domenica 12 febbraio 2012

Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo


“Nessun mondo – scrive Philippe Muray – è mai stato più detestabile di quello attuale”. Ma qual è dunque questo mondo? Dopo l’affondamento del sistema sovietico, si è passati da un mondo diviso in due blocchi ad un mondo dominato da una sola potenza, che tenta d’imporre la sua legge al pianeta intero. Virtualmente, questo mondo non sarebbe altro che un villaggio globale, dove il progresso economico, dal quale si suppone tutti possano trarre giovamento, accrescerebbe l’ineluttabile evoluzione verso un modello politico, la democrazia liberale rappresentativa, della quale gli Stati Uniti costituirebbero il modello più completo. Alla fine, il mondo diverrebbe un vasto mercato popolato da semplici consumatori, sottomessi di volta in volta all’ordine marciante.

Il capitalismo si è deterritorializzato. I raggruppamenti industriali infine hanno dato luogo alla formazione di società transnazionali, i cui bilanci superano di gran lunga quelli dei singoli paesi. Allo stesso tempo, le nazioni sono state invitate ad abolire le loro barriere doganali, ad aprire le loro frontiere alle persone ed ai capitali, a favorire con ogni mezzo la “libera circolazione” dei prodotti e dei beni. Questo è il senso primario di una globalizzazione che supporta la volatilità dei mercati, le delocalizzazioni, la ricerca permanente di una maggiore produttività, la reificazione generalizzata dei rapporti sociali.

Questo sistema è fondato sulla trasformazione di tutte le attività viventi in mercantili. Il mercato non vale se non attraverso il denaro. Il denaro è l’equivalente generale che cela la natura reale degli scambi ai quali è preposto. Nel mondo del mercato, la legge suprema è la logica del profitto, legittimato da un’antropologia facente dell’individuo un essere avente come obiettivo permanente il suo migliore interesse. La sottomissione progressiva di tutti gli aspetti della vita umana alle esigenze di questa logica destruttura il legame sociale. Essa genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, gli “uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici”. Gli altri uomini dunque non sono percepiti se non attraverso il loro potere d’acquisto e la loro capacità di generare profitto, attraverso la loro attitudine a produrre a lavorare e consumare. I media uniformano i desideri e le pulsioni, al prezzo di una radicale desimbolizzazione degli immaginari, produttori di una falsa coscienza, di una coscienza alienata.

È esattamente questo il mondo in cui viviamo. Un mondo senza esteriori, che ha abolito le distanze e il tempo, dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti, dove le passioni si riducono agli interessi, dove il valore è ribassato sul prezzo, dove i bambini stessi divengono dei beni (e degli utili) di consumo durevole, dove la politica è ridotta alla porzione congrua, dove i detentori di potere non sono più eletti e dove coloro che sono eletti sono impotenti. Un simile mondo non minaccia soltanto la vita interiore, le identità collettive, la diversità dei viventi. Esso minaccia l’umanità propria dell’uomo.

Per contrapporsi alla miseria affettiva ed agli stress materiali che ne risultano, la Forma-Capitale usa strategie differenti. Da un lato, crea senza interruzione nuovi bisogni, moltiplica le distrazioni e i divertimenti, propaga l’idea che non esista felicità se non in un consumo il cui orizzonte è continuamente riposto più lontano. Dall’altro lato, il suo pretesto di lottare contro il “populismo”, il ” comunitarismo “, il ” terrorismo “, rinforza le procedure di controllo e di sorveglianza. Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Si instaura la “democrazia delle bocche cucite” (Paul Thibaud). Per smorzare la portata dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, per disarmare le nuove “classi pericolose” e rendere inoperante la loro velleità di rivolta, crea dei nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, strumentalizza i conflitti culturali e gli urti tra comunità. Come sempre, si divide per comandare. L’obiettivo è quello di instaurare tutto ciò che crea caos per continuare a regnare senza alcuna minaccia.

Dinnanzi ad un simile spettacolo, non si può che avere ovviamente simpatia per un movimento “altromondista”, il quale afferma perentoriamente che “il mondo non è un mercato” e che “un altro mondo è possibile”. Ma questa simpatia non può essere che critica. Non è soltanto il fatto di non avere alternative chiare da proporre che può essere rimproverato al movimento “no global” – non è necessario dover definire ciò che si vuole per sapere ciò che si rifiuta -, né di essere un conglomerato troppo eterogeneo dove si incontrano protestatari emozionali, autentici libertari, “rivoluzionari” d’abitudine e social-democatici “esigenti”. E’ piuttosto l’attitudine ad anteporre l’indignazione alla riflessione. E di non andare fino al fondo delle cose.

Non è in effetti sufficiente denunciare le disuguaglianze nel nome della “giustizia” e della “dignità”, o di appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario. Non è sufficiente parlare di “tolleranza” per riconoscere pienamente la diversità culturale. Non è sufficiente opporre la razionalità etica alla razionalità del denaro. Non è sufficiente, infine, dire “no alla guerra!” per disegnare, di contro all’unilateralismo americano, i contorni di un nuovo Nomos della terra per un nuovo ordine multipolare. Il movimeno “no global” non ha visibilmente idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico. Gli manca un’antropologia che gli permetterebbe di contestare la globalizzazione in nome dei popoli, e non delle “moltitudini” (Antonio Negri), in nome delle libertà, e non dei “diritti dell’uomo”. Si ostina a rimanere, per ciò che concerne la giustizia sociale, nella polarità della morale e dell’economia, che è la medesima alla quale dichiara di opporsi; l’ “altromondismo” rischia di disattendere la sua vocazione e di essere nient’altro che una forma di “movimento” in mezzo a tante altre.

Militare per un “altro mondo” implica la rottura con una matrice ideologica che ha allo stesso modo condotto all’internazionalismo liberale quanto allo “statalismo progressista”. Come scrive Jean-Claude Michéa, “l’idea di una società decente, o socialista, non può riporsi sul progetto di un’”altra” economia o di un’”altra” mondializzazione, progetti che non possono che condurre, in fin dei conti, ad un altro capitalismo [...] Essa è riposta, al contrario, su un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa”. Dunque non si tratta soltanto di correggere le “ingiustizie” di un sistema, o rimanere ad un approccio strutturale dei giochi. Si tratta di finirla con la dittatura dell’economia, il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili. Si tratta di decolonizzare l’immaginario. Di adoperarsi per l’avvento di un altro mondo, che non sia soltanto al di là delle cose, una visione trascendente o utopica, ma un nuovo mondo comune. Prospettiva rivoluzionaria? Non sarà mai tanto rivoluzionaria quanto la Forma-Capitale, che in questo mondo, ha già distrutto tutto.

(di Alain de Benoist)

venerdì 10 febbraio 2012

Le foibe? Caro presidente, furono i comunisti


Presidente Napolitano, mi dispiace, ma non ci stiamo. Ricordando ieri le foibe lei se l’è presa con «le derive nazionalistiche europee», attribuendo a esse l’eccidio di migliaia di istriani, dalmati e dei partigiani bianchi.

Ma le cose, lei lo sa bene, non stanno così. L’orrore delle foibe fu perpetrato dai partigiani comunisti di Tito con l’appoggio del comunismo mondiale e dei comunisti italiani. Lei non ha mai citato il comunismo a proposito delle foibe.

È come se nella giornata della Memoria, celebrata pochi giorni fa, non citassero mai il nazismo ma se la prendessero con il comunismo. Certo, il nazionalismo fu una delle causeche inasprì i rapporti sui confini orientali; così come è noto che l’Unione Sovietica dette una mano a Hitler nella caccia e nello sterminio degli ebrei. Ma in entrambi i casi non si può tacere il principale colpevole e va citato per nome: il nazismo per la shoah e il comunismo per le foibe o per i gulag.

Lo sterminio degli italiani e la loro espropriazione obbedì a una triplice guerra: la guerra del comunismo contro l’Italia fascista, poi la guerra dei proletari comunisti contro i benestanti borghesi, quindi la guerra etnica contro gli italiani. Non salti i due precedenti passaggi e abbia l’onesto coraggio di chiamare i sicari per nome: furono comunisti. Il nazionalismo in questo caso c’entra assai meno, tant’è vero che i collaborazionisti di Tito furono anche i comunisti italiani. Con tutto il rispetto che merita, e persino la simpatia, non ricada nel dimenticazionismo.

(di Marcello Veneziani)

Foibe: io non scordo!

giovedì 9 febbraio 2012

“Le frasi del Governo sul posto fisso? Sbagli di chi non è un politico”


Ad aprire i giochi era stato Mario Monti, mercoledì a Matrix: “Che monotonia un posto fisso tutta la vita”. Hanno rincarato la dose il ministro del Lavoro Fornero (“chi promette un posto fisso a vita promette facili illusioni”) e quello dell’Interno Cancellieri: “Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città accanto a mamma e papà”. Parole pronunciate mentre si sta discutendo la riforma del lavoro, forse il provvedimento più delicato di cui si sia occupato questo governo dalla sua nascita. Perché queste dichiarazioni, e perché proprio ora? Lo abbiamo chiesto a Marco Tarchi, professore di Comunicazione politica all’Università degli studi di Firenze.

Cosa ne pensa?

Credo che non si sia trattato di espressioni particolarmente felici. Non penso che questo modo un po’ ruvido di affrontare certi argomenti possa avere una ricaduta molto positiva sull’opinione pubblica. Alcuni settori potranno approvare, ma credo si tratti di settori piuttosto limitati.

Secondo lei perché gli esponenti del governo hanno detto queste cose?

Penso che i motivi siano due. Il primo: non si tratta di politici di professione, non hanno lo stesso tipo di rapporto con le reazioni dell’opinione pubblica. Per lo più sono professori universitari e civil servants, abituati a parlare a un altro tipo di pubblico. La seconda ragione è che sanno che al momento non ci sono alternative a questo governo. Sono stati chiamati prescindendo da qualsiasi pressione dell’opinione pubblica e dei partiti, e si ritengono autorizzati a dire esattamente quello che pensano. Non a caso, quando è nato il governo, Monti aveva ordinato ai ministri di non partecipare ai talk show. Temeva che dovessero scontare la loro inesperienza.

Poi però il presidente del Consiglio ha cambiato idea.

E’ tornato indietro perché si può anche essere inesperti di politica, ma oggi come oggi non si può rimanere isolati volontariamente dai grandi canali comunicativi. Non si può svolgere un ruolo di governo senza concedersi a tribune televisive di larga audience. Dopo la chiusura di partenza, credo che scendere a più miti consigli sia stata una scelta obbligata.

Le dichiarazioni sul “posto fisso” arrivano mentre c’è sul tavolo la riforma del lavoro. Il governo usa le esternazioni per accelerare i tempi?

Non credo che ci sia dietro una strategia di questo tipo. Non penso che su questi argomenti ci sia la presunzione di creare una maggioranza di opinione pubblica favorevole. Credo che gli esponenti del governo vogliano apparire come quelli che risolvono i problemi, costi quel che costi. Vogliono dimostrare che non si fanno scrupoli, nel senso che non stanno al traino di nessuno.

Sul lungo periodo che effetto potrà avere questo tipo di dichiarazioni sull’opinione pubblica?

Non credo che la mentalità italiana sia preparata a un cambiamento simile. Si tratta, in un certo senso, dell’ennesimo episodio di americanizzazione dell’Italia: gli Stati Uniti sono il Paese che più di ogni altro considera normale cambiare lavoro da un anno all’altro. Non sarà facile far digerire questo aspetto di quella cultura, come invece lo è stato su altri versanti. Per generazioni il posto fisso è stato considerato un traguardo irrinunciabile, una “conquista di civiltà”. Rovesciare un concetto del genere richiederà molti anni.

Se ciò che hanno detto Monti, Fornero e Cancellieri fosse uscito dalla bocca di Berlusconi, cosa sarebbe successo?

Ci sarebbero state reazioni decisamente più aspre. La carta comunicativa fondamentale giocata da questo governo è l’immagine di assoluta dedizione, serietà, rispettabilità. Tutto questo non veniva riconosciuto a Berlusconi. C’è da immaginare che lo avrebbero attaccato in modo molto più feroce. Quando un personaggio come Padoa Schioppa (che l’aplomb lo aveva) usò il termine “bamboccioni”, ci furono proteste notevoli. Figuriamoci se a parlare fosse stato Berlusconi.

martedì 7 febbraio 2012

Fermarsi a un passo dal disastro



Il veto al progetto di risoluzione della crisi siriana di due dei membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese, ha motivazioni ben fondate.

Russia e Cina, pur senza negare la necessità di prendere una risoluzione in seno al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, hanno proposto di renderla il più aderente possibile alla situazione esistente: da questo infatti dipenderà la sua efficacia. Si tratta, in particolare, di non includere nel documento la richiesta, inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale, di allontanare dal potere il presidente, regolarmente eletto, Bashar al Assad, di non addossare tutta la responsabilità del conflitto su una soltanto delle parti, cioè il governo siriano, senza prendere provvedimenti politici contro l'altra parte, e di non emettere sanzioni contro la Siria.

I due Paesi sono inoltre preoccupati su alcuni punti del progetto di risoluzione, avanzati da diversi Paesi occidentali e arabi, i quali, come hanno dimostrato gli eventi in Libia, potrebbero essere sfruttati per giustificare un intervento armato in Siria. Non è difficile immaginare che Cina e Russia non abbiano nessuna voglia di essere ingannati per la seconda volta. Non è passato molto tempo da quando gli Stati Uniti hanno chiesto di non porre il veto alla risoluzione Onu sulla Libia, presentandola come una semplice richiesta di chiusura dello spazio aereo sopra al Paese per evitare attacchi da parte dell'aviazione di Gheddafi che avrebbero potuto ripercuotersi sulla popolazione civile. In quell'occasione, la parte “amorfa” della risoluzione venne impugnata direttamente per rovesciare il regime di Gheddafi.

Cosa c'è dietro alla presa di posizione contro la Siria? La Siria è rimasta vittima, soprattutto, del proprio avvicinamento all'Iran. La destituzione del regime attuale, infatti, fa parte del più ampio progetto di isolamento dell'Iran. D'altra parte, l'avvicinamento tra Damasco e Teheran è avvenuto sotto l'influenza dell'irrisolto conflitto arabo-israeliano. Ricordo come, durante una conversazione con Hafiz al Assad, il padre dell'attuale presidente, mi disse che avrebbe cercato di non restare solo “faccia a faccia contro Israele”. La mancata regolazione del vicino conflitto mediorientale, che ha la tendenza a crescere continuamente verso una fase critica, ha spinto Damasco a creare, per ogni evenienza, un ponte con l'Iran.

Per quale motivo, poi, la maggior parte dei Paesi arabi ha deciso di schierarsi contro Bashar al Assad? Credo che in questo caso il ruolo decisivo sia stato svolto dalle crescenti divergenze tra le due principali confessioni islamiche, quella sunnita e quella sciita. In seguito all'intervento militare americano in Iraq i contrasti si sono ulteriormente intensificati. Il governo siriano è costituito per la maggior parte da alawiti, una corrente vicina a quella sciita. La Lega Araba, che riunisce soprattutto stati sunniti, ha scorto nella situazione venuta a delinearsi il rischio del consolidamento di una potente “cintura sciita” dall'Iraq, attraverso Iran e Siria fino al Libano.

Cosa potrebbe accadere se l'attuale regime siriano venisse rovesciato? Vorremmo che gli autori del progetto di risoluzione Onu appena respinto riflettessero a questo proposito. Esistono già esempi eloquenti delle conseguenze di simili azioni politiche irresponsabili nel Medio Oriente e in Africa Settentrionale. A questo tipo di politica bisogna invece opporre uno sforzo collettivo senza il quale non sarà certamente possibile evitare la degenerazione della situazione verso il caos, le guerre civili e, alla fine, anche verso il fallimento di tutti i provvedimenti necessari per moderare il conflitto arabo-israeliano.

(di Evgenij Primakov, ex-capo dei Servizi Segreti Esteri della Russia (1991-1996), primo ministro del governo russo (1998-1999) (fonte: www.russiaoggi.it)

venerdì 3 febbraio 2012

Casta ladra e arrogante


E' davvero un’ingenua al cubo, la Rosy Bindi. Oppure, al contrario, è corazzata da un’arroganza senza misura. Intervistata ieri da Repubblica sull’affare del tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, si è sentita rivolgere da Giovanna Casadio un’ultima domanda: «Nel momento dell’antipolitica, quanto nuoce al Partito democratico questa vicenda?». La sceriffa di Sinalunga ha risposto scrollando le spalle con sufficienza: «Siamo di fronte al comportamento sbagliato di una persona. Sul banco degli imputati non può essere chiamata la politica». Confesso di aver ammirato la Rosy. Mi era sempre apparsa la più manettara fra i democratici. Sempre alla ricerca ossessiva di qualche colpevole da incriminare, soprattutto quando il fellone stava nascosto nel centrodestra. Se aveva qualche sospetto, la Rosy correva a presentarsi al primo talk show rosso e lì pronunciava la propria requisitoria. Con lo stile della vergine guerriera incaricata di fustigare il peccato e il peccatore. Ma adesso comincio a pensare che fosse tutta una finzione. La Rosy era sì una sceriffa, però a senso unico. Pronta mostrare la stella e la pistola soltanto agli avversari politici. Quando è arrivato il momento di esprimersi sul conto di un vorace margheritone cresciuto nel suo vecchio partito, che ha fatto la ragazza? Si è comportata come il leader politico che aveva più odiato: Bettino Craxi.

Il giorno che la procura della Repubblica di Milano, nella persona del pubblico ministero Tonino Di Pietro, agguantò il primo socialista ladro, Mario Chiesa, il patron della Baggina, vi ricordate ciò che proclamò Bettino? Spiegò che si trattava di un mariuolo isolato, un singola mela marcia capitata nel cesto delle mele sane. Era il febbraio 1992. Fu allora che iniziò a soffiare la bufera di Mani pulite e venne alla luce l’enorme verminaio di Tangentopoli. Non immagino che seguiti abbia la storia del tesoriere della Margherita. Ma so per certo che è l’ennesima campana a morto per i partiti italiani. Stiamo scrivendo sino alla nausea che l’antipolitica sta dilagando. Però lo facciamo dall’interno delle redazioni dei giornali. Senza mettere la testa fuori dal buco per dare un’occhiata a quanto accade all’esterno dei nostri bunker di carta stampata. A me capita di farlo, perché non ho più l’obbligo di stare in redazione. E quel che vedo e ascolto, nel piccolo centro dove vivo, comincia a incutermi un terrore profondo.

L’uomo della strada, l’italiano medio e senza potere, odia i politici. Li considera fannulloni, ladri, parassiti della società alla quale succhiano il sangue. Non li sopporta più e sarebbe pronto a pagare chiunque sia in grado di sopprimerli. Considera tutti i partiti dei clan mafiosi. Giudica il Parlamento un ente inutile che andrebbe cancellato. Qualcuno comincia a domandarsi se non esista qualche forza esterna in grado di disfarsene.

Nella Prima Repubblica si parlava spesso di un colpo di Stato. Soprattutto le sinistre lo temevano, pensando che il rischio venisse dal versante di destra della Democrazia cristiana o da qualche settore dell’Arma dei carabinieri. In realtà era un timore infondato perché non accadde mai nulla di serio. Allorché entrarono in scena le Brigate rosse, una quota consistente di italiani sperò che Curcio e compagni prendessero di mira la partitocrazia nostrana. Non è vero che, quando le Br rapirono e uccisero Aldo Moro, l’Italia intera pianse sulla sorte del leader democristiano. Una parte del Paese, insondata dai media, pensò che Moro avesse ricevuto quel che meritava. E si augurò che la stessa fine venisse riservata a un big della sinistra. Per esempio, a Enrico Berlinguer, considerato il complice di Moro nella politica del compromesso storico.

Oggi le Br sono morte e sepolte, per fortuna. E in Italia non s’intravede nessuno in grado di mettere fuori gioco i partiti. A parte un governo europeo che molti cominciano a considerare un’opportunità per legare le mani alla Casta nostrana. In compenso sono le parrocchie politiche a lavorare contro se stesse. Stiamo assistendo a un fenomeno non ancora studiato dai politologi. È quello dei partiti che, giorno dopo giorno, allestiscono da soli il golpe che li distruggerà. Siamo di fronte a una congiura invisibile e suicida. Come testimoniano le storie del tesoriere ex Margherita e del senatore del Pdl Riccardo Conti, immobiliarista professionale, che in un giorno solo ha saputo guadagnare 18 milioni di euro. «Questi partiti sono pazzi!» sentivo esclamare al bar del mio paese. «Fanno l’impossibile perché la gente si auguri la loro morte».

Tutti i membri della Casta devono stare molto attenti. Sono già stati messi fuori gioco dal governo dei tecnici. Una delle ragioni del successo di Mario Monti e dei suoi professori sta proprio nel lavoro di supplenza che svolgono nei confronti dei partiti in cancrena. Quando sento strillare alla democrazia sospesa, come fa di continuo Di Pietro, mi viene da ridere. Consiglierei al capo dell’Idv di frequentare qualche bar in incognito, come farebbe qualunque commissario Basettoni. Potrà aggiornare la propria strategia politica. Uno che forse dovrà frequentare i luoghi pubblici in abito simulato sarà Francesco Rutelli, ex capo della Margherita sino al 2007, ossia al momento della fusione con i Ds nel Partito democratico. Lo consideravo da tempo un disperso in guerra, a cavallo di un partituccio, l’Api, praticamente sconosciuto. Ma adesso le maledette carte del tesoriere margheritone lo stanno mettendo nei guai.

Ho l’impressione che “Franciasco”, ovvero Cicciobello, si stia difendendo male. Ha scelto una linea senza futuro, quella di sostenere di non aver mai saputo niente dei traffici dell’amico. E temo che si stia cacciando nei pasticci da solo. Lo temo in base all’esperienza professionale, l’unica arma di un cronista anziano. Conosco bene quanto sia fragile questa strategia per averla vista applicare da un altro disperso, Achille Occhetto. Nel luglio 1992 incontrò i quadri milanesi del partito, in pieno choc per aver saputo che Mani Pulite aveva scovato le tangentone incassate dal partito ambrosiano. Al termine di due assemblee molto incavolate, tenute in via Volturno, la mitica sede della federazione comunista e poi diessina, Baffo di ferro si difese, borbottando angosciato: «Io non sapevo. I fatti emersi io non li conoscevo».

Due mesi dopo, era il settembre 1992, venni invitato alla Festa nazionale dell’Unità che quell’anno si svolgeva a Reggio Emilia. Il dibattito era uno dei tanti, sulla crisi della politica. Lo moderava un cauteloso Gad Lerner, il più annoiato nel gruppo sul palco. Pensai di dare una scossa all’ambiente, osservando: «Occhetto sostiene di non aver mai saputo nulla delle tangenti. Però sbaglia, mostrando di essere un ingenuo o un bugiardo. Ma in entrambi i casi non può continuare a guidare un grande partito d’opposizione come l’ex Pci». Pensavo che il pubblico mi avrebbe fischiato. Invece i mille compagni presenti sotto il tendone si alzarono in piedi applaudendo entusiasti. Molti gridavano: «Bravo! Ci voleva qualcuno che lo dicesse!». Per questo mi sento di consigliare a Cicciobello: «Attento a come ti muovi». E soprattutto non partecipare ad assemblee di ex margheritucci.

(di Giampaolo Pansa)

giovedì 2 febbraio 2012

Il capitalismo liberale contro la sovranità popolare


Oggi non sono più molti gli uomini di sinistra disposti ad accusare la democrazia di essere una procedura di classe inventata dalla borghesia per disarmare e addomesticare il proletariato, come sosteneva Karl Marx, né gli uomini di destra disposti a sostenere, così come facevano i controrivoluzionari, che essa si riduce alla “legge del numero” e al “regno degli incompetenti” (senza peraltro mai essere capaci di dire esattamente che cosa desidererebbero mettere al suo posto). Fatte salve le rare eccezioni, ai nostri giorni la contrapposizione non è più tra sostenitori e avversari della democrazia, ma esclusivamente tra suoi sostenitori, in nome dei diversi modi di concepirla.

La democrazia non mira a determinare la verità. È soltanto il regime che fa risiedere la legittimità politica nel potere sovrano del popolo. Il che implica prima di tutto che esista un popolo. Nel senso politico del termine, un popolo si definisce come una comunità di cittadini dotati politicamente delle medesime capacità e legati da una regola comune all’interno di un determinato spazio pubblico. Fondandosi sul popolo, la democrazia è inoltre il regime che consente a tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica, che afferma che essi sono tutti chiamati ad occuparsi degli affari comuni. Spingiamoci un po’ oltre: essa non si limita a proclamare il potere (kratos) del pubblico, ma ha la vocazione a mettere il popolo al potere, a permettere al popolo di esercitare in prima persona il potere.

L’homo democraticus non è un individuo, ma un cittadino. La democrazia greca fu sin dall’inizio una democrazia di cittadini (politai), cioè una democrazia comunitaria, non una società di individui, cioè di esseri singoli (idiotai, “idioti” nel senso proprio della parola). Individualismo e democrazia sono, da questo punto di vista, originariamente incompatibili. La democrazia richiama uno spazio pubblico di deliberazione e di decisione, che è anche uno spazio di educazione comunitaria per l’uomo, considerato per natura un essere politico e sociale. Infine, quando si dice che la democrazia consente al maggior numero di persone di partecipare agli affari pubblici, si deve tenere a mente che, in tutte le società, quel maggior numero comprende sempre una maggioranza di cittadini appartenenti alle classi più modeste. Da questo punto di vista, una politica veramente democratica deve essere considerata, se non come quella che fa prevalere gli interessi dei più poveri, almeno come un “correttivo al potere del denaro”, come ha scritto Costanzo Preve.

Tuttavia, più si è imposta, più la democrazia si è snaturata. Prova ne sia che il “popolo sovrano” è ormai il primo a prenderne le distanze. In Francia, l’astensione e il voto di protesta sono stati in un primo momento gli strumenti per esprimere un’insoddisfazione circa la maniera in cui funzionava la democrazia. In seguito, il voto di protesta ha ceduto il passo al voto di disturbo, che mira deliberatamente a bloccare il sistema. Si è così costituita quella che il politologo Dominique Reynié chiama la “dissidenza elettorale”, vasto agglomerato di scontenti e delusi. In occasione dell’elezione presidenziale del 2002, questa dissidenza rappresentava già il 51% degli iscritti alle liste elettorali, contro il 19,4% del 1974. Alle legislative successive, ha toccato il 55,8%. Ebbene: i principali fornitori della dissidenza elettorale provengono dalle classi popolari, il che significa che l’inesistenza civica o l’invisibilità elettorale sono espressione in primo luogo di quegli stessi ambienti ai quali la democrazia aveva conferito il diritto “sovrano” di parlare. Che cosa avverrà quando questa dissidenza sceglierà di esprimersi al di fuori del campo elettorale?

Nel contempo, da anni stiamo assistendo, ma questa volta dall’alto, a uno snaturamento della democrazia da parte di una Nuova Classe politico-mediale che, per salvaguardare i propri privilegi, auspica di restringerne quanto più possibile la portata. Jacques Rancière non esita a parlare di un “nuovo odio della democrazia”, un odio che potrebbe “riassumersi in una semplice tesi: non vi è che un’unica buona democrazia, quella che reprime la catastrofe della civiltà democratica”. L’idea dominante è che non bisogna abusare della democrazia, altrimenti si rischia di uscire dallo stato di cose esistente.

Uno dei mezzi per snaturare la democrazia consiste nel far dimenticare che essa, prima di essere una forma di società, è una forma di regime politico. Un altro mezzo consiste nel presentare come intrinsecamente democratici alcune caratteristiche societarie, come la ricerca di un accrescimento illimitato di beni e merci, che di fatto sono realtà inerenti alla logica dell’economia capitalista: “democratizzare” significherebbe produrre e vendere a strati sempre più ampi prodotti dal forte valore aggiunto. Un terzo modo consiste nel tentare di creare le condizioni di una riproduzione in forme identiche del disordine costituito, consacrato come unico ordine veramente possibile, come qualcosa che dipende da una necessità storica dinanzi alla quale chiunque, per “realismo”, dovrebbe inchinarsi (“Il realismo è il buonsenso dei mascalzoni”, diceva Bernanos). È l’ideale della governance, che potrebbe essere definita come una maniera di rendere non democratica una società democratica senza per questo combattere frontalmente la democrazia: non si sopprime formalmente la democrazia, ma si mette in piedi un sistema che consenta di governare senza il popolo, e se necessario contro di esso.

La governance, che si esercita oggi a tutti i livelli, mira a porre la politica alle dipendenze dell’economia per il tramite di una “società civile” trasformata in semplice mercato. Essa appare perciò, per usare le parole di Guy Hermet, come un “modo di contenere la sovranità popolare”. La democrazia, svuotata del suo contenuto, si trasforma in una democrazia di mercato, spoliticizzata, neutralizzata, affidata agli esperti e sottratta ai cittadini. La governance aspira a una società mondiale unica, chiamata a durare in eterno, giacché la temporalità stessa viene ad essere reificata. Spoliticizzare, neutralizzare la politica, significa infatti collocarne le poste in luoghi che sono dei non-luoghi. L’obiettivo è sopprimere tutte le pesantezze che potrebbero fare da ostacolo alla mancanza di limiti della Forma-Capitale. Diceva Jean Baudrillard: “Il colpo di forza del capitale consiste nell’aver infeudato tutto all’economia”. L’intera società sarebbe così messa a servizio del capitalismo liberale.

Non si tratta, a questo proposito, di sviluppare una teoria cospirativa sui “padroni del mondo”. La governance non è altro che il risultato logico dell’evoluzione sistemica delle società alla quale stiamo assistendo da decenni. Né si tratta di rappresentare il popolo come un essere “naturalmente buono”, alienato e corrotto da dei cattivi. Il popolo non è privo di difetti. Ma si può pensare, con Machiavelli e Spinoza, che i difetti del volgo non si distinguono sostanzialmente da quelli dei principi – e che, nella storia, sono state soprattutto le élites a tradire. Come ha scritto Simone Weil, “il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa è giusta perché il popolo la vuole, ma che a certe condizioni il volere del popolo ha più probabilità di ogni altro volere di essere conforme alla giustizia”.

Della Repubblica di Weimar, si è potuto dire che era una democrazia senza democratici. Noi oggi viviamo in società oligarchiche nelle quali tutti sono democratici, ma non vi è più democrazia.

(di Alain de Benoist)

mercoledì 1 febbraio 2012

Putin dichiara guerra a George Soros & Co.


Le speculazioni su questa notizia sono molte e le motivazioni penso siano più che legittime e motivate, la cosa che più dovrebbe far riflettere i Capi di stato occidentali è come ha fatto Putin a liberare la Russia da coloro che volevano portarla al totale sfascio economico-sociale e sbattere in galera tutti coloro che ci hanno tentato, sono forse i Lubawitschern che influenzano Putin?

Fatto sta è che Putin è leale alla Russia e al suo Popolo, non permetterà mai a nessuno sin quando ci sarà lui al comando in quella Nazione, di svendere la sua Patria e la Patria dei russi dalle grinfie del NWO, per questo ha ordinato di rilasciare un mandato di cattura Internazionale nei confronti di George Soros che è stato preso con le mani nel sacco mentre si preparava a mandare aiuti finanziari a quella che si definisce opposizione in Russia che ultimamente ha fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone raccontando bugie e mistificazioni, imbrogli durante le elezioni, adesso il mister Soros ha poco spazio per continuare i suoi sporchi giochi con la speculazione che ha messo in ginocchio tutto il sistema finanziario mondiale e sempre in collaborazione dei Rothschild, Rockefeller ed altri sciacalli.

Il discorso di Putin che è stato ufficialmente emanato dalle Autorità Russe: Oggi viene messo pubblicamente il seguente comunicato dalla Federazione Russa e il suo Primo Ministro Vladimir Putin, è stata fatta richiesta per un mandato di cattura Internazionale nei confronti del Terrorista Finanziario, dell’Ungherese Valuta-Mogul George Soros, i Servizi segreti Russi hanno scoperto che Soros stava usando Derivati Danesi con altre valute straniere per iniziare un attacco contro le Azioni in Valuta russa sul mercato. Da notare che Soros usava questi Derivati con l’aiuto di banche Lussemburghesi, cosa che è severamente vietato dopo il contratto fatto dagli stati della UE denominato Basel II. Sia l’IMF (International Monetary Fund) e l’Interpol Europea hanno emesso un “Red Notice” che corrisponde all’arresto immediato non solo nei confronti di Soros, ma anche contro gli Squali della Finanza, Bush, Clinton organizzazione criminale, Marc Rich e la sua ditta che si trova in Svizzera, la Broker-Richfield Commodities, per questo motivo il Premier russo Putin ha incontrato ultimamente lo Chef della Federal Reserve Bermard Bernake facendogli chiaro che la Federazione Russa non accetterà che si faccia uso di queste persone come Soros e Rich per commettere atti criminali sul mercato dei Derivati e della Finanza che hanno portato alla destabilizzazione Sociale in tutto il globo.

Sia fatta la volontà di Putin e che cominci a la caccia a questi criminali e ai loro complici Banchieri Rothschild, Rockefeller.

(di Corrado Belli)