebbe eccome il ritorno di An!".
I sondaggi dicono di no. "I sondaggi sono solo porcherie. Solo Berlusconi ci crede. Meglio ognuno per la sua strada, perché An, invece, ha sempre fatto politica vera, in mezzo alla gente e per la gente quando Berlusconi vendeva mattoni. Dobbiamo tornare indietro. Posso dirle un’ultima cosa?" Prego… "Leggo tutti i giorni Il Fatto Quotidiano…" Non ci posso credere. "E’ un bellissimo giornale, faccia i complimenti al direttore Padellaro. E gli dica anche di controllare la diffusione ai Parioli, che ogni tanto l’edicolante me lo nasconde…"
Quarant'anni fa Yukio Mishima, il più grande scrittore giapponese del XX secolo, si “suicidava” nel quartier generale dell'Armata Orientale a Tokio. Mai come in questo caso, le virgolette sono d'obbligo nel verbo “suicidarsi”: se da un lato, infatti, descrive la storicità degli eventi, dall'altra non restituisce l'autentico valore di quell'infuocato gesto che l'autore di “Colori proibiti” e de “Il padiglione dell'oro” e di numerosissime altre pagine di infinita letteratura compì come nobilitazione di un'esistenza esaltante.
Anzi, è proprio dalla sua morte, che occorre iniziare per ammirarne la sua opera. Il seppuku non è un semplice suicidio, ma un rito attraverso il quale il “samurai”, facendo uscire le viscere dalla loro sede, può raggiungere il “centro della forza e della vita” e, dunque, comprenderne il senso ultimo. Il seppuku non è un gesto di angoscia, ma è l'epilogo di una vita arrivata al suo limite estremo.
Mishima – che pure aveva 45 anni – considerò di aver conquistato tutti i possibili traguardi e, di conseguenza, non credette di dover andare oltre nella vita terrena. L'insegnamento è posto nella intimità della sua estesa opera – letteraria, teatrale, cinematografica e saggistica – nella quale affiora il conflitto tra arte e vita, tra simulazione e realtà, tra pensiero e azione.
E' sempre in questo conflitto che si rivelano le radici del tradizionalismo di Hiraoka Kimitake: non un reazionario con inquietudini “fascistoidi”, bensì un uomo estremamente pervaso del misticismo giapponese, il quale, pur avendo avvertito le opportunità derivanti dalla modernità, ravvisava nel progresso il ripudio di quel rapporto che lega la vita degli uomini con l'entità divina e spirituale.
Per Mishima, l'arte non racchiude la vita, ma, favorendone una maggiore comprensione, specialmente nelle sue congenite debolezze, la annicchilisce, trasmettendola all'eternità.
La discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994 è stata per i politici italiani quarantenni, di centro, di destra e di sinistra, una salvezza e una catastrofe. La falce dell’anagrafe e quella di Tangentopoli avevano via via decapitato la prima Repubblica dei suoi capi più o meno storici: vincendo, Berlusconi diede peso e potere a chi fino ad allora era rimasto nelle cantine o nel frigorifero della politica e aiutò altresì la sinistra dei colonnelli a far fuori il proprio stato maggiore sconfitto. I quarantenni, di centro, di destra e di sinistra, si fregarono le mani: è un parvenu e ha già un’età, era il loro ragionamento, noi siamo giovani, professionisti e professionali.
Tempo una legislatura, lo rimandiamo a casa e ci mettiamo a giocare in proprio, al governo come all’opposizione. Da allora sono passati quindici anni, i quarantenni di cui sopra hanno superato i cinquanta e anche i sessanta e Berlusconi è sempre lì come una nemesi: ricòrdati che eri polvere e polvere ritornerai, politicamente parlando, s’intende... A essere nei loro panni, c’è da diventare pazzi.
Fra questi magnifici ex giovani, il più tetragono, per restare nel campo degli amici e degli ex alleati del Cavaliere, è Pier Ferdinando Casini. Se Gianfranco Fini vive un curioso caso di sdoppiamento della personalità, curioso perché non ne aveva mai avuta una, Casini si conferma l’esemplare più tipico di un democristianismo che fu. È anche per questo che le accuse di tradimento o di aver cambiato casacca non lo toccano e suonano persino ingenerose: viene da un’educazione politica in cui la politica stessa cominciava e finiva nell’ambito del proprio partito. La Democrazia cristiana non era al servizio dell’Italia, ma l’Italia al servizio della Democrazia cristiana.
È per lo stesso motivo che l’attuale leader dell’Udc non è finito nel partitone di Berlusconi. A differenza del conterraneo e coetaneo presidente della Camera, per il quale il partito era divenuto un peso, aggravato dal suo aver perso ogni identità, per Casini l’Udc è ciò che resta della Dc di un tempo e di quella idea della politica come partitocrazia, dove cioè i partiti mimano le regole del governo e fanno i loro affari mentre il Paese si arrangia, come può, per conto proprio: non funziona niente, ma in cambio non si chiede niente e si chiude un occhio sul fisco, sulle raccomandazioni, sul menefreghismo pubblico e privato.
Viene da lì anche la strategia (lo so, il termine è impegnativo... ) che allora si chiamava «dei due forni» e che adesso brillantemente, diciamo così, è stata definita del «rifiuto bipolare». La Dc d’antan stava al centro, ora pendeva a destra, ora pendeva a sinistra, faceva alleanze locali di un tipo, alleanze governative di un altro... L’Udc intende fare lo stesso, ma, dice Casini, non per un bieco calcolo di potere e di clientele, bensì perché essendo contrario alla logica di un’Italia divisa in due blocchi non vuole sceglierne uno al posto di un altro. Detto così avrebbe anche un senso, non fosse che, quando nacque, l’Udc giurò per bocca del suo leader che mai si sarebbe schiodata dal centro-destra, che ha appena un 5,6 per cento nazionale e che a livello locale rischia di contare quanto il due di coppe nel gioco della briscola.
Proprio perché il suo è un partito minuscolo, Casini non lesina le dichiarazioni roboanti. Alla vigilia delle ultime elezioni, parlò di Grande Coalizione, come se i due giganti che si fronteggiavano avessero bisogno di quel pigmeo che si agitava nel mezzo... Pochi mesi fa tornò sul tema e parlò addirittura di un Comitato di liberazione nazionale per salvare l’Italia dalla ingordigia del Cavaliere. Subito dopo andò al mare con la famiglia e la cosa finì lì.
Il sogno di Casini è, si sa, il Grande Centro. A differenza di Fini, che adesso ha molte idee, ma confuse, Casini ne ha sempre avuta una sola, ma chiara: essere il leader del proprio partito e gestire la politica come una sorta di minuetto in cui si cambia la dama, ma nessuno resta fuori più di un giro. Si governa a turno, insomma, e magari con delle belle coalizioni si governa, di volta in volta, tutti insieme. È un’idea che con il Cavaliere operante è impossibile, ma senza avere la palla di cristallo, sarebbe di difficile attuazione anche un domani, qualora cioè venisse meno il collante da una parte, ovvero il berlusconismo, e il reagente dall’altra, cioè l’antiberlusconismo. Difficile nel senso della politica vera, quella degna di questo nome, quella che disegna scenari, realizza progetti, lavora per il futuro, crede in una certa idea del proprio Paese.
Qui siamo invece alla più pura, alla più classica e a volte alla più comica politica politicante, dove ciò che interessa sono i posti ottenuti, i favori resi, le tessere contate, le aziende presidiate, gli incarichi ministeriali e insomma quelle cose lì, roba che il centrismo democristiano ha macinato per mezzo secolo e che è entrato nel Dna dei suoi cultori. Il problema è che tra un lustro Casini avrà sessant’anni, la nuova classe del suo partito comincerà a scalpitare contro di lui, e insomma, fama=fumus, homo=humus, finis=cinis e chi, come lui, nella sua vita ha masticato quel tanto che basta di parrocchia e di incenso capisce senza bisogno di traduzione.