venerdì 7 gennaio 2011

Il volto luciferino dell'Occidente

(Intervista di Maurizio Blondet al filosofo Massimo Cacciari)

«II Papa deve smettere di fare il katéchon!», esclamò d'improvviso Massimo Cacciari. Mi stupì la sua foga, e ancor più il fatto che subito dopo parve pentirsi, come se la parola gli fosse sfuggita. Era un giorno del settembre 1993, e io lo stavo intervistando nella sua casa tersa, piena di volumi. Fuori, Venezia si sfaceva nel suo mare fecale, sotto un cielo grigio.

Katèchon? Non ricordo molto di greco. Dovetti chiedergli che cosa volesse dire. «Katéchon è Ciò che trattiene», rispose Cacciari guardandomi incerto: «Ciò che trattiene l'Anticristo dal manifestarsi pienamente. San Paolo, ricorda?». Ora ricordavo: Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6 e seguenti). Il passo enigmatico in cui Paolo di Tarso accenna al futuro manifestarsi dell'Anticristo, Anomos: «II figlio di perdizione, colui che si contrappone e s'innalza sopra tutto quel che si adora come Dio, tanto che siederà egli stesso nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio». Ma non crediate che la venuta dell'Anticristo sia imminente, aggiunge subito l'apostolo. C'è qualcosa che «trattiene» l'Antícristo dall'irrompere nel mondo.

Ė qualcosa di misterioso, di cui san Paolo deve aver già parlato in passato ai fedeli di Tessalonica. «Non vi ricordate come io, quand'ero tra voi, vi dicevo tali cose? Perciò voi sapete che cosa sia quel che lo trattiene (=katéchon), affinché sia manifestato a suo tempo. Perché è già al lavoro il mistero d'iniquità, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Allora sarà la manifestazione dell'Iniquo». Che cosa può essere «ciò che trattiene» l'Anticristo? Cercai di ricordare. Mi risposi che, genericamente, doveva essere la fede cristiana, forse la Chiesa, i sacramenti. Cosi pareva intenderlo Cacciari, del resto, e mi stupì anzitutto che egli pretendesse dal Pontefice che «smettesse» di fare ostacolo all'Anticristo, che cessasse di far da argine alla Perdizione. Per quanto patetico appaia oggi quest'argine, se è poi la Chiesa, di fronte all'edonismo e alla secolarizzazione ‑ se sono questi i segni dell'Anticristo ‑ come si può chiedere al Papa di non opporsi al Male? Mi domandai anche: perché Cacciari desidera accelerare l'avvento dell'Anticristo?

La nostra conversazione, fino a quel momento, non faceva prevedere quell'esito. Lo stavo interrogando sui «valori» della cosiddetta «etica laica». Mi rispose, sarcastico, che ‑ per cominciare ‑ andava sgombrato il campo dall'abuso, dalla ripetizione a vanvera del termine «etica». «Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per "etico'' o "morale". Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la "dimora", l'abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno "etico" per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere».

Come nell'Induismo, osservai: dove un uomo, per il fatto di nascere in una precisa casta, appartiene alla sua casta. Ed è soggetto allo swadharma, la «legge» (dharma, che significa anche «dovere» e «destino») propria della sua (swa) casta. In India non esiste una morale; esiste un dharma per ogni casta, e il dharma del contadino è diverso da quello del re, ciascuno ineluttabile e non evitabile.

Cacciari annui: «Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l'immagine di Dike». L'ethos, ripete, impone all'uomo valori che non è lui a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene. Ma in Europa questa appartenenza è entrata in crisi quasi fin dall'inizio. Per l'uomo europeo è venuto molto presto il tempo della frattura con l'ordíne degli dèi; il tempo della decisione. L'ethos era già in crisi profonda con l'Ellenismo, «cosmopolíta» ossia sradicato. «E duemila anni fa, l'ethos ha cessato completamente di esistere».

Duemila anni fa, quando Cristo apparve nel mondo? «Sì, il Cristianesimo è stato dirompente rispetto a ogni ethos». Per provarmelo, Massimo Cacciari cercò un passo nel De Civitate Dei. Non riuscì a trovarlo; me ne dette un riassunto ad sensum. «Sant'Agostino lo dice chiaramente: la Città di Dio è pellegrina in terra; ne segue che il cristiano non ha casa o è a casa sua dovunque. Il cristiano "non si cura" dei diversi costumi, delle diverse leggi, delle diverse istituzioni con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene». (Ho scoperto dopo che Massimo Cacciari cita quel passo con precisione nel suo Geo‑filosofia dell'Europa, editore Adelphi, p. 116: è il cap. XIX, 12‑17, del De Civitale Dei). Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra.

Ciò vuol dire, continuò, che il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell'Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra gli dèi e la società. L'ethos antico era una refigione civile; gli dèi erano, inevitabilmente, gli dèi della polis, Erano dèi di ferro: Socrate fu condannato perché la sua libera investigazione offendeva gli dèi della polis, ma radicavano l'uomo, lo riparavano dalla decisione. Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dèi della Città, sradica l'uomo: «Con il Cristianesimo comincia la nostra "etica" come decisione, come un sistema di valori che io scelgo, come "libero arbitrio"». Uno stato doloroso: il Cristianesimo, nella visione di Cacciari, getta l'uomo nella libertà come un naufrago è gettato nel mare in tempesta.

«E la Chiesa è perfettamente consapevole di quanto sia tragica la libertà che ha donato all'uomo. Già Agostino paventa che, sradicati gli dèi della Città, la città dell'uomo diventi il campo dove si scontrano meri interessi, il regno della forza. Per questo tutta la cultura cristiana è un correre ai ripari contro la tragedia che ha provocato, una tensione disperata a riparare il pericolo che viene dalla frattura tra la Città di Dio e la città dell'Uomo. In questo senso, è davvero la Chiesa a fondare la civiltà europea. Perché l'Europa, la sua storia, è la storia di questo sradicamento, dell'angoscioso obbligo di decidere che deriva dalla perdita definitiva dell'ethos. Ė la storia delle soluzioni disperate che l'Europa via via escogita per darsi leggi "morali" le quali ‑ senza sopprimere la libertà ‑ trattengano la società dal divenire il campo della pura violenza».

Ma queste norme, non più radicate nel Sacro, sono per forza precarie, sostenne Cacciari; esse devono continuamente essere «superate». «E qui è la grandezza dell'Europa e la sua miseria: il suo sforzo bimillenario per dare norme a una libertà che è sempre sul punto di delirare. Il fatto è che il Cristianesimo, liberando l'uomo dall'ethos, libera in lui la potenza del pensiero: il potere di mettere in discussione ogni tradizione ricevuta, il potere che tutto oltrepassa».

Non potei fare a meno di notare lo stupefacente corollario a cui conduceva quest'ordine di pensieri: la secolarizzazione totale che viviamo sarebbe dunque figlia della sovversione originaria operata dal Cristianesimo. In apparenza antagonisti, l'Illuminismo libertino di cui subiamo gli esiti estremi, e la Chiesa, avrebbero in realtà la stessa radice. Protestai (temo troppo debolmente) che non poteva essere; che anche l'ethos cristiano è radicato nel sacro... Cacciari m'interruppe con impazienza: «La vera differenza è che il Cristianesimo sa che la volontà dell'uomo è ferita. Che diventando libero, l'uomo diventa libero di fare il male. Ogni "morale" laica e illuminìsta presuppone il contrario: che ogni uomo ha in sé i princìpi universali dell'azione. Che il bene è scritto nella sua coscienza, e gli basta seguirla».

L'illuminismo è pelagiano nel senso più lato, aggiunse: nega il peccato originale, crede che l'uomo possa salvarsi da sé. «Di più: ogni etica laica suppone che tutto ciò che si manifesta in me come mia natura è buono. Dunque i miei appetiti vanno soddisfatti perché buoni. Anzi, di più: perché necessari. Lungi dal predicare, come fanno i parroci, che gli appetiti vanno "ordinati", il laicismo pone proprio gli appetiti alla base del vivere civile».

Come, come? «Per esempio, la borghesia crede che il libero espandersi degli egoismi e degli interessi individuali dia luogo a quell'armonia collettiva che chiama "mercato", e di cui scopre adorante le leggi: le "leggi del mercato". Il Marxismo, dal canto suo, ha creduto che dalla lotta scatenata fra le forze economiche potesse nascere l'armonia finale, la "società senza classi". Ė la scoperta delle economie politiche. Che non a caso sorgono nell'Ottocento, insieme all'estetica».

L'estetica è la «scienza» che scopre le leggi dei godimento soggettivo, come l'economia politica è la «scienza» che scopre le leggi dell'interesse individuale, mi spiegò. «Sono queste due "scienze" a costituire la Modernità, e precisamente questa Modernità che oggi il Cattolicesimo si trova davanti come il Nemico».

Il giovane filosofo nero‑barbuto alludeva al Nemico finale, all'Anticristo? «Negli ultimi settant'anni», continuò lui, «La Chiesa ha creduto che il Nemico fosse il Comunismo. Non era sbagliato; il Comunismo ha scatenato, ha portato alle ultime conseguenze, la volontà di potenza europea. Il Comunismo affermava: l'uomo si salva da sé, armato di economia e di estetica. La Chiesa, giustamente, l'ha sentito come una sfida mortale. Oggi che il Comunismo è caduto, però, contro la Chiesa si rizza il Nemico vero, il Nemico finale: un sistema estetico‑economico totalmente secolarizzato».

Qui capivo meglio a che cosa Cacciari alludesse: quell'ultimo Nemico era già stato identificato dal chiaroveggente Del Noce. Ẻ il Capitalismo ulteriore al Comunismo, che ingloba in sé le larve psichiche e sociali scampate alla decomposizione del marx­leninismo: «l'intellettuale dissacratore come custode del nichilismo», «trasformato in funzionario dell'industria culturale alle dipendenze del potere» economico. E' «lo spirito borghese allo stato puro» a cui si riduce la copula necrofila del Capitalismo con lo spettro del Marxismo, devitalizzato della sua tensione escatologica. Del Noce aveva previsto: il Comunismo sconfitto, «trasformato in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata», dominata «da una nuova classe che tratta ogni idea come strumento di potere». Il Comunismo addomesticato in «partito radicale di massa, adatto a mantenere l'ordine in un mondo da cui qualsiasi religione è scomparsa»; quello del Capitalismo internazionalista, del Nuovo Ordine Mondiale tecnocratico.

Insomma: il peggio dei due sistemi che, falsi antagonisti, anelavano in realtà ad adottarsi l'un l'altro: sì, poteva ben essere questa una buona descrizione dell'Anticristo. Ma Cacciari già continuava: «Per anni la minaccia comunista ha causato un'alleanza forzata tra la Chiesa e il sistema laico borghese. Ora quest'alleanza, che era finta fin dal principio, non è più possibile. Nessuna composizione è possibile tra la Chiesa e lo spirito borghese, con la sua "etica laica". Per un motivo preciso: che il cristiano deve mettere in discussione ogni sistemazione puramente terrena. Lui, "pellegrino" su questa terra, sa che ogni sistemazione della Città dell'Uomo è transeunte, che deve essere superata».

La sovversione cristiana si volge dunque ora contro il totalitarismo borghese‑radicale? «Lo spirito estetico­-economico borghese non tollera di essere messo in discussione; non ammette di poter essere superato». Mi parve di leggergli negli occhi l'evocazione paolina del Figlio di Perdizione, «colui che s'innalza sopra tutto quel che si adora come Dio». Cercai di fare dello spirito: «Ma l'essenza della società borghese è il liberalismo, e per principio il liberalismo mette in discussione ogni principio...». ...«Il sistema borghese tollera di essere discusso solo al proprio interno», sancì Massimo Cacciari: «Verso ciò che è esterno ai suoi "valori", non ha pietà». E mi elencò i genocidi liberali: a cominciare dallo sterminio dei Pellerossa. «I Pellerossa erano radicati nel loro ethos, e l'Americano vedeva nel loro ethos un sistema di non‑libertà. Lo sterminio delle società sacrali, degli ethoi tradizionali, è prescritto dal liberalismo per il "bene" stesso dell'uomo». Ed enumerò: per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che l'olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per stroncare fascismo e nazismo, «forme di neo‑paganesimo che cercavano di ricollegare la società a un Ethos». E il Vietnam, la Guerra del Golfo, l'intervento «umanitario» in Somalia nel 1993.

«Non si faccia illusioni: anche contro la Chiesa non esiterà a usare la più inaudita violenza, se la Chiesa si rifiuta di diventare un semplice supporto della società borghese. Ciò che la Chiesa non può fare: perché il cristiano è necessariamente sovversivo di ogni potere politico che si pretenda autonomo. Già negli Stati Uniti si teorizza come l'Avversario irriducibile sia l'Islam. Anche contro la Chiesa il conflitto diverrà sempre più drammatico. Da una parte la Chiesa e l'Islam, e dall'altra una "etica" laicista sempre più occasionale, e nello stesso tempo sempre più radicalmente universale, nella sua pretesa di essere l'unica valida».

Purtroppo credo abbia ragione, risposi. Forse viviamo davvero sull'orlo dei tempi ultimi. Sappiamo che cosa aspetta i credenti: la resistenza eroica al di là di ogni umana speranza, il martirio. La Chiesa lo sa: è scritto nella sua tradizione.

Fu allora che Cacciari lo disse. «II Papa deve smettere di fare il katéchon!». Poi, come pentito, precisò: «Voglio dire che lei, come cattolico, sa come finirà. Verrà l'Anticristo e trionferà, ma sarà sconfitto»

(fonte: http://www.ariannaeditrice.it/)

Le radici dell'odio contro i cristiani


Credo che tutti, anche i cristiani, avrebbero da imparare da quell’agnostico - ma non ateo -, da quell’anticlericale -ma rispettoso del Vangelo -, che fu Benedetto Croce.

Sosteneva, quel grande realista, che la conoscenza della storia è il miglior antidoto ad ogni estremismo, ad ogni spirito di crociata. La storia – ricordava Croce - non è mai in bianco e in nero, non è la lotta dei cattivi contro i buoni, ma è un palcoscenico dove vittime e carnefici si scambiano i ruoli appena possono.

Così, per stare a noi, anche la solidarietà per le vittime, l’orrore per la violenza omicida di Alessandria d’Egitto hanno diritto a un inquadramento storico che non giustifichi, certo, ma eviti di sbagliare prognosi e diagnosi. Restiamo, dunque sulle sponde del Nilo, cominciando da quando – circa a metà del settimo secolo – vi giunsero i cavalieri di Allah che sbucavano dai deserti d’Arabia. Erano coraggiosi ed esaltati dalle parole di Muhammad il profeta, ma erano ben pochi, non avevano né vera organizzazione militare né macchine da guerra.

I mille garibaldini, insomma, contro i duecentomila soldati dei Borboni. Mai, quegli incursori, avrebbero potuto vincere l’esercito di Bisanzio, alla quale apparteneva l’Egitto, se le truppe cristiane non si fossero sbandate prima ancora dell’urto e se le popolazioni non avessero acclamato gli invasori come liberatori. L’Egitto, infatti, aveva accettato presto il cristianesimo, con un fervore persino eccessivo. Ne nacquero le vette ascetiche degli eremiti nel deserto, ma ne venne anche un pullulare di eresie in guerra, spesso sanguinosa, tra loro. Tutti gli egiziani, comunque, erano uniti quando si trattava di lottare contro la dipendenza dall’odiata Costantinopoli.

Sta di fatto che alla notizia che contro l’Impero Romano d’Oriente si erano avventati quegli arabi, le truppe, formate in gran parte da mercenari egiziani, si rifiutarono di combattere e, soprattutto ad Alessandria, si giunse a preparare archi di trionfo per gli invasori.

Del resto, non saranno dei cristiani a chiamare in Spagna la Mezzaluna per faide interne tra Visigoti? E la Francia non sarà sempre, persino a Lepanto, dalla parte del Turco?

L’entusiasmo degli egiziani doveva presto spegnersi: i musulmani non forzavano alla conversione (anzi, spesso tentarono di frenarla, perché ogni convertito in più era un sottomesso da spremere in meno), ma il loro regime spietato di sudditanza del credente nel Vangelo al credente nel Corano indusse la maggioranza dei battezzati a cambiare fede.

Quelli che non vollero apostatare furono detti “copti“, deformazione araba del termine greco “egizi“, ad indicare che si trattava dei discendenti di coloro che gli arabi avevano trovato in quella terra.

La resistenza di questo zoccolo di battezzati, che dopo qualche secolo si stabilizzò su una percentuale simile a quella attuale –circa il 10 per cento– suscita ammirazione e riconoscenza da parte di ogni cristiano ed è il segno della fortezza della fede, malgrado il cedimento di tanti.

Ma va pur detto che, per ogni regime musulmano succedutosi in Egitto, i copti furono in qualche modo la spina dorsale. In effetti la loro cultura maggiore della media, la loro intraprendenza, il loro desiderio di mostrarsi zelanti per allentare i carichi da cui erano gravati, fecero sì che fosse essenziale la loro presenza nella politica, nell’ amministrazione, nell’economia. Così, le guerre sostenute contro i cristiani – a cominciare dalle crociate – furono vinte dagli islamici anche grazie al sostegno fedele dei copti ortodossi. Questi, tra l’ altro, non furono affatto fraterni, bensì spietati, contro i copti cattolici e anche contro gli altri ortodossi, greci e slavi, che rifiutavano il monofisismo.

Così, sin dai lontani inizi, la storia dell’Egitto musulmano è un intreccio – a nche se spesso fecondo e culturalmente prestigioso – di complicità reciproche tra Dio ed Allah.

Ma è, purtroppo, anche una storia di contrasti sanguinosi tra i cristiani di varia obbedienza.

In ogni caso, sino a tempi recenti la convivenza, cementata da tanti secoli, non è mai stata messa seriamente in discussione. Che è avvenuto, dunque, da qualche tempo? Credo non abbia torto –almeno in questo– il Grande Imam del Cairo, Al Tayyeb, nell’intervista di ieri al

Corriere: "L’attentato criminale di Alessandria non è un attacco ai cristiani ma all’Egitto intero". In effetti, tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che avuto come detonatore l’ intrusione violenta del Sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i Credenti quasi alla pari della Mecca.

Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio a un pan- islamismo che intende demolire le frontiere e i regimi attuali per giungere a un blocco comune e ferreo di fedeli nel Corano. Una sorta di superpotenza che possa sfidare persino gli Stati Uniti, padrini di Israele. Il successo indubbio dell’azione dell’undici settembre 2001 ha infiammato gli entusiasmi, mostrando che la guerra vittoriosa è possibile. Se in Egitto, e altrove, si attaccano i cristiani, in Iraq si ammazzano gli sciiti che, per i panislamisti, non sono veri musulmani e dunque non possono far parte del Grande Fronte. I cristiani vanno messi in fuga, alla pari di ogni altro che non faccia parte della sacra Umma. Se la diagnosi è questa, ci sono “cure“, come quelle alla Bush, che aggravano ed esasperano il male. Onore ai cristiani uccisi, memoria sincera alla loro testimonianza: ma proclamare crociate contro

Paesi, come l’Egitto, vittime anch’esse di un disegno imperiale, significherebbe – come constatano gli Americani, ormai sconfitti in Iraq e in Afghanistan – aggiungere solo altre vittime e gettare benzina sul fuoco coranico.

(di Vittorio Messori)

NOI NON DIMENTICHIAMO

L'Occidente molle ha rinunciato alla propria identità


Non sarebbe lontano dal vero nel constare com'è combinato. Se è assodato che una guerra identitaria ed economica, ipocritamente «giustificata» ad un'opaca religiosità, altrimenti detta jihad, è stata scatenata contro questa parte dell'emisfero, ed in particolare ai danni dell'Europa, non resta da chiederci che cosa facciamo noi occidentali ed europei per reggere il conflitto.

Accettare la logica, fino alle estreme conseguenze, dello «scontro di civiltà», teorizzato da Samuel P. Huntington, porterebbe inevitabilmente alla catastrofe. Rifiutarne le premesse, vale a dire la debolezza della nostra civiltà permeabilissima all'islamismo e al relativismo nichilista - apparentemente opposti, ma occasionalmente alleati - significa condannarsi alla subalternità rispetto ad una ideologia distruttiva e negarsi un ruolo attivo nelle dinamiche mondiali. Davanti all'Occidente sta questo dilemma angoscioso del quale le sue classi dirigenti non sembrano preoccupate. Basta, del resto, constatare come di fronte alla cristianofobia si sono atteggiate tanto l'America che l'Unione europea per comprendere come la nostra civiltà sia davvero in pericolo.

Se un giorno il mondo islamico, fortemente influenza al qaedismo sottovalutato dal punto di vista ideologico e non sempre adeguatamente considerato sotto quello militare, dovesse impossessarsi della tecnologia occidentale, la partita sarebbe persa. Le masse disposte ad insorgere contro un Occidente molle verrebbero fanatizzate dalla loro fede e si muoverebbero con una forza demografica di fronte alle quale nessun argine sarebbe possibile. Uno scenario irreale? Per niente. Quando si rinuncia ad essere se stessi, alle proprie radici, alla cultura che dovrebbe guidare scelte politiche ed economiche, è inevitabile che il baratro si apra davanti all'opulento Occidente che vive il proprio tramonto in perfetta incoscienza. Non c'è bisogno di uno Spengler o di un Toynbee che ci mettano davanti al nostro destino.

Consideriamo soltanto la colonizzazione a cui siamo soggetti ed ammettiamo che il nostro indifferentismo culturale sta facendo sorgere moschee in Occidente senza che nessun luogo di culto cristiano venga ammesso nelle terre dei fedeli di Allah; che la Corte europea dei diritti dell'uomo dichiara legittimo staccare il crocifisso dalle aule scolastiche per non offendere le altre confessioni; che educatori improvvisati aboliscono presepi, canti natalizi e tradizioni millenarie per non mettere in imbarazzo i "diversamente devoti"; che il laicismo impone continue abiure ed il "pensiero unico" politicamente corretto richiede che il passato europeo venga sconfessato dagli stessi eredi a beneficio dei nuovi padroni del mondo in cambio di gas, petrolio o di non belligeranza terroristica.

In questi giorni in cui i cristiani copti, quelli sudanesi, pachistani, nigeriani vengono perseguitati, massacrati dall'odio islamista e derisi dalla blasfemia edonista, non vediamo che gli ultimi brandelli di dialogo tra mondi, culture e civiltà stanno disfacendosi miseramente. L'accerchiamento è totale e chi non l'avverte è quanto meno sprovveduto. L'Europa, terra di evangelizzazione secondo Giovanni Paolo II, è un deserto popolato da anime morte. Comicamente tutti cercano una tale lady Catherine Ashton, di mestiere fa l'Alto commissario europeo per gli affari esteri e la sicurezza: nessuno la trova, mentre dovrebbe provvedere a far sentire la voce dell'Unione su quanto sta accadendo. Così ci siamo ridotti. Una volta un cantastorie intonava: Goodbye Occidente. Ci sembrava irreale. Mortificante come prospettiva. Oggi è mostruoso.

(di Gennaro Malgieri)

giovedì 6 gennaio 2011

Un appello alla Nazione: questa è la volta buona per fare la festa all’Italia

Ma allora la facciamo o no questa Festa Nazionale per i 150 anni dell’Unità d’Italia? Lo chiedo in giro, al presidente del comitato per l’Unità d’Italia, a ministri e protagonisti della politica italiana e delle istituzioni, ma nessuno sa dire niente e molti dicono che non è stata né bocciata né varata la decisione definitiva; resta italianamente nel mezzo, a bagnomaria. Il mistero della festa annunciata. Torno a chiederlo ora che da domani cominciano dal Tricolore i festeggiamenti per la nostra benedetta e maledetta unità d’Italia.

Se ricordate, si pensò di dichiarare festa nazionale il 17 marzo del 2011, data della proclamazione ufficiale dell’unità d’Italia 150 anni fa. Avanzai formale proposta in questo senso proprio nel comitato dei garanti e fu approvata. La proposta fu accolta nelle sedi istituzionali competenti e si decise di istituire solo per il 2011 la festa dell’Italia. Poi la scelta si arenò per motivi misteriosi che vanno dalla crisi economica (non ci sono soldi) al timore di creare contraccolpi antiunitari e dispiaceri ai leghisti. Si parlò di declassarla a solennità civile. Poi nulla. Per ora tutto resta affidato a qualche bel concertone per il 17 marzo, a una notte bianca, rossa e verde per deliziare l’Italia nottambula e alle celebrazioni soprattutto piemontesi che il neopresidente della Regione, il leghista Cota, ha confermato per intero, con soddisfatta sorpresa dei promotori. Ma di festa popolare e nazionale, festa nelle scuole e nei luoghi pubblici, manco a parlarne.
Ora io credo che un Paese debba avere la minima dignità di ricordare la data in cui si unì. Lo deve fare anche per ricordare il passato diviso, le pagine buie, le motivazioni di coloro che si opposero al Risorgimento e all’Unità. Motivazioni che sono veramente trasversali: leggetevi Gramsci e capirete le ragioni della diffidenza dei socialisti e dei comunisti anche nel nome dei contadini. Ma leggete pure le ragioni della contrarietà dei cattolici o dei meridionali, dei difensori degli Asburgo o dei Borbone. Ragioni rispettabili, a parte le esagerazioni revansciste. Ma ciò non toglie che un Paese adulto e civile abbia il dovere di ricordarsene. Ciò non toglie che l’Italia esiste e fino a prova contraria è la nostra Nazione, sancita dalla Tradizione e dalla Costituzione, dalla lingua e dalla malalingua. Aggiungete pure altre due considerazioni. La prima: non abbiamo una sola festa che celebri l’unità d’Italia, abbiamo la festa della Liberazione imperniata sulla dolorosa guerra civile e abbiamo la festa della Repubblica, impiantata sulla spaccatura a metà tra monarchia e repubblica. Il 4 novembre non è più festa da un pezzo. Non abbiamo una festa degli italiani e dell’Italia tutta. Una festa nata per unire, usando il bel motto del felice spot della Difesa per i 150 anni.

La seconda ragione ancora più contingente della prima è che la sorte ci ha giocato un brutto scherzo quest’anno: il calendario relega le festività civili della prima metà dell’anno nelle festività religiose, dal 25 aprile oscurato dalla Pasquetta al Primo Maggio inghiottito in una domenica. Dunque, Sor Giulio, possiamo anche permetterci a fronte di due feste risparmiate, di averne una per un compleanno particolare. Perché non farla? Certo, c’è il rischio elezioni, ma questo mi pare un motivo in più per farla. Perché non farla rischia di diventare un buon argomento da campagna elettorale per le opposizioni. Gente che fino a ieri considerava la patria fascista e il tricolore la bandiera del calcio, dei monarchici e dei missini, dirà che questo governo sotto ricatto della Lega non ha il coraggio nemmeno di difendere l’Unità d’Italia. Vedremo sfilare passerelle di cariche dello Stato, più uno sciame di patrioti giacubbini, da cumpare Di Pietro a cumpariello Vendola, più i patrioti emiliani del tortellino, Bersani, Fini e Casini, per esaltare l’unità d’Italia a dispetto del governo sordo.

È questo che volete? Allora dico al presidente del consiglio, ai ministri della Difesa e dei Beni culturali, della Pubblica Istruzione e della Gioventù: che aspettate a rianimare il disegno di legge per l’istituzione della festa nazionale almeno solo per quest’anno? Scuole chiuse, discorso alla nazione, festa popolare in tutta Italia. Tanto più che la festa è pronta, i Comuni e le Regioni già si sono mossi, saranno allestite mostre e ci saranno eventi. Non dite che con i problemi che ci sono non è il caso di festeggiare, perché con questa logica dovremmo stare sempre in lutto stretto a piangere miseria sull’Italia, come fanno i catastrofisti della sera. Se volete trovare una formula non lesiva di nessuno, nemmeno della Lega e degli antirisorgimentali cattolici, terroni e socialisti, ripartite da lontano, dall’Italia nazione culturale, cioè dall’Italia antica e medievale, dall’Italia della lingua e della letteratura italiana, dall’Italia primatista mondiale dei beni culturali e dall’Italia erede di una civiltà giuridica e un Impero che unì i popoli, e sede di un papato universale.

Poi rendete omaggio anche a chi si oppose o patì l’Unità d’Italia, date spazio anche a letture critiche, siate inclusivi nelle celebrazioni d’Unità. Ma fate la festa all’Italia, è un buon punto per ripartire. Un sobrio amor patrio ci vuole ancora. Un Paese che non si ama non si salva.

(di Marcello Veneziani)

domenica 2 gennaio 2011

È ora che Saviano rinneghi la difesa di quel criminale


È ora che Roberto Saviano venga allo scoperto sul caso Battisti. È arrivato il momento di essere chiari, di non cincischiare, di non essere vaghi. Voi direte: cosa c'entra lo scrittore napoletano col terrorista rosso che Lula ha deciso di non consegnare all'Italia? C'entra, eccome se c'entra. Il nome di Saviano compare infatti nella famosa "lista della vergogna" di oltre duemila persone che nel 2004 fecero un appello delirante a favore di Battisti quando fu arrestato a Parigi dalle autorità francesi. Un documento in cui, tanto per capire che razza di idee sostengono questi signori, l'assassino dei Pac diventato romanziere viene presentato come "un uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista, in una parola un intellettuale vero".

Battisti viene dipinto come un perseguitato dai neofascisti "degli anni Settanta, da militanti della P2 e di Gladio....e dal governo italiano attuale". Dunque "sarebbe un delitto" riconsegnarlo all'Italia. Saviano, all'epoca un giovane studente e scrittore ancora sconosciuto, mette la sua firma sotto questa paccottiglia ideologica di basso livello.

D'altra parte i principali sostenitori di Battisti sono tutti amici suoi, persone con cui Saviano è cresciuto in ambito letterario: Valerio Evangelisti, Tiziano Scarpa, Giuseppe Genna e altri ancora. Molti si raccolgono intorno al sito "culturale" Carmilla. Per la verità, quando tre anni dopo la storia viene a galla, all'inizio Saviano nega pure di aver firmato quell'appello. Poi dice di non ricordare come gli era arrivato: "forse una catena di Sant'Antonio". Quindi ritira la sua firma perchè "questa causa non mi appartiene, non ne so abbastanza e per rispetto di tutte le vittime".

Un anno fa il sottoscritto ha posto via mail una domanda semplice semplice all'uomo diventato nel frattempo l'icona della giustizia nel nostro Paese: ma lei è favorevole o no all'estradizione di Battisti? La risposta è stata sconcertante. La riporto qui testualmente: "La vicenda Battisti ha molte contraddizioni processuali e ambiguità. Va risolta attraverso il diritto". Il che non vuol dire assolutamente niente. Fuffa allo stato puro. Insomma, nessuna parola chiara, anzi qualche sponda agli amici del terrorista. Siamo certi però che dopo tanto titubare il Saviano nazionale, l'uomo che è ormai diventato il simbolo della lotta alla criminalità e un mito per tante persone, vorrà spendere nei prossimi giorni qualche minuto del suo tempo per comunicare urbi et orbi come la pensa sul criminale Battisti. Senza se e senza ma. Uno come lui non può che sostenere le ragioni della giustizia italiana e delle vittime.

Dica ad alta voce che Battisti deve essere estradato, se la prenda un pò con Lula, mito della sinistra mondiale che ora appoggia un killer che ammazzava i commercianti solo perchè li considerava "porci" al servizio del capitalismo. Risponda almeno ad Adriano Sabbadin, figlio del macellaio di Caltana massacrato a colpi di pistola da un commando con in testa Battisti nel febbraio '79, che tempo fa gli chiedeva invano: "Davvero ha firmato quella roba lì? E se lo ha fatto, mi può spiegare perché? E soprattutto, oggi che è diventato, giustamente, un punto di riferimento per tanti giovani, può spendere una parola anche contro il terrorismo? Se lo ritiene opportuno». E, sempre se ne ha voglia, lo faccia magari insieme a Fabio Fazio in televisione. Non c'è solo Berlusconi da mettere nel mirino.

(di Giuseppe Cruciani)

Il sapore amaro della gauche caviar


Gauche caviar è la sintetica espressione francese che traduciamo in «sinistra al caviale», capace di indicare quel variegato mondo, uniforme nel suo stile di vita e nelle presunzioni morali, fatto di intellettuali e imprenditori accomunati dalla ricchezza e dalle idee progressiste. Tom Wolfe, in un memorabile articolo pubblicato nel 1970 dal New York Times, li definì radical chic, indicando l’abitudine delle ricche signore di Manhattan d’invitare ai party esponenti del gruppo terroristico delle Pantere Nere, profondendo champagne e tartine al caviale. Champagne left, si dice in Gran Bretagna per indicare i laburisti con lussuose residenze in Toscana e Costa Azzurra.

La gauche caviar, in queste ore, festeggia la mancata concessione dell’estradizione di Cesare Battisti in Italia. L’Internazionale delle giacche di velluto, delle sciarpette multicolori, degli appelli impegnati e degli appartamenti lussuosi in centro solidarizza con il pluriomicida italiano.

«Dobbiamo salutare l’eccezionale sagacia del presidente Luis Ignacio Lula, che ha saputo elevarsi al di sopra di questo clima passionale per pronunciare la non estradizione di Cesare Battisti, basandosi su elementi fattuali, giuridici e umani», ha annotato la scrittrice francese Fred Vargas. Il suo messaggio è apparso, guarda caso, sul sito della rivista La regle du jeu diretto dal filosofo Bernard Henri Levy, da sempre l’icona dei radical chic europei, esponente di punta della Nouvelle Philosophie.

In tutti questi anni della sua lunga latitanza, più o meno nascosta, Cesare Battisti ha potuto contare su una vasta rete di complicità che lo ha sorretto materialmente e politicamente. Le latitanze costano e qualcuno ha pagato. E fatto più grave, i suoi ricchi amici hanno unito al sostegno concreto una sorta di condivisione morale delle sue nefandezze. Sono loro, forti di un’egemonia nei media, ad aver abilmente orchestrato, prima in Francia e poi in Brasile, una campagna tesa ad accreditare l’immagine del perseguitato politico, colpevolizzato per le sue idee di sinistra.

I decenni passano le abitudini restano, i gauche caviar parigini sono i parenti di quegli intellettuali che in Italia, dagli appartamenti del centro di Milano e dalle terrazze romane, teorizzavano che non bisognava «stare né con lo Stato né con le Br». Coloro che possedendo grandi giornali ignorarono volutamente il rapporto del prefetto milanese Libero Mazza che diagnosticava con impressionante lucidità l’evoluzione della contestazione in terrorismo. Gli stessi che fecero il vuoto attorno a Walter Tobagi lasciandolo solo con le sue coraggiose idee.

Non molto tempo fa, a molti italiani vennero i brividi nel leggere l’intervista rilasciata dall’attrice Fanny Ardant che affermava testualmente: «Ho sempre considerato il fenomeno Brigate Rosse molto coinvolgente e passionale... quella era un’epoca in cui si sceglieva un campo...».

Ben oltre la conclusione materiale della vicenda Battisti occorrerà riflettere su tutto ciò, sulle scorie del leninismo e sulle presunzioni morali di un’opulenta sinistra accomunata dallo stesso tipo antropologico. Ci sono le colpe di Battisti, consacrate dalle sentenze dei tribunali, ci sono quelle dei suoi complici a questo punto non solo morali. Vivere tra places des Vosges e i giardini del Lussemburgo, nel perimetro più caro al mondo, dove si concentrano gran parte dei firmatari degli appelli pro Battisti, è bello oltre che comodo. Il caso Battisti è anche questo un concentrato delle ipocrisie della sinistra globale.

(di Gennaro Sangiuliano)

Se lo Stato sociale affonda le radici nel Ventennio

Sanità pubblica, enti previdenziali, tutela del lavoro e Stato sociale hanno, nel nostro Paese, un'origine comune che troppo spesso viene volutamente dimenticata. Un'origine che non è di sinistra ma che affonda proprio nel Ventennio fascista.

Ci vuole uno studioso della tempra e della bravura di Michele Giovanni Bontempo - giurista cattolico e funzionario del Ministero dell'Economia e delle Finanze - per riportare alla luce quel lungo processo che, nell'arco di ben quindici anni, ha portato il nostro Paese a fare impresa. Dall’agro-alimentare al tessile, dal chimico al meccanico. Lo Stato sociale nel Ventennio racconta la nascita di quel prestigioso marchio, noto a livello mondiale con il nome di made in Italy. E' così che, capitolo dopo capitolo, Bontempo ripercorre con sapienza la storia di quelle aziende (tuttora molto vitali) che sono il vanto della nostra produzione.

Il welfare del Ventennio Dall'Istituto nazionale di assistenza malattie (Inam) all'Opera maternità e infanzia, dall'Assistenza ospedaliera per i poveri alle grandi opere pubbliche. "Chi ha promosso questo welfare italiano, questa sociale, economica ed industrial, che ha reso grande l'Italia anche all'estero? - si chiede Bontempo - non la sinistra, ma il fascismo durante il Ventennio. Una legislazione sociale che ha ripreso il meglio del welfare giolittiano". Nel saggio pubblicato nella collana dei Libri del Borghese, Bontempo descrive con estrema precisione il cambiamento della società italiana negli anni che videro la nascita e l'affermazione del fascismo, soffermandosi soprattutto sulle leggi e sui provvedimenti che portarono il nostro Paese tra le nazioni con il Welfare più evoluto dell'epoca. Da Lo Stato sociale nel Ventennio emerge, con gustosa chiarezza, la profonda maturazione della società italiana che vede rivoluzionarsi i rapporti alla base del lavoro. Datori di lavoro e lavoratori hanno diritti ed obblighi reciproci.

Un Ventennio di cambiamenti Le fonti di Bontempo sono i testi storici e le Gazzette Ufficiali dell'epoca, rarità oggi sconosciute al grande pubblico. Si inizia con un rapido esame della società e dell'economia appena emerse dalla Grande Guerra, allo sbando la prima, praticamente distrutta la seconda. Partendo da tale premessa Bontempo analizza le politiche intraprese dal governo Mussolini per agevolare la tendenza a "fare impresa". Una tendenza che, stranamente, avrebbe poi salvato l'economia italiana dando vita al boom economica degli anni Cinquanta e Sessanta. Tutto questo passando attraverso la promozione di una politica sociale senza precedenti. Alla fissazione dell’orario di lavoro fa seguito l’ampia tutela per le donne (di questi anni il divieto di licenziamento per le gestanti) e i bambini. Non solo. Il saggio di Bontempo mostra molto chiaramente come il governo Mussolini abbia varato la prima normazione relativa all’igiene ed alla salubrità delle fabbriche.

La legislazione sociale del Ventennio Lo Stato sociale nel Ventennio riporta alla luce, con estremo coraggio, conquiste che non vengono insegnate a scuola. E' così che Bontempo ripercorre le radici del divieto di licenziamento senza giustificato motivo o senza giusta causa e degli istituti che garantiscono e regolano non solo la pensione ma anche le assicurazioni di invalidità, vecchiaia e disoccupazione. Bontempo ricorda, poi, come sia proprio di questi anni l’introduzione degli assegni per gli operai con famiglia numerosa e l'istituzione di strutture il cui fine è quello di assistere i poveri e quelli che oggi chiameremmo "diversamente abili". Nel Ventennio, spiega Bontempo, la conservazione del posto di lavoro era garantita e favorita da continui corsi professionali che avevano lo scopo di aggiornare il lavoratori. Sono solo alcuni (pochi) degli esempi che il giurista confeziona in un saggio istruttivo e prezioso per riscoprire le radici e i cardini del nostro Stato sociale.

(di Andrea Indini)