martedì 7 settembre 2010

Franz Turchi: "Il Fli è come la vecchia Dc: con la destra non c’entra"


Mica si può pensare dav­vero di sminuire il tutto a una questione di trattino: centro­destra o centro e destra. «Sia­mo vivendo un dramma uma­no e politico...» confida Franz Turchi. E spiega: «La verità è una sola: Gianfranco Fini la pa­tente di destra non ce l’ha più, l’ha gettata alle ortiche, nono­stante tenga a dire il contra­rio ». Un po’ di amaro in bocca ammette di sentirlo. Non solo perché l’aveva seguito a Fiug­gi, imbarcandosi da cofondato­re sulla fragile scialuppa di An, accettando l’idea di «lasciare la casa del padre», ma anche perché la famiglia Turchi (pri­ma il senatore Franz, poi il de­putato Luigi e ora lui, europar­lamentare fino a pochi anni fa) da decenni al timone della de­stra, tanto da risultare fondatri­ce del Secolo d’Italia , si sente tradita. Orfana. Ma ben decisa a rimanere a destra. Contraria­mente - dice Franz - a quelle che sono le intenzioni di Fini.

In realtà il presidente della Camera ha detto chiara­mente che lui a destra c’è e ci rimane. Mi par di capire che lei non ci creda trop­po...


«Non ci credo affatto. Perché non bastano le parole: oggi a contare sono i programmi. E quali sono i suoi progetti? Non ne fa cenno. Anzi, i pochi in cui si avventura sanno chiaramen­te di sinistra: cittadinanza agli immigrati, difesa dei diritti de­gli omosessuali, contrasti aper­ti con la Chiesa sulla bioetica. Tutto un patrimonio rispettabi­lissimo che non si può però cer­to definire di destra. Ma ancor di più pesa quel che non ha det­to... ».

Vale a dire?

«Anticamente la destra si ca­ratterizzava per il trinomio Dio-Patria-Famiglia che evi­dentemente oggi si è evoluto. Patria, ad esempio, va sostitui­ta, in epoca di globalizzazione, con interesse nazionale. Cosa prevede Fini nel merito? Miste­ro. Cosa intende fare per la fa­miglia? Non si sa. E restando in campo economico, cosa pen­sa del sindacato? Il vecchio Msi era molto attento alla que­stione, tanto da fondare la Ci­snal che poi divenne Ugl. Lui cosa pensa del futuro del sinda­cato? Lo vede ancora possibile protagonista - i nostri vecchi parlavano di socializzazione che oggi diviene partecipazio­ne - o per lui il mercato è l’uni­ca sponda da inseguire?».

Magari quella di Mirabello non era la sede adatta per approfondire...


«Eppure ha parlato dei pro­blemi dei precari, come se tutti gli altri, a cominciare dal cen­trodestra, non se ne preoccu­passero. Ma un conto è far pro­paganda, altro è porre sul tavo­lo delle soluzioni. Lui che in­tende fare a riguardo nella scuola e nella ricerca, ad esem­pio? Noi, centrodestra, credia­mo sia ormai necessaria una selezione rigorosa nei percorsi come stanno cercando di fare Tremonti e Gelmini. Andare verso una scuola e una univer­sità del merito, privatizzando­le magari e perseguendo l’idea dei contributi privati da defi­scalizzare. Lui cosa vuole in materia? Quali sono i suoi pro­getti? Facile sostenere che l’at­tuale centrodestra sia vecchio e loro il futuro e l’innovazione. Ma bisogna intendersi: quale futuro e quale innovazione? Proprio il discorso di Fini mi sembra vecchio: quello dei vec­chi partiti laici, Pri e Pli in pri­mo luogo e dei liberali europei a Strasburgo. Un discorso lai­co, attento ai poteri forti, senza più cenni alle istanze di destra nel suo vocabolario. Pieno ri­spetto per le sue scelte, sia chia­ro. Ma non ci venga più a dire che resta uomo di destra. Non è più così. Non è più credibile».

Eppure proprio a Mirabello Fini ha ipotizzato un patto di legislatura col centrode­stra, facendo capire di sen­tirsi parte della famiglia. Lei, Turchi, non ci crede?


«È che non credo che si pos­sa avere il piede in due scarpe. Come si fa ad avere posizioni vicine a quelle dei socialisti eu­ro­pei e a ipotizzare un lungo ac­cordo con una destra italiana che da Cavour a Berlusconi ha ben chiare non solo le sue ma­trici ma le proprie direttrici di marcia? Come si fa a far finta di niente quando il suo Secolo ar­riva a citare Togliatti come pun­to di riferimento? Tempo fa parlavo con Giulio Andreotti che mi rivelò di esser stato mes­so in angolo dalla Dc quando decise di rimanere fedele a De Gasperi contro un partito che i fanfaniani spostavano a sini­stra. Mi ha detto che quel che occorre in questo paese è “coe­renza”. Io credo di averla, co­me i colonnelli ma anche i tan­ti soldati che Fini ha abbando­nato al loro destino. Non mi pa­re l’abbia invece lui, che non esita un secondo a mettersi di traverso pretendendo non so­lo spazio ma anche l’idea di es­sere il depositario del verbo della destra».

Per cui...


«...questo Futuro e Libertà non è casa nostra. Non c’entra nulla con la destra moderata italiana, ha paletti di confine in­certi e confusi. Non ha pro­grammi chiari e convincenti, e si muove come se avesse cam­biato bandiera. Di certo c’è una cosa: il Fini di Mirabello 2010 col centrodestra o con la destra non c’entra più nulla. Che c’azzecca? , direbbe qual­cuno. Mentre è chiara la sua rincorsa a fare la vecchia Dc: prima si tratta al centro e poi si allarga a sinistra. Un film già vi­sto, molto scadente».

(di Alessandro M. Caprettini)

Così è affondato il sedicente capo


Dopo sedici anni di immersione subacquea negli abissi del berlusconismo, Fini riemerge a pelo d’acqua e dice: preferisco la montagna. O Gianfranco, non te ne sei accorto prima che non ti piaceva nulla di Berlusconi e del suo piglio da monarca, che detesti tutto della maggioranza in cui sei stato eletto presidente della Camera, dal partito-azienda al presidenzialismo, dalla legge elettorale alla tua legge sull’immigrazione, dal pacchetto giustizia alla scuola e al fisco? E, dopo aver coabitato per sedici anni ventimila leghe sotto i mari, scopri ora che la Lega tira troppo per il Nord e poco per l’Italia? Ma va, non te n’eri mai accorto che Bossi non era propriamente un patriota risorgimentale, un romanesco verace e un sudista convinto? E con che stomaco citi ora la destra che hai demolito in tutte le sue versioni?

Come prevedevo facilmente alla vigilia del discorso di Mirabello, Fini ha rotto gli indugi e ha detto con fermezza che vuol tenere il piede in due staffe. Fate schifo, amici, alleati e camerati di una vita - ha detto -, il partito non esiste, ma io resto con voi. Esempio mirabile di finambolismo, variante sleale del funambolismo. Soffermiamoci su quattro passaggi chiave.

1) Il pdl non esiste. Lo penso anch’io, che da tempo traduco Pdl in Partito del Leader, aggiungendo però che Pd è Partito del e non si sa di cosa. Il partito non esiste, però esiste un leader, esiste un governo ed esiste un grande popolo di centrodestra. Non esiste una leadership del partito che faccia da pendant al premier, è vero, ma questa carenza riguarda chi avrebbe dovuto occupare quello spazio: a cominciare dal cofondatore, Fini, che è sparito per anni e ora si riaffaccia alla politica. Non s’è visto nel Pdl l’accenno di un contenuto, di una linea, di una strategia culturale e politica che andasse al di là di Berlusconi. Ma se il Pdl è niente, come dice Fini, immaginate cosa sarà una particella ribelle del niente, denominata Fli? Se il Pdl non esiste, ci può essere la scissione dal nulla?

2) Il governo sotto schiaffo. L’Italia sognava da una vita un governo di legislatura in grado di governare e decidere. E questa volta ce l’aveva. Ma Fini ci offre di tornare alla concertazione, al ricattuccio permanente, alla mediazione di partiti e partitini. E dire che la destra aveva costruito la sua fortuna sul presidenzialismo e sul capo del governo decisionista. Ora Fini diventa il megafono della vecchia Italia che vuole governi deboli, poteri forti e convergenze larghe. Perciò piace ad avversari, procure, circoli di stampa e gruppi di affari. Il governo indebolito, sotto schiaffo, è una manna per loro.

3) Fini sogna una legge elettorale che sancisca la fine del bipolarismo. Se Fini fosse davvero il leader del futuro direbbe: la legge che abbiamo voluto, me compreso, offende la sovranità popolare, ridiamo agli italiani la possibilità di decidere gli eletti con preferenze o uninominale. Ma aggiungendo: però salviamo la governabilità e il rafforzamento dell’esecutivo, col premio di maggioranza e poi magari con l’elezione diretta del premier o del capo dello Stato. Invece no, Fini chiede di poter sfasciare il bipolarismo e restituire il Paese agli aghi della bilancia, ai terzisti e ai giochini di palazzo.

4) Infine, la destra. A Mirabello è davvero rinata An, come dice Maroni, è sorta un’altra destra, come scrive la Repubblica che si commuove perfino a sentir citare Almirante da Fini (che lo ha tradito trentatré volte)? No, la furbata di portarsi il santino nipotino di Tatarella e il santone fascistone di Tremaglia, di arruffianarsi la vecchia base con un paio di citazioni del vecchio repertorio missino, non sono la destra. E tanto meno sono la destra moderna, nuova e futurista di cui si eccitano i finiani. E poi «le radici della destra» non sono a Mirabello, come ha detto Fini. Sarebbe davvero poca roba una destra con quelle radici lì, così corte e contorte. No, le radici della destra sono in luoghi, storie, opere, pensieri, tradizioni che non si possono ridurre alla piccola storia del finianesimo, nel suo viaggio tra le rovine, dal Msi ad An, dal grande nulla del Pdl al piccolo nulla del Fli. La destra è un popolo e non una setta, è una cultura e non una citazione rubata, è un disegno civile e politico e non una carriera personale, è una comunità e non una musica da Camera, un progetto di riforma dello Stato e non una riforma elettorale per sfasciare un governo e scroccare un partito. E chi è di destra nutre amor patrio, cioè amore dei padri, mica dei cognati. Trovo ridicolo il titolo del Corsera: «A Mirabello Gianfranco batte Almirante» notando che la folla di domenica era maggiore di quella dei tempi di Almirante. Ma per forza, quella missina era la festa innocua di un piccolo partito ai margini della politica, questo è un evento mediatico e politico che ha riflessi sul governo e sul Paese. Anche Bruto, se avesse fatto una conferenza stampa dopo aver pugnalato Cesare, avrebbe avuto il pienone.

A proposito di titoli, ne ho trovato sul medesimo giornale un altro, favoloso e stucchevole: «Elisabetta e quel bacio dal palco: sono qui per lui»; ma per chi volete che fosse la Tulliani a Mirabello, per Donato La Morte, per i tortelli di zucca? Questo per dire che era stata una facile profezia la ola in favore di Fini dei grandi giornali: saranno anche loro asserviti a qualcuno come i tg e i giornali berlusconiani deprecati dal medesimo Fini? Ma no, ma che dite...

Dopo Mirabello il bilancio dell’operazione finiana è il seguente: un governo e un partito azzoppati, elezioni alle porte, una destra decapitata e spaccata che piace così ridotta solo agli avversari. Complimenti. Un vero leader.

(di Marcello Veneziani)

domenica 5 settembre 2010

Donna Assunta: Fini a Mirabello offende memoria di Giorgio

«È una provocazione, la prova che Gianfranco ha perso del tutto il senso del pudore. Non voglio neanche sentire quello che dirà».

Addirittura.

«Anzi no, è peggio di una provocazione. È una cosa ridicola. Poteva andarsene da un'altra parte ma a Mirabello no. La considero un'offesa alla memoria di mio marito e alla coscienza delle persone di destra che hanno consentito a Fini di arrivare dov'è arrivato. Vuol sapere la verità? Mi fa pena».

Mirabello. Dove nel 1987 Almirante designò l'erede.

«E quanta gente c'era quel giorno. Una folla oceanica. No, Fini non si doveva permettere di tornare là. C'è un momento per parlare e uno per stare zitti. Gianfranco doveva parlare un mese fa, assumendosi la piena responsabolità della faccenda dell'appartamento di Montecarlo. Oggi, invece, deve solo stare zitto. Invece è stato zitto un mese fa e domenica farà sentire la sua voce».

Alle 2 di ieri pomeriggio, Assunta de Medici nata Stramandinoli vedova Almirante, la Donna Assunta della destra italiana insomma, è in faccende di casa affaccendata: «Sto pulendo l'argenteria. Lavoro sempre io, sa?», dice al Riformista prima che la chiacchierata finisca, inevitabilmente, all'attesa per l'intervento di Fini in programma domani.

Ha sentito, Donna Assunta? Nel Pdl c'è chi si stava organizzando per andare a contestarlo.

Fatti suoi. Non m'importa. Tanto domenica se ne starà lì a parlare protetto dalle forze di pubblica sicurezza. Anzi, temo che quel giorno non ci sarà neanche un poliziotto in servizio da quelle parti. Saranno tutti appresso a lui, purtroppo.

E se qualche contestatore azzardasse un saluto romano?

Non so se Fini si meriterà di essere salutato romanamente, fascistamente. Io, che nasco monarchica, sul saluto romano la penso sempre allo stesso modo.

Come?

È igienico. Ed evita di dover stringere tante mani sudate.

Sia sincera, Donna Assunta. Lei ce l'ha ancora con Fini per la svolta di Fiuggi.

E certo che ce l'ho ancora con lui. Quel cambio di nome è stato un tradimento.

Dicevo che, per “colpa” di Fiuggi, lei non crede più a...

Io non credo più a nessuno di loro. Salvo giusto Storace, che ha fondato La Destra pagando l'altissimo prezzo di rimanere da solo. E La Russa, che ha mantenuto i patti con Berlusconi. D'altronde, tutti gli altri non hanno capito che dovevano fare come la Lega di Bossi, che io stimo, e rimanersene a casa propria. Ma una volta che sono entrati nella casa del padrone, che si aspettavano? Per il resto non credo più a niente e nessuno. Neanche alla vita. Sto diventando eretica.

Ma lei, che è così vicina ai temi della legalità, non è indignata per la faccenda del processo breve di Berlusconi?

Questa cosa del processo breve, a onor del vero, un po' fastidio mi dà. Però non ne so molto. E poi, mi scusi, il processo non dovrebbe essere sempre breve? O mi sbaglio?

Sì, ma l'interesse personale del premier verso questa legge...

Sia come sia, il governo pensi a stare più vicino ai magistrati, che spesso non hanno neanche i soldi della benzina.

Ecco, Donna Assunta, su questo lei e Fini sareste senz'altro d'accordo.

Io, in questo momento, da Fini voglio soltanto due cose. La prima è che si assuma le responsabilità della faccenda di Montecarlo, salvando l'onore di due galantuomini come Pontone e La Morte, che hanno soltanto obbedito ai suoi ordini. E poi voglio che sia fatta chiarezza su tutti i beni che appartenevano al Movimento sociale. Voglio sapere che fine hanno fatto i cento miliardi di lire che c'erano in cassa nel 1988, quando morì Almirante. Perché può darsi pure che Gianfranco sia stato messo in difficoltà dai nuovi parenti. Ma ha un'età, ormai è grandicello, deve sapersi assumere le proprie responsabilità.

Ammetterà, però, che la campagna nei confronti di Elisabetta Tulliani non è stata delle più delicate.

Non conosco la signora Tulliani ma una cosa la voglio dire. Daniela (Di Sotto, ex moglie di Fini, ndr) s'è dimostrata una gran signora. È stata abbandonata, eppure neanche adesso ha detto una parola. Lo sa che cosa sono in grado di fare le donne quando vengono lasciate, no?

(di Tommaso Labate)

venerdì 3 settembre 2010

Per Staiti meglio del Cav. e della “becerodestra” ci sono Fini e il Mago Zurlì


Si può anche finire col recuperare un avversario disprezzatissimo, anzi, in questo caso forse lo si può dire: odiatissimo. “Con i suoi mille difetti e con tutta la sua disarmante mancanza di coraggio, preferisco il politico Fini all’atteggiamento padronale di Berlusconi. Per la verità, mi andrebbe bene anche il Mago Zurlì a capo del governo”. Non sembra un complimento a Fini, ma lo è, se a pronunciare queste parole è Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, uno di quegli uomini che la destra ereticale e orgogliosamente minoritaria ha monumentalizzato in vita; l’aristocratico, per nascita e uso di mondo; l’ex missino, oggi settantottenne, che in opposizione a Gianfranco Fini, assieme ai discepoli di Beppe Niccolai e Pino Romualdi, abbandonò l’Msi quando l’ex delfino di Almirante tornò a esserne segretario nel 1991. “Da un po’ di tempo Fini ha preso a dire cose che in parte condivido”, dice. “Certo, un gran coraggio non l’ha mai avuto e il coraggio uno se non ce l’ha non se lo può dare. Ma è sempre stato anche un fortunato Fini, uno che è nato ‘con il fiore nel culo’. Come le zucchine. Vedremo se darà seguito alle promesse. Ho settantotto anni e i miei orizzonti, va da sé, sono molto limitati. I sogni me li sono lasciati alle spalle e non mi aspetto niente. Ma l’umiliazione di vedere questo Pdl nel quale non mi riconosco, anche dal punto di vista estetico e antropologico, non avrei mai immaginato di poterla vivere”.

Staiti di Cuddia, sembra di capire, ha una singolare simpatia per Fini. Condizionata a una premessa: che l’ex leader di An pratichi una sorta di sacrificio rituale, che si abbatta, come un kamikaze, contro il Cavaliere. “Dovrebbe avere il coraggio di rompere definitivamente, creare un partito, piegare il governo”, dice. Ma lei voterebbe mai per Fini? “Non credo”. Questa è forse la maledizioni di Fini. L’ex leader di An suscita simpatie “a contrario”. Ma quanti lo voterebbero sul serio? Anche Staiti chiede al suo antico avversario di farsi esplodere a Palazzo Grazioli senza offrire nulla in cambio? “Non so se è un suicidio o una resurrezione. Adesso Fini mi sembra al centro della narrazione politica da una posizione molto ambigua. Si vorrebbe tutti infatti sapere, alla fine, da che parte si fermerà il pendolo. Metterà in crisi il governo, o non lo farà? In attesa che si sciolga il dubbio, non mi sento in grado di manifestare alcuna apertura di credito nei suoi confronti. Nel senso che: ‘Prima vedere soldi, poi cammello’”. Dunque chissà.

Lavoriamo di fantasia: Fini conquista il governo, quale destra deve incarnare? Cosa deve essere oggi la destra? “Io non so più se posso definirmi di destra. Queste definizioni sono diventate talmente vaghe da aver perso ogni significativa connotazione. Però, per il bene di questo paese, vorrei si manifestasse una destra non beghina, non bigotta, meno ossequiente ai poteri forti internazionali, capace di far recuperare all’Italia una coscienza di sé. Il Risorgimento ha avuto un senso perché alla fine aveva contribuito a dare una missione a questo paese: il Mediterraneo. Trent’anni fa qualcuno aveva ipotizzato un mercato comune del Mediterraneo che forse avrebbe permesso di dare qualche risposta anticipata ai problemi dell’immigrazione o della delocalizzazione economica. Sfide storiche che oggi la Lega vuole risolvere al modo di quella che ho sempre definito la ‘becerodestra’”. Scusi, cos’è la “becerodestra”? “Oggi in questa categoria ci rientrano i tipi alla Gasparri, un tempo la becerodestra era il Borghese dopo Longanesi. Gianna Preda, parlandone da viva, era un po’ così”. Insomma per Staiti è rimasta soltanto la becerodestra? “Credo che nel prossimo futuro ci aspetti un conflitto culturale tra la destra antiunitaria, rappresentata dalla Lega, e una destra nazionale che potrebbe vedere la luce”.

Potrebbe essere Fini? “Se sarà coraggioso o fortunato, sennò potrebbe essere qualcun altro”. Una specie di Lega tricolore. “Anche a me danno noia il degrado dei campi nomadi o il vedere certi quartieri delle nostre città trasformati in suk. Ma sono cose che andavano previste e affrontate prima, con un progetto di lungo periodo, ambizioso, non coi toni sguaiati ed emergenziali che ci propinano adesso. Va trovato il modo di far sì che gli immigrati stanziali possano diventare orgogliosi di essere italiani. In questo sono d’accordo con Fini. Gheddafi, pochi giorni fa, ha detto una cosa vera nel ricatto che ha lanciato all’Europa: da noi c’è un miraggio di ricchezza. Se ci pensiamo, è sempre stata la fame a scatenare i meccanismi predatori e di conquista. I barbari furono spinti da queste meccaniche. Ora si tratta di sviluppare risposte nuove, anziché attingere al peggiore bagaglio della peggiore destra”. Una volta Staiti appellò Fini “l’uomo Lebole”. Con questo epiteto voleva colpirne l’aspetto e la sostanza piccolo borghese, il suo pensare borghese, forse denunciarne la presunta vacuità. Lo direbbe ancora? Staiti sorride. “A quel tempo mi telefonò la sua prima moglie, Daniela Di Sotto. Mi disse, risentita: ‘Ma come l’uomo Lebole? Gianfranco veste da Cenci!’. Ecco, Fini è tutto in questa telefonata”.

(di Salvatore Merlo)

giovedì 2 settembre 2010

Gli anni settanta erano di destra


C'è una fetta di cultura, di musica, di arte, di spettacolo del nostro Paese della quale per mezzo secolo è stata ufficialmente negata l'esistenza. È la cultura di destra, anche se chiamarla così appare fuorviante. Forse sarebbe più esatto chiamarla «cultura alternativa», ma ognuno può definirla un po' come gli pare. Tanto il risultato non cambia. Nella geometria dei «politicamente corretti» per certa gente proprio non c'era posto. Altrimenti cadeva tutto il castello dell'equazione: cultura uguale sinistra, ignoranza uguale destra pervicacemente affermato per anni dagli intellettuali organici del Pci. Negli anni Settanta, ma anche prima e dopo, non sono esistite solo le manifestazioni d'arte legate al cosiddetto «arco costituzionale» ma, per fortuna, anche iniziative di altro sapore e colore. Ma mentre le manifestazioni della sinistra extraparlamentare hanno trovato un riconoscimento (e qualche volta anche l'approvazione) ufficiale, quelle di segno opposto venivano sistematicamente ignorate. Così cantanti del calibro di Leo Valeriano (ma non solo lui) tenevano concerti, pubblicavano dischi, animavano dibattiti, ma tutti rigorosamente «dal vivo».

Mai un'eco sulla stampa (quella di grosso calibro), o in tv (allora c'erano solo Rai1, Rai2 e, dal 1979, anche Rai3). Ma la vita vince sempre, come diceva il protagonista di «Jurassic Park» e a trenta e più anni di distanza, cascato il muro di Berlino, sfracellato l'impero Sovietico, vaporizzato il Pci, seppellita l'ascia di guerra insieme a falce e martello... ecco che riappaiono «i fantasmi del passato». Un termine preso in prestito dalla canzone «Il mio canto libero», di Lucio Battiti, che fu, ed è ancora, il più completo e conosciuto di quegli artisti «non allineati». Ma non l'unico. Arrivano in questi giorni in libreria due saggi che sollevano il velo di sconclusionato silenzio che per anni ha coperto interessanti manifestazioni culturali che non piacevano ai santoni dell'«arco costituzionale». Uno è dedicato alla musica e, più generalmente, allo spettacolo: «Il nostro canto libero. Il neofascismo e la musica alternativa: lotta politica e conflitto generazionale negli anni di piombo», un testo ampio e complesso (circa 300 pagine), Castelvecchi editore, 22 euro. Scritto a quattro mani da due studiosi: Cristina Di Giorgi e Ippolito Edmondo Ferrario è un approfondito resoconto dei fermenti culturali, chiamiamoli di destra, che animarono i '70. Nel silenzio più totale.

Da band musicali come «La Compagnia dell'Anello» e «Gli Amici del Vento» a cabarettisti importanti, come Pippo Franco, è descritta la storia di una cultura che si è mossa tra i prati dei Campi Hobbit alle cantine del centro storico della Capitale. Tutta gente che faceva venire l'orticaria ai tromboni organici dell'intellighenzia rossa. Così nei Settanta capitava di vedere in tv un giovanissimo Nanni Moretti azzuffarsi (verbalmente per carità) con Mario Monicelli (è accaduto nel 1977). Ma che oltre alla cultura «gruppettara» di sinistra ce n'era una altrettanto vigorosa di diverso colore non lo diceva nessuno. Oggi c'è un problema: così la politica di destra che cresce e si afferma sempre di più rischia di sembrare atterrata come un disco volante da un altro pianeta. E non è così: quei fermenti esistevano, sono cresciuti e hanno dato frutti. Che vediamo oggi. In alcuni casi anche in modo plateale e gioioso, come quando Renata Polverini, appena eletta presidente della Regione Lazio, ha cantato in piazza, a squarciagola, in modo sacrosanto e liberatorio (anche se un po' stonato) «Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi», di Battisti.

Decisamente più politico «Fuori dal cerchio. Viaggio nella destra radicale italiana», un «mattone» da 380 pagine del professor Nicola Antolini. Uno storico «fu comunista» che, con un'impostazione rigorosamente scientifica, ha analizzato attraverso delle interviste il «cuore nero» che negli anni Settanta animava la vita profonda di molte città. Scrive Antolini: «Spesso la storia tende a plasmarsi su forme diverse, a seconda di chi la racconta. Non solo le interpretazioni e le teorie, ma anche le ricostruzioni dei fatti possono differire di molto nelle diverse versioni». La parola «revisionismo» è brutta, ma necessaria. Fino a poco tempo fa è stata raccontata una storia alla quale manca un pezzo e non solo per l'immediato Dopoguerra. Oggi si comincia a riappiccicare «quel pezzo», anche se ai tromboni organici, questo, ancora fa venire l'orticaria. E si comprassero una crema.

(di Antonio Angeli)

Dice Pino Rauti che (da Fiuggi in poi) il vero leader dei missini è il Cav.


“Non si dovrebbe lamentare, proprio lui che dentro Alleanza nazionale era un dittatorello”. Pino Rauti, 84 anni a novembre, è rotondamente irritato da Gianfranco Fini da almeno trent’anni, da quando cioè il pupillo di Giorgio Almirante cominciava la scalata al partito che solo il fondatore di Ordine Nuovo tentò, con breve successo, di contestargli. All’epoca le posizioni erano invertite: Rauti era l’eretico, Fini il garante della tradizione. “Vorrei ricordare a Servello che quando ero segretario del Msi, e lui mio vice, noi tentavamo di rinnovare il partito mentre Fini diceva: sulla mia fronte c’è scritto fascista”. Era la breve stagione della leadership di Rauti, terminata in un disastro elettorale 18 mesi dopo la vittoria del congresso di Rimini del gennaio ’90.

Oggi però, per una sorta di nemesi, attorno al presidente della Camera si ritrova buona parte dell’antica gioventù rautiana allergica alla fascisteria dei labari e dei gagliardetti: “E’ sconcertante – ammette l’anziano leader – Non li riconosco. Non so che fine abbiano fatto le cose che diceva Moffa quand’era federale a Roma per mio conto”. Posizioni di forte sapore socialista – nazionale sia chiaro – e ambientalista, senza contare qualche non garbata antipatia personale. Gli aneddoti giovanili, in giro, si sprecano: Pasquale Viespoli per dire, oggi capogruppo finiano in Senato, nel 1977 prese a schiaffi il suo attuale leader che – da capo del Fronte della Gioventù – voleva impedire lo svolgimento del Campo Hobbit a Montesarchio.
“Oggi l’ambizione, anche culturale, di Fini è quella di costruire un’idea nuova di destra, ma s’è messo su una strada sbagliata”, spiega Rauti. E la strada è sbagliata fin dal 1995 di Fiuggi: “Quella è la grande cesura”, dopo la quale la destra di massa è il Cavaliere: “Un prodotto politicamente nuovo che s’è insediato su un consenso preesistente. E lo ha rafforzato parecchio”.

Il dissidio tra i due adesso, “al contrario di quanto crede Servello”, non è affatto personale, né contingente: “Ci sono diversità di fondo, eccome: basti pensare all’immigrazione, alla cittadinanza, alla bioetica. Non mi pare che Fini si stia rifacendo alla tradizione della destra, neanche missina”. In realtà, insiste, “non fa altro che riaffermare la sua antica vocazione allo sfascio”, l’unica vera costante della sua politica. “Non nego che nel mio giudizio possano pesare le storie passate”, concede l’anziano teorico dello sfondamento a sinistra, ma “Fini lo conosco fin da ragazzo e posso parlare di lui con cognizione di causa”. Prendiamo la casa di Montecarlo: “O sapeva, ed è grave, o non sapeva, ed è ancora più grave. La scelta è solo tra immoralità e ignoranza”. A questo punto, però, la strada è obbligata: “Se vogliono essere coerenti devono fare un partito”, certo “a quel punto bisognerà riconsiderare il ruolo del presidente della Camera: ci sarebbe una forte discrasia tra il processo che ha portato Fini su quella poltrona e la situazione che si verrebbe a creare”.

Non c’è niente che piaccia, a Rauti, di questo “sgomitare” del suo ex rivale per delle “piccolezze”, nemmeno il tema della legalità, “giusto, purché non sia agitato con puntigliosa pretestuosità”. Il Cavaliere, spiega, “è senza dubbio sotto attacco delle procure, c’è un andazzo inquisitorio contro di lui, quindi è normale che si difenda. E parla uno che con i pm ha avuto e ha a che fare: pensi che ancora adesso sono sotto processo per la strage di Brescia senza essere stato nemmeno interrogato”. Nonostante siano distanti anni luce, l’ex missino (e ordinovista e membro dei Far e fan dei colonnelli greci, una sorta di antologia del postfascismo repubblicano) ha una simpatia istintiva per Silvio Berlusconi: “L’ho incontrato molte volte e sempre da parte sua c’è stata stima e cordialità. Notava sempre ironicamente che ho molti capelli e io gli rispondevo che era l’unica cosa che avevo più di lui. Spero di vederlo a settembre, voglio capire che succede, ma comunque prima incontrerò Gianni Letta, un vecchio amico: quando io ero caposervizio al Tempo, lui era corrispondente da Avezzano”. Il premier peraltro, quali che siano i suoi difetti, “anche solo da un punto di vista di strumentalità oggettiva, ha un enorme merito storico: ha bloccato e, in qualche caso spazzato via, l’egemonia culturale della sinistra che durava fin dal 1945”. Un Cav. vendicatore degli ex fascisti, che adesso rischia per loro mano: “I propagandisti di Fini sono molto abili; se gli si dà il tempo di organizzarsi e crescere ancora, il logoramento di Berlusconi è inevitabile”.

(di Marco Palombi)

mercoledì 1 settembre 2010

A cercar la bella destra


Ha ottantanove anni Franco Servello, è stato giornalista del Secolo, dirigente del Msi, parlamentare di An, avversario politico di Gianfranco Fini, poi suo alleato e sostenitore. Da qualche mese ha licenziato per Rubbettino un libro sul Duce, si intitola: “Perché uccisero Mussolini e Claretta. Oro e sangue a Dongo”. Sta bene Franco Servello, “non come questo centrodestra di oggi”, dice. “Sono l’ultimo in vita tra gli uomini che videro nascere da dentro il Movimento sociale e qualcosa l’ho imparata. Questa destra non mi piace. E’ incompiuta, pazzotica, rischia di essere una strana anomalia in Europa”. Ha parole di simpatia per Fini e per Berlusconi l’anziano senatore, ma in tutta evidenza, dopo il dissidio che ha diviso i due uomini, lui che pure conobbe il Cav. per primo portandolo da Almirante alla fine degli anni Settanta e poi da Fini agli inizi degli anni Novanta, adesso si è schierato con l’ex leader di An (“l’erede carismatico di Almirante”) e considera il premier “un uomo con meriti straordinari per la destra, ma che, allo stesso tempo, incarna anche l’anomalia che potrebbe strozzarla”.

E’ stato un errore il Pdl con lo scioglimento di Alleanza nazionale? “E’ stata un’azione avventata da parte dei dirigenti di An. Si era vicini alle elezioni e questa soluzione sembrava necessaria. Ma non è andata bene. Dov’è finita l’anima nazionale e sociale? A Berlusconi si deve rendere atto di aver incarnato una svolta enorme nella storia di questo paese, senza di lui si sarebbe arrivati a soluzioni di sinistra e temo non positive per gli interessi generali dell’Italia. Ma allo stesso tempo Berlusconi rappresenta solo una parte della destra, ne interpreta solo un aspetto, quello più economicistico, funzionalista, se vogliamo. La destra moderna non si può genericamente ridurre al solo concetto vago di libertà e An non esiste più a completare dall’interno il coacervo della creatura berlusconiana. Per questo, sommessamente, avevo proposto di federarci, senza sciogliere An. Un po’ come ha fatto la Lega che ha potuto conservare la propria identità e l’ha potuta far pesare su quel terreno dei contenuti e della diversità che, a mio avviso, in una destra moderna devono esistere e poter convivere”.
La delusione per il progetto del Pdl, dal punto di osservazione dell’anziano Servello, dipende anche, un po’, dalla guerra interna tra Berlusconi e Fini.

“Questo conflitto non lo capisco”, dice. “I due leader non si dividono tanto sui contenuti, sui progetti, su una visione diversa e inconciliabile della storia o della cultura di destra. Berlusconi e Fini danno vita a un conflitto politico che inerisce alla contingenza più stretta. C’è un conflitto di poteri e c’è una discrasia sul terreno di due diverse sensibilità personali e caratteriali. Francamente incomprensibile. In politica bisogna trovare i motivi del consenso, dell’unità, del dibattito. Fini e Berlusconi devono fare adesso ogni sforzo per superare gli stati d’animo che creano confusione. Devono mettersi d’accordo e lasciare che nasca un partito della destra italiana, alleato e federato con il Pdl presieduto dal Cavaliere. Io Berlusconi lo vedo benissimo, nel 2012, alla presidenza della Repubblica. Insomma, il premier non può davvero pensare di distruggere Fini e tutto quello che esiste intorno a Fini. E’ questo che desidera? Un’aggressione personale e inaccettabile, fango scagliato via Giornale dai pistoleri del boss? E’ uno sbaglio, Berlusconi deve fermarli. E lo dice uno che si è battuto per lui, quando nessuno lo conosceva nel Msi, per salvare le sue televisioni attraverso la famosa riforma audiovisiva. Sbaglia il Cavaliere a voler annullare Fini, perché lui rappresenta tutti noi nonostante qualche sbavatura e qualche ‘strappo’ di troppo”.

Della cittadinanza breve e della nuova politica dei diritti civili che ne pensa Servello? “Sono d’accordo con Fini su questi argomenti. Mio padre era un migrante, figuriamoci se non sono per la tolleranza e l’apertura. A volte abbiamo un vizio: confondiamo la cultura e la memoria storica con la politica. Io non dico che la politica debba confliggere con la tradizione, ma la realtà spesso induce a modificare certe opzioni. Ed è alla realtà che la politica deve ispirarsi. Mussolini veniva da un ambiente di mangiapreti, fu probabilmente sempre anticlericale nel proprio intimo, eppure con il Vaticano fece la Conciliazione”. Il resto del gruppo dirigente di An, gli ex colonnelli, non condividono nulla di quanto sostiene Fini. Dicono che lui ha cambiato idea, forse ha tradito? “Il tradimento è una parola che non si può scagliare contro Fini il quale, piaccia o no, rimane il capo della destra. E’ un leader. Lui, a differenza di altri, ha carisma. Quanto ai colonnelli, con cui ho ottimi rapporti, specie con La Russa, dico solo una cosa: a me sembrano loro ad essere cambiati. Sa quel è il loro difetto?”. No, qual è? “Mancano di un po’ di consapevolezza. Sono degli ex giovani che si ritengono ancora giovani”.

(di Salvatore Merlo)

Il premier deve liberarsi di Fini


«Berlusconi? Deve stanare Fini e portarlo alla prova delle urne». Marco Tarchi, politologo e docente di Scienze politiche all’università di Firenze, non ha dubbi sui rischi che corre la maggioranza. Tarchi conosce bene Fini, da più di 30 anni, quando militavano nell’organizzazione giovanile del Msi e si sfidarono per la guida del movimento.1977, assemblea nazionale del Fronte della Gioventù.

Lei raccolse la maggioranza dei voti mentre Fini solo una manciata, arrivando quinto nella corsa alla segreteria. Ma Almirante lo nominò comunque leader dell’organizzazione giovanile.

«Il partito usciva dalla scissione di Democrazia nazionale a cui aveva aderito quasi tutta la classe dirigente giovanile, salvo alcuni dirigenti dell’opposizione interna rautiana, tra i quali c’ero anch’io. Almirante non si fidava abbastanza degli uomini rimasti».

Quindi Fini era già un delfino designato a 25 anni?

«Sì, perché si era trovato in una situazione favorevole. Già alla vigilia dell’assemblea tutti sapevamo che sarebbe stato nominato lui. Il regolamento congressuale, fatto ad hoc e imposto in modo non troppo ortodosso, prevedeva che Almirante potesse nominare segretario uno dei sette più votati. Il gioco era finito prima di giocare».

I militanti però non accolsero serenamente la decisione di Almirante...

«No, perché la votazione dimostrò che c’era una maggioranza avversa. I militanti non apprezzarono perché l’Assemblea aveva dimostrato che Fini non godeva del consenso della maggior parte dei centri provinciali».

I primi passi di Fini.

«Ebbe molte difficoltà nei primi due anni, ma le superò anche con il pesante appoggio di Almirante e la sua politica degli interventi disciplinari. La sostituzione dei segretari dissidenti per normalizzare la situazione divenne la regola».

Nel ’77, durante il primo Campo Hobbit (festa della destra giovanile) i pochi finiani presenti furono presi a schiaffi proprio per questo.

«Viespoli ha rivendicato di aver schiaffeggiato Fini. Ma non esagererei. Sono stati episodi marginali».

Nel suo ultimo libro, «La rivoluzione impossibile», analizza quel periodo. Nel Msi si parlava di svolta moderata con Fini. Ma poi la parte più movimentista divenne protagonista degli anni di piombo.

«È stato un fenomeno limitato, quasi tutto romano con alcune piccole appendici locali. C’è da dire che però alcuni tentativi di moderazione provocarono la reazione opposta. Ma nel suo interno il Fronte della Gioventù non ha avuto grossi problemi. Direi che sia stato soprattutto il clima esterno che metteva a repentaglio la possibilità di fare politica».

Poco dopo si consumò il suo divorzio con il Msi.

«Era il gennaio del 1981».

Il suo giornale (La voce della fogna), amato dai militanti, era poco gradito ai vertici del Msi, spesso nel mirino della satira.

«C’erano state numerose manifestazioni d’insofferenza per La voce della fogna non tanto perché attaccava i vertici quanto perché criticava un certo atteggiamento mentale predominante nel partito totalmente inadatto ai tempi. I motivi di scontro furono tanti. Primo fra tutti la proposta di reintrodurre la pena di morte, appoggiata da Fini».

Ma se non l’avessero messo alla porta avrebbe continuato l’attività politica?

«Il divorzio si sarebbe consumato comunque. Quando mi dimisi da vicesegretario scrissi una lettera molto polemica a Fini in cui dicevo che non esisteva spazio alcuno per il dissenso interno. E portavo come esempio la destituzione di due dirigenti napoletani, che con i loro voti avrebbero fatto vincere la componente rautiana nelle elezioni per la segreteria della Campania. Per evitare una sconfitta, Fini li cacciò dall’oggi al domani. Per me fu la goccia che fece traboccare il vaso».

Intolleranza per il dissenso, è proprio quello ora che Fini denuncia all’interno del Pdl...

«Di questo ne ho scritto anche in sede scientifica. Nel libro Dal Msi ad An, ho scritto che il Msi era, e An dopo ancor di più, un partito a centralismo plebiscitario. La gestione era affidata a un leader considerato una sorta di sovrano assoluto. Fini ha esercitato questi poteri in modo assolutamente drastico, avendo in grande astio qualsiasi forma di dissenso»

Nel 1987 ci fu la festa del partito a Mirabello, con Almirante che designò Fini suo erede. La genesi?

«Dell’87 ricordo ciò che scrissero i giornali, come Panorama, che definì Fini “il miracolato dell’Assunta”. Cioè Assunta Almirante che aveva convinto il marito a designare Fini suo erede. Non so se corrispondesse al vero ma questa è l’interpretazione che se ne dava. Di sicuro Fini era designato da altri. Lui non doveva fare nulla, erano altri a fare per lui».

E adesso?

«Adesso deve star da solo e trovare la linea adeguata. Comunque non è da oggi (come politologo lo dico da anni), che la sua posizione è quella di chi non pensa di ottenere la legittimazione di leader dall’interno della forza politica a cui fa riferimento. Da tempo si presenta come ragionevole a ogni costo, moderato, politicamente corretto perché spera in una fase confusa o difficoltosa di un post Berlusconi per essere legittimato dagli altri, dagli avversari e così costruire qualcosa di più solido».

Oggi, 23 anni dopo, un’altra Mirabello, tanto attesa per scoprire quale strada sceglierà Fini. La sua nemesi?

«A Mirabello ci sarà una prova di forza. Lancerà il sasso ma ritirerà la mano. Non credo che farà uno nuovo partito, lui cerca di lavorare ai fianchi, di erodere, ma ha tutta la convenienza di restare nel Pdl».

Durante la sua segreteria, Fini è riuscito a fagocitare gli avversari oppure a epurarli. Sistema Fini oppure sistema Msi?

«Nel 1995 ho definito l’atteggiamento mentale dominante tra i quadri e i militanti il “complesso di Mosè”, cioè affidare al capo, quasi fosse un profeta, ogni responsabilità per la vita stessa della comunità dei militanti e dei sostenitori. Ora, se si pensa che Fini, più per le circostanze che per capacità sua, è riuscito a traghettare fuori dal periodo di cattività quel mondo politico e umano, si può capire perché l’intolleranza aperta verso il dissenso abbia trovato in lui un interprete ancor più rigoroso».

La nuova compagna, la famiglia Tulliani e i suoi affari, Montecarlo, lo strappo nel Pdl... È un altro Fini?

«A parte le note vicende che lo hanno coinvolto quando la prima moglie abbandonò il marito, dirigente del Fronte della Gioventù, per lui, mi è parso tenere un profilo sempre molto basso sulle sue vicende personali. Anche su questo ha cercato di essere l’opposto di Berlusconi. Ma io, da ricercatore, mi baso unicamente sui fatti e sui documenti, quindi non ho elementi per dire se c’è stato qualche cambiamento. Di certo ora dà un immagine di divisione più che di unione, come è avvenuto quando nacque An. Ora appare come il leader di una corrente, cosa che in passato ha sempre aborrito».

Molti invocano le sue dimissioni, per la questione Montecarlo e per l’incompatibilità tra leader politico e carica istituzionale.

«Ho una posizione diversa. Nell’analisi della politica seguo un approccio realista. Vorrei scrostare da molta ipocrisia le figure istituzionali: hanno tutte una storia politica alle spalle. Non si cambia drasticamente perché si passa su uno scranno significativo. Certo, la sovraesposizione e lo scontro interno non rendono Fini credibile come arbitro agli occhi della maggioranza che lo ha eletto».

Pugnalate e diplomazia: il Pdl è ad un’impasse. La maggioranza finirà la legislatura?

«A Fini e ai suoi conviene che il governo si logori giorno dopo giorno, non che cada. Se Berlusconi giungesse spossato a fine legislatura, i finiani potrebbero rivendicare buone ragioni per sancire alleanze diverse. Insomma, hanno un interesse evidente a giocare contro il Pdl, ma se accelerassero troppo rischierebbero di doversi sottoporre prima del tempo alla prova delle urne, senza essere preparati. E il loro prevedibile scarso peso non li renderebbe appetibili per i patrocinatori di terzi poli».

E al Pdl quali carte rimangono?

«Per quanto sia un azzardo, a mio parere Berlusconi avrebbe un vantaggio a stanare Fini portandolo alla prova delle urne. Il logorio serve a Fini, non a Berlusconi»