mercoledì 11 febbraio 2009

L'affitto è usura


La crisi fa registrare in Italia un calo delle compravendite di immobili. Al contrario crescono la domanda e l'offerta di locazioni. Questo è il quadro tracciato da uno studio del Sunia in collaborazione con la Cgil sull’offerta delle abitazioni in affitto delle aree metropolitane.
Nonostante l’aumento dell’offerta, sottolinea il segretario del Sunia Luigi Pallotta, «i canoni dell’affitto non si riducono, al contrario in molti casi aumentano».
Nel periodo compreso tra il 1999 e il 2008 i canoni degli affitti sono aumentati del 130% facendo registrare le punte più alte nelle grandi città, in particolare al Centro e a Milano dove c’è stato un incremento complessivo del 145%. Il canone medio pagato è di 740 euro per chi si trova già in affitto ma per chi si appresta ad entrare in una casa in locazione vengono chieste mediamente 1.100 euro al mese e la percentuale degli affitti a prezzi concordati è pari solo al 15%. Il Sunia evidenzia come i canoni maggiori a Roma e Milano siano nelle zone centrali e semicentrali, andando da un massimo di 2.300 euro al mese fino a 1.400 euro mentre gli stessi canoni scendono fino a 1.100 euro al mese per gli alloggi in periferia. Un canone medio che è calcolato per un alloggio di circa 80 metri quadrati. A Roma e a Milano circa il 25% delle famiglie vive in una casa in affitto. Nella Capitale le case affittate sono 352.912 mentre a Milano sono 381.617.
In generale nel terzo trimestre del 2008, rispetto allo stesso periodo del 2007, si è registrata una diminuzione delle compravendite residenziali del 13% (-9,3% nei Comuni capoluogo, -15,9% nei Comuni non capoluogo). Mentre nel periodo compreso tra l’ultimo semestre del 2007 e il primo semestre del 2008 la domanda di affitto, dovuta a una maggiore difficoltà di accesso al credito e del mercato dell’acquisto, è aumentata del 4%.

Fini? Così non potrà diventare il leader del Pdl

Ha affrontato in 48 ore due duelli che fanno tremare le vene ai polsi. Con il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Eppure, quando lo intervisto Maurizio Gasparri è sereno. Ricostruisce il suo diario politico (e umano) come se stesse parlando di altri. Nega ogni turbamento, racconta: «Solo oggi ho ricevuto centinaia di sms! Più 40 email all’ufficio stampa di An: 38 a favore, 2 critiche. Faccia lei». E a fine intervista, con un ruggito di orgoglio: «Ho sempre rifiutato i formalismi retorici, i salamelecchi, i cicisbeismi, i riti politicamente corretti. Se malgrado tutto ciò sono sulla piazza da qualche decennio, vuol dire che c’è spazio politico anche per me, no?».
Senatore Gasparri, si è pentito, di aver usato toni così bruschi?
«Fra gli sms che ho citato ce n’è persino uno inglese. Finisce così: Gasparri with the balls. Lei come lo traduce?».
Come lei, immagino. Ma basta questo a non farla sentire isolato?
«Al Senato è stata votata una mozione voluta da me, sostenuta anche da Rutelli, dall’Udc, da singoli esponenti del Pd... Uno dei voti con il consenso più ampio da inizio legislatura».
La direzione di An l’applaude...
«È un bel segno di solidarietà».
E quella frase su Napolitano?
«L’ho meditata in ogni parola, non mi pento. È legittima, la ripeterei: ma se ha offeso qualcuno mi spiace».
Cosa aveva valutato?
«In quei momenti tutti eravamo di fronte a scelte drammatiche. Ho pensato alla nostra scelta, a quanto ci è costata: e che anche a Napolitano sia costata altrettanto».
E quindi?
«Ho detto: peseranno le firme messe, e quelle non messe. Ovvero: la nostra e la sua».
Solo che prima lei parlava della morte di Eluana. Quindi firma apposta, o non apposta, su un decesso.
«Non voglio essere ipocrita. Pensavo, e credo che siano scelte drammatiche. Si può dare una interpretazione offensiva di quelle parole, ma io difendo il diritto di esprimere le opinioni su questo, anche sulla scelta del Quirinale di bocciare il decreto. Perché...»
Cosa?
«Se Napolitano diceva che quel decreto era incostituzionale, c’era una sola conseguenza possibile».
Quale?
«O aveva torto, come penso. Oppure il premier, il suo governo e i suoi parlamentari portavano avanti una legge incostituzionale. E questo non possiamo accettarlo da nessuno».
Il capo dello Stato è il garante della Costituzione.
«Ma questa era una materia inedita e controversa. Ho raccolto i pareri di decine di costituzionalisti, fra cui ex presidenti della Corte, che sostengono la piena liceità della nostra legge».
Quindi nessun rimpianto.
«No, ma una spiegazione. La notizia è arrivata mentre eravamo inchiodati in Aula, dopo ore di difficile dibattito. La mia addetta stampa mi leggeva l’agenzia fra le lacrime... La Roccella incredula mi chiedeva: “Sei certo”? Tutto il Parlamento era investito di un’onda di emotività. Non solo noi».
A chi si riferisce?
«A tutti. Ma sono rimasto colpito dal viso di Veronesi. Noi piangevamo, lui aveva stampato un ghigno...»
Vuol dire che per lei rideva?
«Vorrei poter dire che è stato un sorriso tirato per i nervi, cos’era davvero non lo so. Lo sa lui...».
E poi arriva la dichiarazione di Fini che le dà dell’irresponsabile. Vi conoscete da una vita...
«Trentasei anni».
Gli ha parlato dopo?
«No. Lui ha dato quell’interpretazione offensiva. Ha avuto un riflesso difensivo per il Colle me lo spiego così».
Non l’ha chiamata prima?
«No. E avrebbe potuto avvisarmi».
E lei come se lo spiega?
«Poteva essere un intervento da capo di An, su un membro di An».
E non è così?
«Io oggi sono il capogruppo di tutto il Pdl».
Vuol dire che Fini non lo sa?
«Lo sa. Ma a volte assume anche lui posizioni che sono in contrasto con il sentire medio dei militanti di An».
Quando dice queste cose sa che Fini potrebbe irritarsi?
«Io dico quello che penso, senza calcoli di opportunità. Fra l’altro io dico “cose di destra”: il mio gruppo mi ha applaudito in standing ovation, quando ho gridato “sono responsabile”».
Era una risposta a Fini.
«Certo, non erano frasi a caso».
Ma lei era infervorato...
«Non è che la passione sia alternativa al pensiero».
Lei dice anche che le prese di posizioni di Fini, dal voto agli immigrati, a quelle sull’Islam, alla bioetica non riscuotono consensi in An?
«Per carità! Molti consensi. Ma molti tra chi non ci vota. Ezio Mauro ha scritto di apprezzare Fini. Io ho ricevuto i complimenti di Belpietro».
Che futuro immagina per Fini?
«Lui può fare qualsiasi cosa voglia, anche il capo di un grande partito unitario di centrodestra... Certo, andando verso il Ppe, non credo che possa farlo su queste posizioni».
Fini l’ha anche degradata...
«Oh, certo. Nel 1997: fece una polemica contro i colonnelli, io ero coordinatore, mi destituì».
È stata dura?
«Durissima. Ma se sono sopravvissuto e come vede sono qui! Evidentemente non ero una nullità, eh, eh..».
Poi, il giorno del giuramento, nel 2005 saltò la poltrona da ministro.
«Fui io a non voler giurare. I miei dubbi erano sulla presenza di Storace, a quanto pare, ho avuto ragione».
La terza volta: sconfessione pubblica alla proiezione del «Mercante di pietre». Per lei era un film da sponsorizzare, per Fini «una boiata».
«Quello era una questione di gusti».
C’erano di mezzo il rapporto con l’Islam, il Corano nelle scuole...
«D’accordo. Ma anche su quello, credo che le nostre posizioni rappresentassero la maggioranza di An».
E poi c’è stata questa polemica.
«Ma per me non è una sconfessione. Ho avuto solidarietà da tutti! È stato un successo, non una sconfitta. Nel dramma di Eluana, in un clima difficile, abbiamo costruito un allargamento di consensi e una vittoria politica».
Però il suo maestro l’ha bocciata.
«Fini non è mica Almirante. Un capo non è un maestro».
Lui era responsabile universitario, lei degli studenti, e Fini le dava i volantini a Sommacampagna.
«È stato il capo politico di una generazione. Lo è. Ma anche io ho 52 anni: fra poco andiamo tutti in pensione...».

martedì 10 febbraio 2009

Anche le pietre parlano italiano


Almeno diecimila persone, negli anni drammatici a cavallo del 1945, sono state torturate e uccise a Trieste e nell'Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito. E, in gran parte, vennero gettate (molte ancora vive) dentro le voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso, le "foibe".
A sessant'anni di distanza con queste pagine vogliamo far conoscere questa tragedia italiana a chi non ne ha mai sentito parlare, a chi sui libri di scuola non ha trovato il capitolo "foibe", a chi non ha mai avuto risposte alla domanda "cosa sono le foibe?".
Vogliamo ricordare, a chi già conosce la storia delle foibe, ai figli e ai nipoti di chi dalle terre d'Istria e di Dalmazia è dovuto fuggire, cacciato dalla furia slavo-comunista.
Vogliamo anche capire perchè, a guerra ormai finita, migliaia di persone hanno perso la vita per mano di partigiani comunisti e perchè, per sessant'anni, la storia d'Italia è stata parzialmente cancellata.
A Trieste,a differenza delle altre città italiane, la liberazione alla fine della seconda guerra mondiale, è coincisa con l'inizio di un incubo: per quaranta giorni le truppe partigiane e comuniste del maresciallo Tito hanno imperversato a Trieste torturando, uccidendo e deportando migliaia di cittadini innocenti, o talvolta colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti.
Anche questa, come quella delle Foibe, è una pagina dimenticata nella storia d'Italia. E' una pagina spesso dimenticata anche a Trieste: da chi la ha vissuta per il desiderio di cancellare il ricordo di un incubo. E da chi, più giovane, non ha potuto sentirne parlare alla televisione o sui libri di scuola.
Noi vogliamo raccontare, ricordare e capire.

lunedì 9 febbraio 2009

ELUANA E' MORTA

A DIO

Noi non siamo uomini d'oggi: ricordando Paolo di Nella



Paolo amava il suo quartiere, e proprio in nome di questo amore aveva programmato una battaglia per l'esproprio di Villa Chigi, che voleva far destinare a centro sociale e culturale. Per far partecipare gli abitanti del quartiere a questa battaglia sociale, il 3 febbraio sarebbe dovuta cominciare una raccolta di firme degli abitanti della zona.
Paolo, impegnato in prima persona nell’iniziativa, aveva dedicato gran parte della giornata del 2 febbraio ad affiggere manifesti che la rendevano pubblica.
Dopo una breve interruzione, l'affissione riprese alle 22.00. Durante il percorso non ci furono incidenti, anche se Paolo e la militante che lo accompagnava, notarono alcune presenze sospette. Verso le 24.45 Paolo si accingeva ad affiggere manifesti su un cartellone, situato su uno spartitraffico di Piazza Gondar, di fronte a dove era situata la fermata Atac del 38.
Qui sostavano due ragazzi che, appena Paolo voltò loro le spalle per mettere la colla, si diressero di corsa verso di lui. Uno di loro lo colpì alla testa. Poi sempre di corsa, fuggirono per Via Lago Tana.
Paolo, ancora stordito per il colpo, si diresse alla macchina, da dove la ragazza che lo accompagnava aveva assistito impotente a tutta la scena.
Dopo essersi sciacquato ad una fontanella la ferita, ancora abbondantemente sanguinante, Paolo riportò in sede i manifesti e il secchio di colla. Verso l'1.30, rientrò a casa. I genitori lo sentirono lavarsi i capelli, muoversi inquieto e lamentarsi. Lo soccorsero chiamando un'ambulanza, che però arrivò quando ormai Paolo era già in coma. Solo nella tarda mattinata del giorno dopo, il 3 febbraio (tardi, maledettamente tardi per uno nelle sue condizioni), Paolo venne operato, e gli vennero asportati due ematomi e un tratto di cranio frantumato.
La sera del 9 febbraio, dopo 7 giorni di coma, la solitaria lotta di Paolo contro la morte giunge al termine: alle 20.05 muore.
Un giglio bianco infilato nella fettuccia, omaggio di un’infermiera che aveva saputo che proprio quel giorno Paolo avrebbe compiuto vent’anni, sigilla un’immagine di purezza.

Io, di destra, sono per il socialismo

Per un appuntamento col segretario generale dell’Ugl, Renata Polverini, la trafila è la seguente. Telefoni, risponde pronta una segretaria che ti passa la gentile vicecapufficio stampa che ti mette in contatto con la soave portavoce, Francesca D’Avello, la quale combina la cosa. Grazie a questo amabile gineceo, mi presento alle 16 in via Margutta, sede del rigoglioso sindacato di destra, erede della modesta Cisnal del tempo che fu.
Sul rigoglio dell’Ugl non ci piove: ha in affitto un’elegante e proibitiva palazzina di tre piani ai piedi del Pincio. Nell’atrio, mi accoglie la bionda Francesca, ovale modiglianesco, e mi fa strada. Giunti all’anticamera del capo, dalla stanza attigua si affaccia tipo sentinella una signora. Mi squadra e ci dà il via libera per il sancta sanctorum.
«Benvenuto», dice la leader quarantaseienne in pantaloni e golfetto a strisce. Mi guarda dritto negli occhi e stringe virilmente la mano. Ingiunge: «Sieda» e a Francesca dice: «Resta».
«Lei è la prima donna d’Europa a capo di un sindacato», dico per rompere il ghiaccio, vagamente raggelato da questo clan di amazzoni.
«Ce l’ho fatta. Ma non ci avrei scommesso», sorride sotto i capelli a frangetta.
«C’è riuscita, nonostante il machismo della destra», dico.«Non è solo la destra a mancare di generosità con le donne. Sono necessari molti sacrifici, le giovani devono saperlo».
«Tipo?».
«La rinuncia agli affetti. Ma ora, per dare un senso al mio successo, l’impegno è cambiare le cose e semplificare la carriera alla donna», e lancia un sorriso d’intesa alla portavoce.
«A scapito degli uomini. Lei ha infatti imposto all’Ugl l'aurea regoletta: “A parità di merito, il posto va alle donne”. Che cavolo di regola è?», dico in nome dei maschi.
«La regola di quando comanda una donna», dice con un’improntitudine così spontanea che scoppiamo a ridere tutti e tre.
«L’altra regola femminista da lei introdotta è: “Mai riunioni dopo le 17”, per consentire alle sindacaliste di tornarsene in famiglia».
«Si possono decidere cose importanti anche di mattina. È quello che faccio».
«Finita l’intervista, sarà metà pomeriggio. Correrà subito a casa ad accudire suo marito?», chiedo.
«Io sono in servizio 24 ore su 24. Se si vuole crescere, bisogna adattarsi agli orari storicamente imposti dagli uomini».
«Figli non ne ha. Ma suo marito ne soffre?».
«Come tutti i mariti, si lamenta. Ma come i mariti intelligenti, ha capito che il lavoro mi piace. Si complimenta spesso con messaggini via cellulare».
«Chi porta i pantaloni in casa?».
«Entrambi, letteralmente. Porto la gonna per ragioni di forma solo da segretario generale. Quando non ho riunioni, come oggi, torno ai pantaloni. Le suore in collegio non riuscivano mai a mettermi in gonna».
«Cresciuta in collegio?».
«Per nove anni. A Focene, al mare, per ragioni di salute. Mia mamma, vedova da quando avevo due anni e mezzo, non poteva accudirmi».
«Sua mamma era sindacalista Cisnal. È cresciuta a pane e sindacato?».
«Mamma era commessa e sindacalista interna in un supermercato alimentare della Sma».
«Famiglia fascista?».
«I miei non erano neanche orientati a destra».
«Ma la Cisnal era il sindacato del Msi», obietto.
«Fu una scelta squisitamente sindacale. Da vedova, una signora della Cisnal la aiutò a trovare lavoro. Di qui, l'impegno».
«Per il cgiellino Epifani lei è “una tosta”. È un complimento?».
«Se avere la schiena dritta e idee proprie, significa essere tosta, mi riconosco. E credo sia una virtù».
«Differenze tra l’Ugl e la Triplice?».
«La storia. La nostra è stata più difficile. Discriminati per decenni. Lo dico sempre ai miei: “Noi siamo più bravi, se siamo qui nonostante gli ostacoli”».
«Ha scioperato più contro il Cav che contro Prodi».
«Il precedente governo Berlusconi partì col piede sbagliato. L’attacco all’articolo 18, alle pensioni, ai redditi da lavoro. Con gli altri facemmo sei scioperi unitari contro. Prodi è invece durato poco, giusto il tempo per l'Ugl di fargliene uno, da sola».
«Siamo in crisi. Quanto in crisi?».
«Tanto. Ogni giorno, i lavoratori vanno in cassa integrazione. Per tacere dei precari che rischiano di non rinnovare i contratti. L’incertezza del futuro aggrava la crisi».
«Per gli esperti ne usciremo a fine anno».
«Le previsioni fatte dagli stessi che non hanno intuito lo sconquasso, vanno prese con le molle», dice e fa un sorriso, tra l’ironico e il disprezzo, che merita approfondimento.
Si dice: approfittiamo della crisi per dettare nuove regole. La principale secondo lei?«Togliere il nostro destino dalle mani di quelli che sostengono che il mercato si autoregoli».
Antiliberista?
«Di più. Guai se saranno gli economisti che hanno causato il disastro a fare le nuove regole. Quelli che ora dicono: “Lo Stato intervenga, ma poi lasci”».
Un compromesso.
«Un’incoerenza. Da loro, vorrei un mea culpa e dieci passi indietro. Ci sono dentro tutti. Adesso, dicono solo che il meccanismo si è inceppato. Ma tacciono sul quando e come ripartirà».
Più global o antiglobal?
«Ritenevo la globalizzazione un’opportunità. Mi sono ricreduta. I deboli si impoveriscono, i ricchi lo diventano a dismisura. Globalizzazione sì, ma governata».
È liberista o socialista?
«Liberista, mai. Sono per un socialismo buono e una migliore distribuzione della ricchezza. La redistribuzione capitalista è una favola. Favorisce speculazioni finanziarie e rendite incontrollate».
Non vedo differenze tra lei di destra e i suoi colleghi di sinistra.
«Io sono una sindacalista. Mio compito è migliorare la vita dei lavoratori».
È una fan di Muhamed Yunus, il Nobel banchiere dei poveri. Meglio di Corrado Passera che soccorre la Fiat?
«Yunus ha valori etici forti, aiuta intere popolazioni. Ha messo in risalto il ruolo delle donne nel rilancio dell’economia. Quanto a Passera mi fa piacere che si impegni per l’auto, settore chiave. Va decisamente apprezzato. Ma non c’è paragone».
L' Italians go home dei sindacati inglesi?
«Guerra tra poveri. Colpisce che avvenga in Gran Bretagna che è all’avanguardia nell’integrazione. La crisi genera incertezze. Io stessa mi sto schierando con i protezionisti e i nazionalisti».
I provvedimenti anticrisi del governo?
«Vorrei un fisco più benevolo con le famiglie. Sui bisogni familiari il governo è distratto».
Lavorare la metà, per lavorare tutti?
«Il licenziamento è un trauma immenso. Se serve a evitarlo, può essere una delle strade da percorrere».
Donne in pensione alla stessa età degli uomini?
«Slogan, superati dai fatti. Le lavoratrici sono già costrette ad andare in pensione tardi per cumulare i contributi. Ma se si vogliono favorire le nascite, bisogna prevedere per la maternità un bonus previdenziale supplementare a carico dello Stato. Tipo i contributi figurativi in vigore per i politici e noi sindacalisti».
La Cgil non ha firmato la riforma contrattuale sottoscritta da voi, Uil e Cisl.
«E dalle coop di sinistra. Abbiamo fatto mille tentativi per convincere Cgil. Si è chiusa a riccio».
Per Carlo Azeglio Ciampi, nessuno doveva firmare senza Cgil.
«L’unità è un ottimo auspicio. Ma non si può concedere alla Cgil il potere di veto».
Epifani vuole fare la mosca cocchiera della sinistra?
«Ha certamente un conservatorismo che lo avvicina alla Rifondazione comunista di Paolo Ferrero».
L’hostess Daniela Martani che si pavoneggiava al «Grande Fratello» invece di prendere servizio? «Molti padri di famiglia sono in cassa integrazione. Doveva lasciare il Gf non a malincuore ma tornare orgogliosamente al lavoro».
Quant’è di destra lei?
«Quanto basta per occuparsi del sociale. La parte buona della destra è quella che la pensa come me».
Fini o Storace?
«Fini. Ha portato la destra al governo, l’ha traghettata in An e domani nel Pdl».
Oltre a Fini, quale politico le piace di più?
«D’Alema. Un politico strutturato, capace di mostrare e dimostrare ciò che pensa».
Più tranquilla col Cav o meglio Prodi?
«Con Berlusconi c’è, quantomeno, un governo. Con Prodi abbiamo avuto due anni di stress. La sua maggioranza ne inventava una ogni giorno. È stata la sua peggiore nemica».
Marcegaglia, presidente Confindustria?
«Ottimo rapporto, al di là dei ruoli. Il fatto di essere donne ci permette una comunicazione più diretta e sincera».
Lei è una trita femminista?
«Il femminismo ha avviato ciò che abbiamo conquistato. Ma non dobbiamo essere né trite né rancorose. Per rispetto di noi stesse».
Finora ha fatto la mammoletta rifiutando incarichi politici.
«Sono stata eletta segretario Ugl nel 2006. Molti hanno scommesso su di me. Il mio posto è qui».
Perfino Veltroni voleva candidarla. Come lo ha ammaliato?
«Abbiamo un ottimo rapporto. È sempre stato presente alle nostre iniziative. Ma ho risposto di no».
Quanto ci vorrà perché accetti un seggio in Parlamento e diventare, smentendo la sua vita, una pensionata d’oro?
«Mi accontenterei di andare in pensione. Con i chiari di luna di chissà se riuscirò mai».

domenica 8 febbraio 2009

Lo Stato non può toglierci il diritto di morire in pace

Trovo osceno il balletto che da mesi si sta danzando intorno al letto di un moribondo da parte di cattolici e laici per affermare le proprie ideologie. Senza alcuna pietas, senza nessuna misericordia per il caso umano di Eluana Englaro.Abbiamo assistito e stiamo assistendo a iniziative e a interventi inauditi per impedire che una sentenza definitiva della Magistratura, che autorizza i medici a staccare gli speciali macchinari che tengono artificialmente in vita la Englaro venga applicata. C’è stato un ricorso del Parlamento respinto per manifesta incompetenza dalla Corte Costituzionale. C’è stata una minacciosa direttiva del ministro del Welfare Sacconi alla clinica di Udine che in un primo tempo aveva accettato di accogliere la Englaro e che in seguito, intimidita, si è tirata indietro. Ci sono stati picchetti di "movimento per la vita" che hanno cercato di impedire la partenza dell’ambulanza che portava la Englaro alla clinica "La Quiete" di Udine (ma come si permettono? Dov’era la polizia?). Adesso il ministro Sacconi, col rinforzo dell’assessore alla Sanità del Friuli Venezia Giulia, cerca di aggirare l’ostacolo sostenendo che "La Quiete" non è attrezzata per interventi di questo genere. E il governo sta preparando in tutta fretta un decreto che blocchi per sessanta giorni l’avvio delle procedure che dovrebbero porre fine al calvario di Eluana Englaro. Il premier Silvio Berlusconi, sempre pronto a cavalcare ogni demagogia e ogni emotività popolare, l’ha detto a chiare lettere: "Stiamo lavorando per intervenire". E Umberto Bossi gli ha risposto che il governo "non può decidere della vita e della morte". Un decreto del genere è inammissibile perché, superando la sentenza della Cassazione, si porrebbe come quarto grado di giudizio. Il giudizio del governo. Saremmo in pieno Stato autoritario, per non dir peggio, tanto varrebbe far decidere direttamente da Berlusconi o dai suoi ministri ogni altra causa, civile e penale.Tutto questo mentre associazioni come "genitori per la vita" o consimili, sbandierano i loro figli handicappati (come se si trattasse della stessa cosa) fanno un’indegna gazzarra davanti alla clinica "La Quiete" senza nessun rispetto per Eluana morente, per suo padre, per la decenza.Ognuno di noi ha diritto a una morte naturale il che significa che la vita non può e non deve essere accorciata artificialmente da terzi. Perché questa sarebbe eutanasia che nel nostro Paese, secondo me giustamente, non è ammessa. Parliamo di interventi di terzi perché in una società laica la vita non appartiene né allo Stato né alla Chiesa né a Dio ma solo a chi ne porta il fardello e che ne può disporre come vuole, anche sopprimerla pur essendo sanissimo (e infatti gli ordinamenti attuali, a differenza di quanto accadeva nel Medioevo, non considerano reato il suicidio).Ma il diritto a una morte naturale significa anche che la vita non può e non deve essere allungata artificialmente. Perché questo è "accanimento terapeutico". È il caso di Eluana Englaro. Dire che esiste un obbligo di dare cibo e acqua al malato, perché questo non è un intervento medico e quindi non rientra nell’"accanimento terapeutico", è l’escamotage usato da chi vuole tenere a tutti i costi in vita una persona che, se si fosse lasciato fare alla natura il suo corso, darebbe morta da tempo. Perché Eluana non viene alimentata e dissetata in modo naturale, ma attraverso speciali macchinari della medicina tecnologica. Quando una persona viene alimentata e dissetata inserendo un tubo nello stomaco e un sondino nel naso questo non è solo un intervento medico, è un intervento chirurgico. E anche la sua storia che togliendo a Eluana la si manderebbe incontro a indicibili sofferenze è contraria alla verità. Questi malati non sentono più lo stimolo della sete. Tanto è vero che ai malati terminati, negli ultimissimi giorni si toglie l’idratazione proprio per consentir loro di assopirsi dolcemente.Lo Stato moderno, che tutto vuole controllare, che tutto vuole regolamentare, in una sorta di ossessione codificatoria di derivazione borghese, ci ha tolto molti diritti. Ci lasci almeno quello di morire in santa pace.

Di Massimo Fini (www.massimofini.it)

Noi nemici: Valerio Morucci a Casa Pound

Marco lo ricordavo perfettamente: un ragazzo tenace e dignitoso che passò qualche tempo con noi a Terza Posizione. Ci era venuto insieme a Claudio, il quale in seguito divenne uno dei nostri quadri migliori. Entrambi erano al Prenestino, due anni prima, quella sera di novembre in cui Mario Zicchieri morì dissanguato, a sedici anni, per un'esecuzione attuata con fucili a pompa. Claudio rimase miracolosamente incolume e Marco invece fu leso al ginocchio e alla mano e intraprese un vero, interminabile, calvario di riabilitazione. L'ho rivisto trentadue anni dopo, ieri sera, a Casa Pound ad ascoltare colui che ha sempre ritenuto essere il suo attentatore e l'assassino del suo giovanissimo amico.
Il covo dell'intolleranza
Casa Pound, che un pugno di idioti e di ignoranti continua a definire “covo d'intolleranza” era gremita di gente d'ogni età e colore. Relatori a tutto campo (Gramazio, Mellone, Tassinari, Mughini e Morucci coordinati dal caporedattore de l'Occidentale, Carlomanno Adinolfi), avevano richiamato spettatori di ogni generazione. Nella sala principale, riservata ai giornalisti e alle persone che avevano il diritto, per l'età, di assistere in prima fila al dibattito che verteva sì sulle carceri ma avrebbe sicuramente affrontato gli “anni di piombo”, c'erano rappresentanti di ogni ambiente politico, da tutte le destre a Rifondazione e Sinistra democratica. Il megaschermo era stato installato in un altro paio di aule e in più c'era la gente sulle scale; ci saranno state quattro o cinquecento persone. E quasi tutte le tesate e le agenzie giornalistiche circondavano il tavolo delle conferenze.
Qual era l'aspettativa?
Cosa aveva radunato tutta questa gente, quale aspettativa? Per alcuni di sicuro il gusto del proibito o la morbosa curiosità; per i più la sensazione che si stesse compiendo qualcosa di significativo. Ma che cosa? Semplicemente che un diavolo rosso in un inferno nero veniva per dire - e per sentirsi dire - quello che in tanti attendevamo da secoli. Non per porgere le scuse e per dolersi dell'averci odiato, non perché alla fine ci si abbracciasse tutti, lascivi e flaccidi, nell'inciucio grigio e buonista che tanto piacerebbe ai peggiori individui del nostro Paese. Per dirci, invece, gli uni e gli altri, da combattenti a combattenti, che non solo si può ma si deve essere diversi. Che nell'essere diversi si può essere nemici. E che, nell'essere nemici, non si deve assumere quella logica abominevole che fa del proprio nemico un subumano, un individuo eliminabile di per sé. Qualcuno che non ha diritto di vivere e che non si deve nemmeno ascoltare. Qualcuno sul quale l'ingiustizia è tollerabile. Qualcuno la cui vita vale quale quella di una mosca. “Una forma – ha detto giustamente Morucci – di cannibalismo pervertito perché il cannibale nel mangiare il fegato del suo nemico lo onora e invece, rispondendo a quella concezione (che, nota mia, è partigiana) che imperversò negli anni settanta si è approdati ad un cannibalismo senza onore. Sono oggi venuto a rendervi onore da nemico che vi rispetta e che si confronta con voi.”
Per questo, più che per il resto, Morucci ha strappato gli applausi. Nulla a che vedere con l'immagine che qualche geloso beccamorto, mestierante scribacchino, ha voluto offrire insieme ad altre porcherie nella speranza di rompere - a destra - la solidarietà con chi avrebbe applaudito il carnefice.
I fascisti della mia generazione
Quello che la gente, quantomeno la gente fascista della mia generazione, ha apprezzato è stata proprio questa affermazione di dignità, ancor più del motivo stesso dell'incontro che, a prescidere dal tema, verteva sull'invito, fatto, di abbandonare la categoria imbecille e pericolosa dell'antifascismo, gabbia per sciocchi. Questo doveva essere l'evento clou della serata ma è stato superato in corsa; non solo dal finale in cui, con un intervento dal pubblico, si allargava il messaggio alla categoria di “ogni anti” (solo i deboli e i vuoti si manifestano per negazione, chi è afferma) ma soprattutto dalla rilettura delle categorie. Fino a ieri sembrava che chi si era scontrato dovesse ignorarsi o chiedere scusa di tutte le sue emozioni e di tutto il suo pathos. Invece la serata di Casa Pound è servita a restituire una concezione romana, e poi sacroromana, di combattimento.
A quel punto neppure contava più il fatto che la mia parte non fu la prima a spargere sangue, non fu la prima a odiare, non fu la prima a uccidere e che fu quella più discriminata e ferita. E' un fatto, ma non importa, non se si ragiona da stoici, in quel caso conta come si agisce e non perché. Conta il nostro stile e non le ragioni che si possono addurre a giustificazione del suo abbandono.
L'insegnamento di Marco
Marco lo ricordavo perfettamente: un ragazzo tenace e dignitoso che passò qualche tempo con noi a Terza Posizione. L'ho rivisto trentadue anni dopo, ieri sera, a Casa Pound ad ascoltare colui che ha sempre ritenuto essere il suo attentatore e l'assassino del suo giovanissimo amico. E quello che è avvenuto dopo è stato notevolissimo e sono stato tra i pochissimi e fortunatissimi testimoni. Marco è davvero convinto che Morucci sia uno dei suoi attentatori, degli assassini di Mario. Sostiene che il processo non sia andato come doveva. Morucci al contrario giura di non entrarci per nulla. Lo ha ripetuto per mesi, guardando le persone negli occhi, infinitamente. Aggiungendo che questo non sminusce le sue responsabilità oggettive e che egli si sente colpevole anche per Mario, pur non avendo partecipato al suo vile assassinio. Difficile, io direi impossibile, che una persona riesca a mentire così, vieppiù se poi è stato assolto è inconcepibile condannarlo noi per partito preso. Marco ha chiesto di guardarlo da uomo a uomo e gli ha chiesto che gli parlasse di quel massacro. Morucci ha ribadito, punto per punto, parola per parola, quello che pensa della sua responsabilità in quella follia e Marco gli ha detto: “mi basta questo; sono passati trentaquattro anni e io combatto ancora. Sono passati trentaquattro anni e cerco ancora di incontrarvi ma siete sempre scappati. Sono stato allontanato anche dal processo. Ora volevo vedere uno di voi negli occhi e già questo mi basta. Tutto il resto, tutto quello che hai detto, mi va bene. Mi stava bene anche allora, figurati oggi”. Marco è un grande, anzi Marco è grandissimo. Ma anche Morucci ha avuto coraggio.
Noi e la guerra
Demagoghi, agit-prop, combattenti simulati e beccamorti non capiranno. Non hanno gli strumenti (e in certi casi non hanno la purezza d'animo) per capire. Quello che ci è piaciuto, quello per cui molti di noi hanno detto “sono stato felice di essere presente” è l'aver sentito il riconoscimento della dignità del combattimento. Noi fummo qualcosa di più che non una fazione di tribù urbana, fummo i cultori della metafisica della guerra, come via esistenziale dell'uomo in lotta con se stesso, ed è stato notevole assistere al recupero della sua essenziale, virile, nudità, una volta che nel confronto il velo bipartisan dell'idiozia è caduto. E forse (m'illudo) i trentenni mangiacomunisti che s'indignano quando lancio appelli per la giustizia a favore di ricercati rossi inizieranno a capire che non è per innamoramenti trasversali che lo faccio ma per adesione ad un'essenzialità che a loro sfugge. Così capiranno perché a quegli appelli partecipano persone che hanno ancora in corpo le pallottole sparategli da commandos omicidi comunisti, come è il caso di Miro Renzaglia, o militanti esemplari come Maurizio Murelli che, più volte, in carcere dovettero farsi largo a colpi di caffettiera bollente per evitare il linciaggio cui li avevano condannati compagni di prigionia perché i fascisti non dovevano vivere, neanche dietro le sbarre. Se i combattenti simulati, se gli aspiranti eredi di anni di cui non hanno che un'idea astratta, provassero a capirli, comprenderebbero anche il valore del messaggio di Marco che è di Vittoria mentre la loro ripetizione all'infinito dell'angoscia non è neppure una vendetta (che è una categoria importante) ma cecità mediocre.
“Siamo nati in un tempo sbagliato ma siamo nati per davvero”
E se osservasse bene questi comportamenti, forse Angelo Mellone rivedrebbe il suo giudizio così negativo sugli anni settanta e capirebbe cosa intendeva Ugo Maria Tassinari dicendo che almeno quella violenza aveva un senso mentre qualla quotidiana di oggi (da Guidonia a Nettuno) è priva di qualsiasi significato. Da quella violenza sono nate anche persone serenamente pacificate, magnanime (ossia di grande animo) che nessun beccamorto di scribacchino riesce a comprendere dalla sua bassa prospettiva. Il che non dico, sia ben chiaro, per riproporre la logica di quegli anni. Da tempo sto cercando d'impedire che ciò si ripeta, malgrado i vari Di Pietro o Ferrero per interessi partitici meschini niente facciano per ostacolarla. Ma ritengo giusto, più ancora che necessario, cogliere le altezze e le profondità esistenziali che quei tempi hanno prodotto, le grandezze dei Marco, che sono poi le stesse dei Volontari della guerra perduta. Ciò detto, preferisco mille volte chi, come Angelo Mellone, quegli anni li rifiuta a quelli che provano a rimetterli in scena come scimmie virtuali e scambiano gli atteggiamenti (ovvero le gabbie) con gli uomini (ovvero l'autenticità) nel giocare i loro war game semivirtuali di tribu urbana.
Ieri a Casa Pound, nel “covo dell'intolleranza”, sono stato particolarmente bene, perché i Volontari della nostra guerra civile perduta, da tutti, hanno assaporato infine un forte gusto di autenticità.

Di Gabriele Adinolfi (www.noreporter.org)