lunedì 12 ottobre 2009

La cultura non è solo di sinistra. Ma la destra non vuole capirlo

Il ministro Bondi, in vari suoi interventi sulla stampa, ha sempre sottolineato di avere una concezione «liberale» della cultura, di non aspirare a nessuna «egemonia», come era stato per il Pci e la Sinistra in genere nei decenni passati, di non voler fare alcuna «epurazione». Però è anche costretto ad ammettere che oggi, pur essendo la «cultura di sinistra» in profonda crisi, essa è rimasta una «tecnica di gestione del potere» (Corriere della Sera, 16 settembre). In altri termini, le sue idee sono sempre più confuse e superate, ma la Sinistra ha i suoi uomini ancora insediati nei posti decisionali e negli snodi più importanti della «gestione del potere» culturale. Non è difficile capirlo dopo mezzo secolo di occupazione e di stratificazione anche semplicemente burocratica, ma sta di fatto che in ministeri e assessorati, editori e riviste, giornali e case cinematografiche, televisioni e università, gli uomini della sinistra, siano essi intellettuali o semplicemente personaggi d’apparato, stanno ancora lì inamovibili a decidere, giudicare, escludere, sanzionare, filtrare, bloccare, così indirizzando la cultura italiana in una certa direzione e sbarrando il passo a chi la pensa diversamente, condizionando alla fine una certa parte dell’opinione pubblica.
La lezione di coraggio e anticonformismo dello sfortunato Marzio Tremaglia, assessore alla cultura della Regione Lombardia scomparso nel 2000, l’hanno appresa purtroppo in pochissimi: non possiamo non citare Massimo Greco a Trieste e Carlo Sburlati ad Acqui Terme, che vanno avanti con iniziative non certo di parte ma di certo politicamente scorrette e di certo indirizzate a mettere in evidenza quella «presenza bilanciata che apra alle culture plurali del Paese» di cui parlava Veneziani. È così che si fa, non ci si nasconde dietro un dito, che nel nostro caso è quel famigerato trinomio «laico democratico antifascista» che all’epoca del demitiano «arco costituzionale» mise fuori gioco il Msi, ma che oggi è tanto di moda nella corrente aennina del Pdl.
C’è da chiedersi, dunque, il perché di questa sindrome che condiziona molti assessori alla cultura del centrodestra, che fa loro accettare la cultura degli avversari ed abbracciare tutti i luoghi comuni e le parole d’ordine della Sinistra. Da cosa nasce questa incultura generalizzata, questo vero e proprio rinnegamento di una «visione del mondo», se non un taglio alle radici di appartenenza?Considerando i fatti che ho conosciuto penso che la risposta sia sociologico-politica e si riferisca alla involuzione del Msi-An: gli assessori alla cultura locali sono ormai quasi tutti dei giovani fra i 30 e i 40 anni che quindi sono cresciuti fisicamente e si sono svezzati culturalmente dopo il passaggio delle acque a Fiuggi, or sono quindici anni. Il clima unanimistico (nei fatti, anche se non in teoria) creatosi intorno all’allora segretario del partito, le sue svolte o «strappi» imposti dall’alto, le sue oscillanti e nebulose posizioni culturali, hanno creato a poco a poco una specie di «pensiero unico» che ha condizionato quelli che nel 1995 avevo 20-30 anni. Sicché, una volta approdati sugli scranni di assessore alla cultura di centinaia di città e cittadine italiane (per non parlare delle regioni) non hanno fatto altro che muoversi secondo la forma mentis cui erano stati abituati, tanto più che per raggiungere quel posto devono essere in genere (le poche eccezioni confermano la regola) uomini di apparato.
Il secondo punto è questo: se per caso l’assessore in questione fosse uno spirito indipendente e pensasse di operare in modo politicamente scorretto rispetto alle direttive del centro o dei vertici locali, c’è sempre il ricatto delle liste. Le liste per le elezioni amministrative le compila il coordinatore locale nominato da Roma, e se non ti adegui e vuoi fare culturalmente di testa tua ricevendo per di più le accuse di «fascista», e magari anche di «anticomunista», ledendo la nuova immagine del centrodestra in generale e degli ex An in particolare, sei messo fuori gioco. Soltanto chi è un esterno all’apparato e non fa il politico di professione perché ha già un proprio lavoro, può magari fregarsene di rientrare in lista. Ma ci vuole disinteresse e coraggio intellettuale.
Nel loro libro La destra nuova (Marsilio), due teorici finiani, Alessandro Campi e Angelo Mellone, nel delinearne il profilo fanno un elenco di tutto e del contrario di tutto, e a un certo punto scrivono - ed è questo che qui a noi interessa - che essa è «rispettosa delle proprie radici culturali, ma aperta alle sfide del futuro» (nelle tesi culturali di Fiuggi in sostanza era lo stesso, facendosi un ampio elenco di personalità di varia estrazione che però è stato poi dimenticato). Se fosse così non potremmo che sottoscrivere questa frase: ma così assolutamente non è, dati alla mano. La «destra nuova» non sembra avere più alcun aggancio col proprio passato culturale, che ha rinnegato quasi in blocco e di cui, ecco il punto cruciale, ha il terrore di affrontare o di occuparsene in qualche modo anche indiretto, perché teme di essere accusata di «fascismo».
Se dunque i rappresentanti ufficiali della cultura del centrodestra si comportano né più né meno come quelli di centrosinistra che li hanno preceduti sugli stessi scranni, ditemi voi l’elettore che differenza potrà mai fare su questo piano tra il prima e il dopo... E perché mai gli assessori di centrodestra a questo punto dovrebbero far riferimento ad altro se non a quello cui faceva riferimento il precedente centrosinistra? Ed è infatti quanto sta accadendo, non essendoci più soluzione di continuità, culturalmente parlando, fra certa sinistra e certa destra, mentre della famosa «discontinuità» non se ne vede l’ombra ed a gestire il potere culturale dietro le quinte, al di là della facciata destrorsa, c’è ancora e chissà sino a quando sempre lo stesso apparato burocratico e ideologico messo in piedi dalla famosa «egemonia» progressista. Che, però, come dice la «destra nuova» non è mai esistita ed è solo l’alibi dietro cui si nascondono certi «intellettuali lamentosi»... Vabbè, diciamo per farla contenta che non c’è stata, ma ora la sindrome culturale di Stoccolma del centrodestra fa ottenere alla Sinistra gli stessi, identici risultati!
(di Gianfranco de Turris)

domenica 11 ottobre 2009

Norberto Bobbio. Il profeta progressista già superato 15 anni fa

Cinque anni dalla sua morte, cento dalla sua nascita, ma un millennio di distanza dal presente. Sorretto da due anniversari e da due ristampe, Norberto Bobbio torna ad allungare la sua ombra nei convegni, nei giornali e nelle librerie. Ma Bobbio è un autore del millennio scorso, legato al Novecento, di cui tracciò il profilo ideologico in cui rimase prigioniero.
Il saggio di cultura politica più venduto negli ultimi decenni resta il suo Destra e Sinistra, ma era già vecchio quando uscì, nel 1994, perché narrava di due nature morte; ora appare un pezzo d’antiquariato. All’epoca, il successo fu consacrato dalla nascita tardiva in Italia del bipolarismo e dalla necessità di capire cosa fosse quella creatura proibita chiamata destra, che era andata al governo, ormai svestita dal neofascismo, e cosa fosse quella strana creatura sbucciata dal comunismo, detta sinistra. Bobbio deve il successo del suo libro a Berlusconi che vince le elezioni, va al governo ed eccita i furori bipolari. Arrivammo al bipolarismo quando le categorie della politica erano già spente. Nacque allora il gioco interminabile su destra e sinistra, finalmente libere di scorrazzare dopo la tutela democristiana e la servitù fascista e comunista; ma fu come accade con la luce delle stelle che continua a riverberare sulla terra anni dopo la loro distruzione.
Lo notai già all’epoca con un libro in risposta a Bobbio, Sinistra e destra, edito da Vallecchi, che ebbe successo e innescò un carteggio con lui. Ma quel libretto che reputava ormai estenuate le categorie di destra e di sinistra delineate da Bobbio, oggi non lo ristamperei perché superato; figuriamoci il saggio di cui notava il logoramento. Il pamphlet di Bobbio svolse in quegli anni, e forse svolge ancora in modo residuale, la funzione rassicurante della coperta di Linus; aiuta a illudersi che destra e sinistra esistano ancora e offre una cuccia alle pigrizie. Nella sua autorevole ovvietà, rassicurava i pregiudizi stanchi della politica, offrendo dignità teorica ai luoghi comuni, alle logore appartenenze e al razzismo etico della sinistra. Nominalismo, ultima salvezza. Ma ora le due categorie sono sparite anche nominalmente dal Parlamento: nessuna forza si definisce più di destra o di sinistra, il poco che ancora persiste non ha più rappresentanza. Il Pds ha perso la s di sinistra, An non c’è più, di che parliamo? E se pure i leader della destra e della sinistra dicono che non ci sono più le categorie su cui hanno finora campato, che senso ha insistere a parlarvi?
Ma Donzelli ristampa in versione bignami, nella collana «Gli essenziali», un’edizione ridotta del già esile Destra e Sinistra. E Mondadori consacra nei Meridiani una selezione delle opere di Bobbio. Sono notevoli i suoi studi di filosofia del diritto, sulla teoria delle élite o quelli dedicati a Politica e cultura, ed è bello il suo De senectute. Nelle sue opere c’è chiarezza ai limiti dell’ovvietà, lucidità con cadute nel banale, onestà intellettuale salvo qualche omissione.
Quali sono i punti deboli del suo Destra e Sinistra? Innanzitutto il suo schema dualistico trascura le numerose contaminazioni tra destra e sinistra e gli svariati incroci, teorici e storici, e tralascia esperienze e culture irriducibili alle due categorie. Federalismo e localismo, comunitarismo e ambientalismo, cattolicesimo politico e liberalismo, pragmatismo, populismo e giustizialismo, dove si collocano? Così i grandi temi del nostro tempo, dalla biopolitica alla tecnocrazia, dalla globalizzazione alla difesa delle identità culturali e popolari, attraversano le due categorie e le scompongono infinite volte. Paradossalmente lo schema bipolare funziona fuori dalla politica, per esempio nella bioetica; ma ha senso denominarlo ancora con i suoi vecchi nomi?
Destra e sinistra non possono più essere definite attraverso la vecchia diade uguaglianza-diseguaglianza, come fa Bobbio. E tantomeno attraverso la vecchia divisione classista di proletari e borghesi o popolo ed élite, che semmai da anni funziona in senso inverso: le minoranze stanno a sinistra, il popolo a destra. Per Bobbio, poi, c’è asimmetria fra libertà e uguaglianza perché la libertà è un bene individuale e l’uguaglianza è un bene sociale. Ma anche la libertà, sul terreno politico, civile e giuridico, è un bene sociale, si esprime nel rapporto con gli altri, con il potere e con le leggi. Proprio come l’uguaglianza.
Poi Bobbio semplifica attribuendo alla destra il primato dell’economia e alla sinistra il primato della politica. In realtà l’economicismo attraversa la destra e la sinistra e le rende subalterne alla tecnica e al mercato; anzi, per la sinistra di derivazione marxista la politica è una sovrastruttura dei rapporti economici, che sono invece il fondamento. Meglio allora distinguere tra destre e sinistre che sostengono il primato dell’economia e destre e sinistre che viceversa affermano il primato della politica e della cultura (o della tradizione). In realtà il primato dell’economia non segna l’avvento della destra al potere, ma la dissoluzione delle categorie politiche a vantaggio della tecnofinanza. Poi non funziona più lo schema destra conservatrice degli assetti e sinistra progressista: la destra è spesso più modernizzatrice della sinistra, sia nella società che nelle istituzioni. Si pensi alla Costituzione: la sinistra la vuole conservare e la destra vuole cambiarla. Insomma la destra e la sinistra di Bobbio sono due vecchie ciabatte inservibili. Come il suo manicheismo antifascista e neo-illuminista.
Bobbio ha rappresentato il partito giacobino degli intellettuali scontenti, critico verso l’Italia reale nel nome di un’Italia ipotetica e minoritaria, figlia della Riforma e dei Lumi, oltre che della lotta al fascismo, considerato con Gobetti frutto della Controriforma (e il nazismo che nasce nella Germania riformata e protestante, è progressista?). Quel partito giacobino sopravvive oggi come potere intellettuale e come rancore settario, ma ha smesso di produrre opere originali e pensieri vivi. Di Bobbio ci resta la lezione del pessimismo, i suoi mea culpa, i suoi dubbi sull’aborto e il senso religioso, e sulla barbarie che si annida nella banale vacuità dei lumi odierni; tanta luce per rischiarare un deserto di idee e di valori. Alla fine, l’unica certezza che Bobbio lasciò fu la nobiltà del dubbio. Non è poco per un intellettuale onesto, ma non è abbastanza per considerarlo un classico. Bobbio è finito con il suo Novecento.
(di Marcello Veneziani)

venerdì 9 ottobre 2009

Herta Muller Nobel per la letteratura

Herta Mueller, saggista e poetessa tedesca di origine romena ha vinto il premio Nobel per la letteratura. La Mueller, nata nel 1953, ha «tratteggiato il panorama dei diseredati» in Romania sotto la dittatura di Nicolae Ceasescu «con la concisione della poesia e la schiettezza della prosa», ha scritto l’Accademia di Svezia. «Sono sbalordita» ha fatto sapere l’autrice in una nota diffusa dal suo editore tedesco, Carl Hanser Verlag, «e non posso ancora crederci. Per il momento non posso dire di più».
Scrittrice di lingua tedesca, la Mueller appartiene alla minoranza germanofona del Banato rumeno. Riparata in Germania per sfuggire alle persecuzioni del regime dittatoriale di Ceausescu è a tutt’oggi considerata la più importante scrittrice vivente in lingua tedesca e un autore di culto sia per la Germania sia per la Romania. In Italia, Keller editore ha pubblicato ’Il paese delle prugne verdì, ritratto impietoso di un paese dominato dalla paura e dall’oppressione della dittatura. Tradotto in 15 lingue il romanzo, in realtà un autentico poema in prosa, si è aggiudicato anche l’Impac, il premio più internazionale dopo il Nobel per la Letteratura. Scrittrice quasi sconosciuta in Italia, la Mueller è stata pubblicata dalla giovane casa editrice Keller di Rovereto. Il suo unico romanzo in commercio è un ’bildungsroman’, un romanzo di formazione, che segue la vicenda di quattro studenti universitari in Romania negli anni della dittatura. Morte, follia, fuga sono gli esiti dell’esistenza della maggior parte dei personaggi. Ma è anche un libro che parla di amicizia e, appunto, di crescita, nel momento in cui i ragazzi devono affrontare l’impatto con la morte di una compagna. Durante gli ultimi tre anni della dittatura in Romania, alla fine degli anni Ottanta, la scrittrice si era trasferita in Germania, anche se dichiara di non essersi del tutto integrata nel Paese, dove è considerata una rumena, così come in Romania era considerata una tedesca. La sua lingua è riconosciuta come un tedesco di confine, quale del resto era il tedesco di Kafka. Il suo stile procede per metafore, per immagini rendendo la narrazione poetica, quasi lirica anche quando descrive episodi abbastanza crudi. La scrittura metaforica fa parte del modo esprimersi degli scrittori dell’est, costretti ad eludere la censura anche nella corrispondenza personale, come accade ai quattro protagonisti del ’Paese delle prugne verdì che sviluppano un loro codice per rimanere in contatto tramite le lettere che sanno essere sottoposte al controllo della censura. La poesia, ha detto una volta, è la forma letteraria che più facilmente si diffonde durante un regime dittatoriale sia perchè si esprime frequentemente per metafore sia perchè è una forma breve più facile da ricordare a memoria. Ci sono stati momenti - ad esempio gli interrogatori della polizia - durante i quali recitare una poesia tra sè e sè svolgeva per lei, non credente, una funzione molto simile a quella che una preghiere deve avere per un credente.

Asor Rosa senza parole. Gli intellettuali tacciono? Non hanno niente da dire

Ma non vi sfiora il sospetto che «il grande silenzio» degli intellettuali sia dovuto al fatto che non hanno più niente da dire? Si celebra in quest’autunno il trentennale della loro decadenza e il ventennale della loro caduta, insieme al Muro di Berlino. Da quel tempo si narra del silenzio degli intellettuali e del loro isolamento. Il pensiero muore con la fine della modernità, celebrata da Lyotard e poi da Vattimo trent’anni fa. La storia svanisce con il Muro di Berlino, vale a dire un ventennio fa, come scrisse allora Fukuyama. Lungo il secolo è stato tutto un susseguirsi di cannibalismi: il libro sopraffatto dal giornale, il giornale dalla radio, la radio dalla tv, la tv da internet e via dicendo. E così il teatro sopraffatto dal cinema e il cinema dal video e dalla musica rock. Via via la cultura si è ritirata a vita privata e gli intellettuali si sono fatti marginali.

A celebrare la loro scomparsa è venuto un brontosauro degli intellettuali organici «destinato all’estinzione», come egli stesso dice: Alberto Asor Rosa in un libro intervista con Simonetta Fiori (Il grande silenzio, appunto, uscito da Laterza, pagg. 181, euro 12). Barone rosso, ideologo del Pci e del ’68, accusato poi di essere il grande vecchio delle Br, autorevole critico letterario. A suo merito opere come Scrittori e popolo nel 1964, ed altri scorci autobiografici più recenti, compresa una confessione di nichilismo & apocalissi. A suo demerito il ruolo di cattivo maestro dell’operaismo che non disdegna la violenza purché «progressiva» (lo ribadisce anche in questa intervista); che non si smuove da un comunismo utopistico e settario che potremmo definire aristocomunismo (un altro autorevole compagno è Luciano Canfora, un altro è Leone de Castris, aristocratico anche dal profilo genealogico), nutrito di uno sprezzante manicheismo. Noi ne parliamo lo stesso, perché a differenza di Asor Rosa e degli intellettuali come lui, crediamo alla civiltà del dialogo e preferiamo leggerlo e criticarlo, anziché ucciderlo col silenziatore (a proposito di grande silenzio... ). Invece Asor Rosa preferisce cancellare o demonizzare il nemico.

Cosa emerge in questa intervista-congedo? La tesi vetero-operaista e vistosamente infondata che l’intellettuale nasce con il capitalismo; il rimpianto aristocratico delle vecchie élite del passato e della saldatura tra oligarchie e intellettuali; l’assurdo alibi che i comunisti restarono stalinisti a causa delle censure fasciste (i comunisti furono devoti a Stalin fino alla sua morte e oltre, diversi anni dopo la caduta del fascismo); l’asservimento totale della cultura al Pci, con storie di incredibile obbedienza al Partito: «Se Togliatti indicava una strada bisognava seguirla. Senza discussioni». E ancora: dopo alcune sue timide obiezioni un alto dirigente comunista tuonò: «Ci vogliono i campi di concentramento!». E obbligandolo a candidarsi, fu detto al Barone Prof. Asor Rosa: «In questo partito un iscritto non discute i deliberati della direzione. Ubbidisci e basta!». E l’illustre professore ubbidisce e «scatta sull’attenti come una recluta». Il bello è che Asor Rosa rimpiange quell’epoca: «Almeno un certo ordine c’era». L’ho sentito dire anche a vecchi fascisti.

Ma che credibilità potevano avere questi intellettuali così arroganti all’università e con chi non la pensa come loro e così servili e acriticamente ubbidienti con il Partito? A proposito del fascismo, Asor Rosa accetta di passare, come egli stesso dice, per «il più agguerrito neo-revisionista» arrivando a riabilitare il fascismo rispetto a Berlusconi. «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo»; il fascismo, dice, era almeno dentro una tradizione nazionale, aveva un rapporto stretto con il risorgimento. Il berlusconismo no, svuota le idee dell’avversario e nega tutto, Resistenza inclusa, facendola propria. E vi risparmio la solita analisi sulla dittatura populistica o la democrazia totalitaria, che corrompe dentro e distrugge fuori. Torna antifascista quando dice che dietro il fascista più onesto c’era l’olocausto (che però quel fascista ignorava); ma dimentica di dire che dietro il partigiano comunista più onesto c’erano i gulag e un sistema totalitario che il fascismo solo si sognava... Obiezione elementare, ma vera.

Infine Asor Rosa si attacca ai prof, alla scuola, ai libri di testo ritenendoli - credo con ragione - l’ultima Stalingrado del comunismo e dintorni (lui dice «l’ultimo baluardo»). Ma non senza ammettere che il progetto comunista e sessantottino è fallito: «La quantità ha soffocato la qualità», fu cancellato il merito. Parole sagge dopo un magistero dissennato.

Chiudendo il libro, torno al titolo e dico: ma gli intellettuali non sono stati ridotti al silenzio. Sì, siamo in una società di massa, volgare e mercantile, dove le idee e la cultura non contano, le merci prevalgono sui pensieri, gli intellettuali sbiadiscono. Però, quella poderosa corazzata che ha esercitato l’egemonia, dal ’68 in poi, quali opere memorabili ha prodotto negli ultimi trent’anni? Poco o nulla. Eppure aveva in mano il potere editoriale e culturale. Ma non ricordo nessuna opera essenziale, nessun nuovo pensiero, nessuna grande fioritura. Tra le ultime opere notevoli, la dichiarazione di decesso del comunismo firmata da Lucio Colletti, comunista pentito, sul tramonto dell’ideologia. Poi il nulla. In filosofia, in letteratura, in cultura politica, in storia. Se qualcosa è emerso, oltre i ripescaggi del grande pensiero novecentesco, quasi tutto conservatore, reazionario e protofascista, è stato fuori e contro quell’egemonia della sinistra.
Da qui il sospetto che il grande silenzio degli intellettuali sia dovuto principalmente al fatto che non avevano più nulla da dire e quel poco che potevano dire, non hanno avuto il coraggio di dirlo. Ma gli intellettuali veri si misurano dalle opere, non dal potere che hanno. E obbediscono alla passione di verità, qualunque essa sia, non agli ordini del Partito. Perché poi, quando finisce il Partito, non sanno più cosa pensare e si limitano a inveire contro il primo Berlusconi che passa.

(di Marcello Veneziani)

domenica 4 ottobre 2009

sabato 3 ottobre 2009

Fazio, Serra e le marchette della sinistra

Ma sì, proviamo a non pagare più il canone Rai. E vediamo se qualcuno dei big di viale Mazzini sarà costretto a cambiare mestiere. Sino a oggi, in casa mia abbiamo continuato a pagarlo. Perché sono un legalitario, purtroppo. Non parcheggio in sosta vietata. Pago le tasse sino all’ultimo euro. Esigo la ricevuta fiscale. Volete che non dia un obolo per sfamare l’Equino Insaziabile?
Sono un vero fesso. Anche perché in Rai vedo troppe cose che non mi piacciono. E sulle quali non ho potere, pur essendo pure io un azionista. Occorre un esempio? No, non farò quello di “Annozero” by Michele Santoro. Farò il nome di Fabio Fazio e del suo programma “Che tempo che fa”.
Di mister Fazio da Savona mi è rimasta in mente una serata speciale. Me ne ero occupato più due anni fa, ma senza turbare la marmorea indifferenza di nessun sinistro. Era la domenica 13 maggio 2007, sotto il regime di Romano Prodi. Sulla Rete Tre andava in onda il programma faziesco che promuove libri e autori. Anche quella sera il libro non mancava. E fin qui niente di strano. Lo strano emergeva nello scoprire che l’autore dell’opera era un big della Rai: Antonio Caprarica, allora direttore di tutti i giornali radio.
La situazione era comica. Rete di sinistra. Conduttore di sinistra. Autore del libro pure lui di sinistra, diventato direttore Rai in quota Ds. Ho scritto comica, ma dovrei dire indecente. Un conflitto d’interessi sfacciato. Meglio ancora: una marchetta rossa. Fabbricata in casa, fra compagnucci che si strizzano l’occhio. Alla faccia della buona creanza.

Le ragioni dell’esclusione

Mister Fazio potrebbe ribattere: Pansa ce l’ha con me perché non l’ho mai invitato a presentare uno dei suoi libracci revisionisti. In parte è vero, sono uno degli eterni esclusi dal suo show. All’inizio, la faccenda mi seccava. Poi mi sono messo il cuore in pace, poiché ho visto che la mia carta stampata si vendeva lo stesso, e molto.
Tuttavia mi è rimasta una curiosità. Chi mi ha sempre escluso? Fazio o il suo autore più influente, Michele Serra? Tra un po’ di giorni l’Uomo di Savona ritornerà in onda. Il suo contratto è stato firmato, per il tenace interessamento del presidente della Rai, Paolo Garimberti. E Serra sarà di nuovo uno degli autori. Il più importante, essendo l’umorista ufficiale di “Repubblica” e dell’“Espresso”.
Lui è più inamovibile di Fazio. Lo vedremo all’opera, sempre con un compenso generoso, anche nelle quattro puntate di Gianni Morandi sulla Rete Uno. Il cantante di Monghidoro si produrrà in un pistolotto per ogni serata, imitando Adriano Celentano. C’è da giurare che i pistolotti glieli scriverà Serra, come aveva già fatto per il Molleggiato.
Possono sembrare piccole miserie da parrocchia televisiva. Ma non è così. In realtà sono la spia di un problema più generale: quello dei talk show politici della Rai. E della continua supremazia della sinistra su un centro-destra senza idee, pavido e inerte.
Vediamo come stanno le cose. “Porta a porta” di Bruno Vespa è un’eccezione alla regola. Lo sanno tutti che non milita a sinistra. E per questo sta sui santissimi ai compagni. Anche se la sua trasmissione è la più bipartisan nel pianeta della tivù pubblica.

L’imitazione di Vespa

Giovanni Floris, con “Ballarò”, cerca di imitare Vespa. Ma non gli riesce. A emergere, ogni volta, è il suo imprinting di oppositore accanito. Chi lo accusa di essere troppo tenero nei confronti del cavalier Berlusconi è chiaro che non lo vede mai.
Di “Annozero” sappiamo tutto. Ho sempre ammirato Michele Santoro e sono stato più volte suo ospite, persino quando lavorava per la Mediaset del Caimano. Oggi il suo show mi annoia, perché so già quel che racconterà, e passo subito ad altro. Però ammiro Michele più di prima, per l’esempio che offre: un uomo solo può imporsi a quel mostro impotente che è Mamma Rai.
Un altro show rosso lo fa tutti i giorni Corradino Mineo su “Rai News 24”. La mattina presto, Mineo va in onda sulla Rete Tre. La sua lettura dei giornali e il colloquio con l’invitato di turno hanno il profumo della vecchia sinistra. Il Pci è morto. Ma gli orfani, ancorché invecchiati, tengono duro. E grazie alla Rai continuano la loro annosa militanza.
Proprio Mineo ci offre la prova che in Rai esiste una catena di complice amicizia tra i programmi rossi. Ieri mattina, lunedì 28 settembre, Corradino già ribatteva, allarmato, alla proposta di non pagare il canone. E soprattutto difendeva con ardore la puntata di “Annozero”. Come se Santoro fosse il suo capo corrente.

Il motto di Nenni

A questo punto, il problema vero non è: canone sì, canone no. La questione è un’altra e riguarda il centro-destra. Ecco un’area politica accusata di aver schiavizzato la Rai e di imporre la volontà del Caimano. In realtà, non è cosi. Con il risultato che la mitica egemonia della cultura comunista, post-comunista o di sinistra continua a imperare.
Dichiaro che la faccenda non mi riguarda. Grazie al cielo, esiste la carta stampata. A cominciare dai quotidiani. È vero che le tante sinistre ne sfornano ben nove ogni mattina. Tanto da indurre il sospetto che il vecchio motto di Pietro Nenni, a proposito dello scarto fra le piazze dei comizi e i risultati elettorali, andrebbe aggiornato così: “Edicole piene, urne vuote”. Ma è il complesso dei giornali a garantire il pluralismo e la libertà d’informazione.

Vecchio bar di provincia


Tuttavia la questione dovrebbe riguardare la cultura di centro-destra. Quest’area urla, strepita, accusa, ma lascia fare. Sta al governo, però si comporta come un’opposizione parolaia e impotente. È mai possibile che non sia capace di creare un suo programma Rai dedicato al dibattito politico? Che ci stanno a fare i tanti intellettuali e/o esperti che ronzano attorno al Cavaliere? Forse si fanno le pippe, si sarebbe risposto nel mio vecchio bar di provincia.
Ma farsi le pippe, per poi piangere sul predominio di Santoro, di Fazio e compagni, non serve a niente. O forse serve soltanto a coltivare la pia illusione che spetti alle tivù di proprietà del Caimano tenere in equilibrio il mercato dell’informazione televisiva. Sì, cari amici azzurri, bianchi, grigi ed ex neri: pippatevi pure. In attesa che tutti cantino “Marchetta rossa la trionferà”.

(di Giampaolo Pansa)

La destra non sa liberarsi dei suoi antichi complessi

Ci si chiede perché con un governo di centro-destra, malgrado lo sforzo di pochi e l’oggettivo fallimento politico del Pd e dei neo-post comunisti, la cultura vincente sia sempre quella di sinistra (giornali, tivù, libri, mostre del cinema).

Sarebbe semplicistico rispondere che non bisogna comportarsi come gli avversari (il tema è l’egemonia), e che va imposto il metodo sovrano del pluralismo, ma l’interpretazione di Libero (con gli articoli, nei giorni scorsi, di Francesco Borgonovo e Gennaro Malgieri) induce a riflessioni serie.

Il premier Silvio Berlusconi sta offrendo un “modello italiano” ben preciso: l’incontro tra il decisionismo, la governabilità (il presidenzialismo di fatto), e l’autobiografia della nazione, la concezione del cittadino “fai-da-te”, la meritocrazia e la legalità; una sorta di “modernizzazione identitaria”, che si esprime nelle varie riforme che finora sono state avviate (dalla scuola alla pubblica amministrazione, al mercato del lavoro).

Ebbene: esiste una nuova e moderna cultura di destra, capace di intercettarne, descriverne la portata, fissarne la mission? Esiste un lavoro serio da parte delle Fondazioni, vicine al PdL in grado di studiare e comunicare l’esperienza di Palazzo Chigi?

La risposta è sconsolante.

Ci dividiamo ancora tra i “professionisti dell’identità”, che hanno dell’identità una visione statica, testimoniale, museale; e “i rinnegati dell’identità”, i profeti dell’amnesia, che negano il valore e l’orgoglio di una tradizione di appartenenza.

In Europa i filoni cattolici, laici-liberali, conservatori e riformatori nazionali primeggiano, solo da noi sono sfondi astratti per convegni inutili. E dell’attualizzazione delle idee (l’unica via giusta tra chi nega e chi ingessa le identità), nemmeno a parlarne.

Come se non bastasse, troppi intellettuali e penne brillanti stanno reiterando uno sport autolesionista da anni Settanta. Si chiama playstation delle idee.

Il mero gusto della provocazione per andare sui giornali che contano (la stagione dei giochetti “Paperino è di sinistra e Topolino di destra”, non è ancora finita). Sport legittimo quando sconfinare era importante; ma infantile e controproducente oggi.

Esempio. Quando giornali come “Il Secolo d’Italia”, insistono, come hanno fatto in passato, su «Che Guevara è nostro», «Zucchero è un amico», il film «Fascisti su Marte» è positivo; oppure quando il giornale on line della Fondazione FareFuturo, spesso più finiano di Fini, si lancia in accostamenti pannelliani e ultra ludici; primo si indebolisce la cultura di destra, confermando il primato della cultura di sinistra; secondo, si diventa ascari del pensiero unico e del politicamente e culturalmente corretto.

Le ragioni? Psico-politiche: mistica del ghetto e complesso di inferiorità culturale. Quella “sindrome da legittimazione”, serva sciocca della “sindrome di Voltaire” della sinistra, che si ritiene l’incarnazione religiosa del bene. Una sinistra che da anni non esprime più nulla o ricette ideologiche superate.

Solidarietà, infine, al direttore dell’Altro, Piero Sansonetti, accusato dai suoi redattori di flirtare con i fascisti del 2000. Debole però, la risposta del direttore: non si dialoga con gli avversari, perché diversi, ghettizzati, emarginati; ma per costruire un’Italia nuova, con valori comuni e memoria condivisa. Facendo tutti un salto di qualità.

Conclusione: Dio salvi la destra che si fa dare i voti dalla sinistra, facendo la destra come vuole la sinistra, o la destra estetica, immaginaria del “sottovuotospinto”.

(di Fabio Torriero)

venerdì 2 ottobre 2009

E i libertini di "Repubblica" esaltano banche e celibato

Erano orgogliosamente libertini, lo spirito licenzioso dei Lumi e quelle cose lì, l’erotismo alla Diderot, le monache finalmente in calore, il «divino marchese» e quindi Justine, Emmanuelle, l’Histoire d’O, la donna sessualmente libera e liberata, e ora sono tutti un «signora mia, ma che tempi, ma che vergogna, ma quelle povere ragazze seminude, che sconcio, che decadenza...». Editano riviste che sono un inno alla f... e però adesso mettono le mani avanti (e magari anche dietro), e dicono che no, la loro è la f... democratica, progressista, quella che gestisce la propria sessualità... Scrivono articolesse sui settimanali che hanno le natiche femminili in copertina e ogni pretesto è buono per illustrare con un nudo di donna anche i terremoti e le inondazioni, e però hanno la faccia come il culo di dire che basta, è ora di finirla con la mercificazione dell’altra metà del cielo... Hanno applaudito il trash «stracult», i Pierini scoreggioni e le Giovannone coscia lunga, i reality dove il buco della serratura era visto come l’irruzione della realtà nel mondo della finzione, la verità che finalmente si impone sullo schermo, e ora è tutto un rimpianto dei bei tempi dell’Approdo, quando la tele era in bianco e nero, c’era il maestro Manzi e A come agricoltura... E infatti, quante braccia strappate alla semina, quanti guasti ha fatto il voto politico e l’apertura indiscriminata nelle università...
Erano orgogliosamente anti-capitalisti, si mangiavano i padroni a colazione, i banchieri a pranzo, i poteri forti a cena, al massimo si commuovevano di fronte all’«utopia illuministica» di Olivetti, perché a quelli come loro garantiva comunque uno stipendio, stavano con Gasparazzo, il fumetto dell’operaio che puzzava di sano sudore proletario e ce li ritroviamo a difendere le banche, come se fossero l’opera pia di Don Guanella, contro le nequizie dei Tremonti-bond: un attentato, una voglia punitiva nei confronti di chi fa fruttare il denaro dei poveri risparmiatori. Le banche, i banchieri, capite, vittime del sistema, «l’élite che resiste» (ma dai, ma fai il bravo), poveri bersagli di una congiura che vorrebbe loro male, loro che al primo imprenditore che chiede un finanziamento, al primo impiegato che vuole accendere un mutuo, lo invitano a cena, gli regalano una macchina, gli presentano la figlia...
È uno strano mondo quello che ruota intorno alla galassia editoriale di cui Repubblica è la stella fissa: un mondo di saltimbanchi del pensiero che hanno tre cattedre e venti collaborazioni, macinano premi, libri e incarichi, vanno in televisione, ma gridano al regime, sentono lo stivale chiodato alla porta, imprecano contro la dittatura strisciante mentre imbottigliano il vino dei propri vigneti («poche bottiglie, solo per gli amici») e chiedono il condono edilizio per il dammuso che hanno restaurato fuori legge. Un mondo di famiglie allargate, pluri matrimoni e pluri divorzi, lo scaffale delle pellicole hardcore ben fornito, perché, si sa, «l’erotismo non è pornografia», ma che si lamenta della decadenza dei costumi: «Un vecchio, pensa un po’, con una ragazza» che potrebbe essere sua nipote»... E certo «Lolita è un capolavoro e come è vero quell’amore senile»...
È curioso come i nemici del moralismo piccolo-borghese, gli adepti del «famiglie io vi odio», i teorici delle mille unioni possibili, uomo-donna, donna-donna, uomo-uomo e di ogni altra ipotetica terza via, si ritrovino uniti nell’esecrazione sessuale: le veline in convento, i festini al rogo, i brachettoni al posto delle gonne, la Controriforma fatta dai laici, prima di morire dovevamo vedere anche questo... È curiosa questa passione per la finanza invisibile, per l’economia globalizzata, la Borsa e la Banca con la b maiuscola, fatta da chi applaude Michael Moore quando racconta le nequizie di Wall Street. Gli americani sono sempre gli altri.
È sorprendente questo coro intellettuale in cui spiccano le voci di direttori e grandi firme che si inorgoglivano se, alle sei della mattina, al telefono venivano buttati giù dal letto dall’Avvocato o dall’Ingegnere (ma che cazzo di vita facevano, gli uni e gli altri?), ma attutivano la mancanza di sonno scorazzando sui loro panfili, aerei e elicotteri... Naturalmente hanno la schiena dritta, si spezzano ma non si piegano (non si spiegano con se stessi, più che altro) e danno del servo, del prezzolato e del killer all’avversario di turno, che sempre naturalmente non è un essere umano, ma un verme, un cane avrebbe detto il Sartre che taceva sugli orrori del comunismo per non far piangere la classe operaia... È una sorta di antifascismo alla puttanesca, una Nuova Resistenza in cachemire, l’Aventino andando in barca alle Eolie. Aveva ragione Marx: quando la storia si ripete, dalla tragedia si passa alla farsa.

(di Stenio Solinas)