lunedì 19 aprile 2010

Fini resterà, la destra è già partita


Se conosco Fini, non farà lo strappo definitivo. Non ha l’ardire né gli arditi per farlo. La platea del suo pubblico ormai lo detesta, le tribune e i palchi del teatro concorrente invece lo applaudono, ma seguono un’altra trama. Non seguirò le tifoserie, il miniclub di Fini, il maxiclub di Berlusconi o il fanclub di Bossi. Proverò a mettermi nei panni di coloro che provengono dalla destra e ora si trovano a disagio, tra due fuochi. Non parlo dunque dei convinti seguaci di Berlusconi e nemmeno dei seguaci di Bossi; mi riferisco a quei milioni d’italiani che votavano Alleanza nazionale e che si riconoscevano nella destra cattolica o laica, liberale o conservatrice, nazionale e sociale.

Questa gente non rimprovera a Fini di opporsi oggi a Bossi e alla Lega, ma al contrario, di non aver opposto a Bossi e alla Lega nessun argine di tipo nazionale e statale, sociale e culturale, lungo tutti questi anni. Quando Bossi chiedeva la svolta federalista, inveiva contro l’Italia, Roma e il Sud, Fini dormiva o nicchiava. Quando Bossi chiedeva più poteri alle Regioni, Fini non insorgeva nel nome dello Stato italiano unitario e della sua tradizione risorgimentale, crociana e gentiliana. Quando Bossi chiedeva di non festeggiare l’Unità d’Italia, Fini e i suoi non reagivano. Quando Bossi firmava le leggi sull’immigrazione, Fini cofirmava le medesime leggi. Da anni manca un contrappeso al ruolo di Bossi che legittimamente difende le tesi leghiste. Svegliarsi oggi dopo aver smantellato la destra nazionale e il partito che recava già nel suo nome la ragione sociale italiana, è quantomeno tardivo, ipocrita, pretestuoso. Serve solo a intralciare il governo Berlusconi e a dare una mano all’opposizione.

Ma non basta. Questa gente di destra non rimprovera a Fini di disobbedire a Berlusconi, di voler mantenere la sua autonomia e di non volersi adeguare al leader. Tutt’altro. Il popolo di destra gli rimprovera al contrario di non aver mai rappresentato il suo elettorato, la sua storia, la sua sensibilità, i suoi valori. Quando Fini segue a turno i radicali in alcune battaglie sulla vita e sulla laicità, poi la sinistra in favore dell’immigrazione, poi ancora Napolitano in difesa del patriottismo della Costituzione anziché il patriottismo della nazione o dell’antifascismo come valore politico attuale; e quando si dà alla difesa del parlamentarismo, mentre il suo popolo da sempre, lui compreso, chiede l’elezione diretta del leader, Fini non abbandona Berlusconi ma il suo elettorato, la sua storia, la sua classe dirigente, le sue battaglie del giorno prima.

Questa gente di destra poi non rimprovera a Fini di incarnare una destra nuova, moderna ed europea, ma il contrario, di fuoruscire da ogni destra possibile e presente: non c’è nulla della sua linea che ricordi il neogollismo di Sarkozy, la tradizione cattolico-popolare della Merkel e di Aznar, la rivoluzione conservatrice e sociale di Cameron. Le sue posizioni sono estranee non solo alle destre italiane e alla loro cultura, ma anche alle post-destre europee.

E ancora. Questa gente di destra non rimprovera a Fini di aspirare ad essere l’erede di Berlusconi ma il contrario, di aver disertato il bipolarismo facendosi trasversale, di aver minato il centrodestra e di aver lavorato contro la sua stessa successione a Berlusconi. È passato dalla successione alla secessione; ma quella individuale, non territoriale.

Insomma, questo popolo di destra, o come preferite chiamarlo, non chiede a Fini di continuare ad essere la sogliola che è stato per anni, appiattito sul Cavaliere, quando An pareva la fotocopia di Forza Italia e noi glielo dicevamo in tutte le maniere, salvo sentire oggi Fini ripetere le stesse parole che rivolgevamo a lui: attenzione, dice con quell’aria di maestrino, se il Pdl diventa la fotocopia della Lega, la gente poi vota l’originale. Anche in questa argomentazione, Fini ha usato il copia e incolla e ha trasferito la fotocopia sbiadita che è stato lui per anni al rapporto di Berlusconi con Bossi. Questa gente chiede a Fini di dare sostanza, contenuto, prospettive ad una destra di governo e non di lavorare contro il governo Berlusconi.
Per anni la destra di Fini ha avuto la grande possibilità di arricchire il centrodestra valorizzando la sua originalità: se Berlusconi era il patron dell’emittenza privata, Fini poteva diventare il principale referente del servizio pubblico televisivo e della necessità di una sua rifondazione. Se Berlusconi era il leader delle partite Iva, Fini poteva essere nel Pdl il leader di riferimento del settore pubblico e della scuola. Se Berlusconi con Tremonti esprimeva la linea economica del centrodestra, al partito di Fini toccava il compito di rappresentare il senso dello Stato, la riforma dell’università e della pubblica istruzione, la tutela dei beni culturali e degli interessi nazionali, della lingua e dell’identità italiana, la difesa della ricerca scientifica e della meritocrazia. Invece, il nulla. Era quello lo spazio naturale per una destra, sguarnito, non occupato né dal pragmatico Berlusconi né dal ruspante Bossi. Era quello lo spazio politico per rimarcare la differenza, per non subire l’egemonia della Lega, per rivendicare l’autonomia da Berlusconi; ma un’autonomia costruttiva, una differenza integrativa, non giocando allo sfascio e remando contro. E invece, la destra non si è vista in tutti questi anni e nessuno dei signori che oggi fa il tifo per Fini, dagli spalti sinistri di un’altra tifoseria, ha mai richiamato questa lacuna. Ma adesso conviene loro tifare per Fini, è l’unica speranza per intralciare il governo Berlusconi.

Non festeggio se Fini va via e non credo che accadrà. Dico solo che se oggi la destra conta quanto il due di coppe, la colpa non è di Bossi e di Berlusconi, ma dell’assenza di un vero leader della destra, capace di contenuti e strategia. Ma Fini un leader non era, lo ripeto da tempo, era solo uno speaker. Andava bene per l’epoca dei comizi e delle battute in tv, non per l’epoca del governo e delle riforme.

(di Marcello Veneziani)Giustifica

sabato 17 aprile 2010

Il femminismo non ha liberato le donne

Appartengo alla generazione che ha combattuto, negli anni della prima giovinezza, la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell’aborto. La generazione che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro. È difficile, per chi non li ha vissuti, capire l’eccitazione, l’esaltazione, la frenesia di quegli anni. La sensazione era quella di trovarsi sulla prua di una nave e guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole di un progresso foriero di ogni felicità. Alle spalle avevamo l’oscurità, i tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell’epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione. Erano gli anni Settanta

Personalmente, non sono mai stata un’attivista, ma lo erano le mie amiche più care e, per quanto capissi le loro ragioni, non posso negare di essere stata sempre profondamente turbata da questa pratica che, in quegli anni, si era trasformata in una sorta di moderno contraccettivo. Mi colpiva, in qualche modo, la leggerezza con cui tutto ciò avveniva, non perché fossi credente — allora non lo ero — né per qualche forma di moralismo imposto dall’alto, ma semplicemente perché mi sembrava che il manifestarsi della vita fosse un fatto così straordinariamente complesso e misterioso da meritare, come minimo, un po’ di timore e di rispetto. Come sono cambiate le cose in questi quarant’anni? Ho l’impressione che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte. La difesa della vita sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società, che continua a pretendere di influenzare la libera scelta dei cittadini. Chi è per il progresso, invece, pur riconoscendo la drammaticità dell’evento, non può che agire in contrapposizione a queste continue ingerenze oscurantiste. Naturalmente, un Paese civile deve avere una legge sull’aborto, ma questa necessaria tutela delle donne in un momento di fragilità non è mai una vittoria per nessuno. I dati sull’interruzione volontaria di gravidanza ci dicono che le principali categorie che si rivolgono agli ospedali sono le donne straniere, le adolescenti e le giovani. Le ragioni delle donne straniere sono purtroppo semplici da capire, si tratta di precarietà, di paura, di incertezza—ragioni che spingono spesso ormai anche madri di famiglia italiane a rinunciare a un figlio, ragioni a cui una buona politica in difesa della vita potrebbe naturalmente ovviare.

Ma le ragazze italiane? Queste figlie, e anche nipoti delle femministe, come mai si trovano in queste condizioni? Sono ragazze nate negli anni 90, ragazze cresciute in un mondo permissivo, a cui certo non sono mancate le possibilità di informarsi. Possibile che non sappiano come nascono i bambini? Possibile che non si siano accorte che i profilattici sono in vendita ovunque, perfino nei distributori automatici notturni? Per quale ragione accettano rapporti non protetti? Si rendono conto della straordinaria ferita cui vanno incontro o forse pensano che, in fondo, l’aborto non sia che un mezzo anticoncezionale come un altro? Se hai fortuna, ti va tutto bene, se hai sfortuna, te ne sbarazzi, pazienza. Non sarà che una seccatura in più. Qualcuno ha spiegato loro che cos’è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili? Chi conosce il mondo degli adolescenti di oggi sa che la promiscuità è una realtà piuttosto diffusa. Ci si piace, si passa la notte insieme, tra una settimana forse ci piacerà qualcun altro. I corpi sono interscambiabili, così come i piaceri. Come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie, così accumulano, spinte dal vuoto che le circonda, partner sempre diversi. Naturalmente non tutte le ragazze sono così, per fortuna, ma non si può negare che questo sia un fenomeno in costante crescita.

Sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant’anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso. Non occorre essere sociologi né fini pensatori per accorgersi che ai giorni nostri tutti i messaggi rivolti alle bambine si concentrano esclusivamente sul loro corpo, sul modo di offrirsi agli altri. Si vedono bambine di cinque anni vestite come cocotte e già a otto anni le ragazzine vivono in uno stato di semi anoressia, terrorizzate di mangiare qualsiasi cosa in grado di attentare alla loro linea. Bisogna essere magre, coscienti che la cosa che abbiamo da offrire, quella che ci renderà felici o infelici, è solo il nostro corpo. Il fiorire della chirurgia plastica non è che una tristissima conferma di questa realtà. Pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po’ più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela. Il risultato di questa chirurgia di massa è già sotto ai nostri occhi: siamo circondate da Barbie perfette, tutte uguali, tutte felicemente soddisfatte di questa uguaglianza, tutte apparentemente disponibili ai desideri maschili. Sembra che nessuno abbia mai detto a queste adolescenti che la cosa più importante non è visibile agli occhi e che l’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo.

Siamo passati così dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l’offerta del proprio corpo siano l’unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo. Nella latitanza della famiglia, della chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media e i media hanno una sola legge. Omologare. Ma questo lato apparentemente così comprensibile, così frivolo — voler essere carine o anche voler mitigare i segni del tempo — che cosa nasconde? Il corpo è l’espressione della nostra unicità ed è la storia delle generazioni che ci hanno preceduti. Quel naso così importante, quei denti storti vengono da un bisnonno, da una trisavola, persone che avevano un’origine, una storia e che, con la loro origine e la loro storia, hanno contribuito a costruire la nostra. Rendere anonimo il volto vuol dire cancellare l’idea che l’essere umano è una creatura che si esprime nel tempo e che il senso della vita è essere consapevoli di questo. La persona è l’unicità del volto. L’omologazione imposta dalla società consumista—e purtroppo sempre più volgarmente maschilista — ha cancellato il patto tra le generazioni, quel legame che da sempre ha permesso alla società umana di definirsi tale. Noi siamo la somma di tutti i nostri antenati ma siamo, al tempo stesso, qualcosa di straordinariamente nuovo e irripetibile. Cancellare il volto vuol dire cancellare la memoria, e cancellare la memoria, vuol dire cancellare la complessità dell’essere umano. Consumare i corpi, umiliare la forza creativa della vita per superficialità e inesperienza, vuol dire essere estranei dall’idea dell’esistenza come percorso, vuol dire vivere in un eterno presente, costantemente intrattenuti, in balia dei propri capricci e degli altrui desideri. Senza il senso del tempo non abbiamo né passato né futuro, l’unico orizzonte che si pone davanti ai nostri occhi è quello di una specchio in cui ci riflettiamo infinite volte, come nei labirinti dei luna park. Procediamo senza senso da una parte, dall’altra, vedendo sempre e soltanto noi stessi, più magri, più grassi, più alti, più bassi. All’inizio quel girare in tondo ci fa ridere, poi col tempo, nasce l’angoscia. Dove sarà l’uscita, a chi chiedere aiuto? Battiamo su uno specchio e nessuno ci risponde. Siamo in mille, ma siamo sole.

(di Susanna Tamaro)

venerdì 16 aprile 2010

ROGO DI PRIMAVALLE: PER NON DIMENTICARE

Noi di Salò nel campo di prigionia


Un sorriso, sì, gli sarebbe scappato: a mezza bocca, sornione, come sempre. Perché uno con tanta avversione per la retorica da affidare il suo primo vero outing da vecchio ragazzo della Repubblica Sociale a un’intervista intitolata «Non rinnego né Salò né Sanremo», beh, magari si sarebbe pure commosso, ma di sicuro non ce l’avrebbe fatta a restare proprio serio davanti all’onda anomala di blogger di ultradestra che salutano adesso «il camerata Raimondo», gli dedicano post con croci celtiche e fasci littori corredati da pensieri come «Vianello presente! Onore alla tua coerenza» e da versi di Mario Castellacci, l’autore di «Le donne non ci vogliono più bene», l’inno romantico e guascone dei giovani repubblichini.

È rimasta seminascosta come un fiume carsico, ed infine è tornata su, quell’intervista del 1998 a Lo Stato di Marcello Veneziani, in sintonia ma anche in polemica coi tempi, perché già Violante aveva avviato il ripensamento della sinistra postcomunista sui ragazzi che scelsero «la parte sbagliata» dopo l’8 settembre ’43, e già Fini dopo Fiuggi aveva approfondito a sua volta la revisione della destra su quegli anni: «I giovani che sono andati a Salò dovrebbero essere più rispettati se non altro per i loro ideali ispiratori. Chi è andato su sapeva di finire male. Non va abiurato», disse allora Raimondo, al culmine della sua quarta o quinta giovinezza, dopo gli anni ruggenti di «Un due tre» con Ugo Tognazzi (altro camerata ragazzino, Brigata Nera di Cremona) e tre decenni consecutivi di trionfi tv, ancora in cima alla popolarità grazie a «Casa Vianello», l’eterna sit-com con l’amata Sandra. «Sapevo che c’era questa storia, mandai un redattore, lui ne fu contento, non ebbe alcuna ritrosia a parlarne», ricorda adesso Veneziani.

Dodici anni dopo, questo Paese spaesato ha fame di icone pop. Dal post di «DeEuropaeaStirpe»: «Raimondo Vianello, bersagliere volontario della Rsi: aderì per ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre, con un piede già sulla macchina carica di roba, lo chiamò per dirgli a bassa voce come fosse una confidenza: "Vianello, si salvi chi può!" Onore a te, camerata, riposa in pace». Sembra di rileggere «A cercar la bella morte», le pagine di Carlo Mazzantini che, sedicenne, vede volare giù dalle finestre del suo palazzo i busti del duce dopo il 25 luglio, si volta sconcertato verso il padre che gli fa segno di starsene buono e aspettare che passi la buriana, matura la decisione di combattere «per l’onore della patria» che lo porterà al nord. Mirko Tremaglia, l’ultimo di quei ragazzi ancora in Parlamento, racconta: «Vianello era con me al campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, nell’estate del ’45. Eravamo 36 mila della Repubblica sociale. Non ha mai rinnegato la sua storia. Come Tognazzi. Come Walter Chiari. Come Giorgio Albertazzi». Un lampo: «Gli americani che comandavano il campo ci tenevano alla fame. E per punirci ci mettevano nella "fossa dei fachiri", piena di pietre aguzze, a piedi nudi». Poi un sorriso, perché il tempo non è passato invano e ha levigato il ricordo di quelle pietre: «Loro, quelli di noi che sono diventati personaggi di spettacolo, hanno contribuito molto alla pacificazione, ci hanno avvicinato alla gente». Si dura fatica a calare un mito televisivo dell’Italia postbellica dentro quella tragedia collettiva che stava concludendo la sua parabola nei fascist criminal camp narrati da Roberto Mieville, mito letterario dei giovani missini anni Sessanta e Settanta.

Anche Albertazzi raccontò a un giornale la sua storia: «E certo mi danneggiò enormemente nel cinema, un certo cinema era tutto comunista». Diversa la strada di Vianello: «Raimondo era d’istinto quello che si diceva un attore brillante, se uno pensa alla scena di Tarzan o all’indimenticabile Un due tre"...». Nel piccolo universo blogger della destra nostalgica e a tratti persino ingenua, l’«attor brillante » ritrova infine il giovane bersagliere. «Non ha mai rinnegato» (Vovò). «Soldato che mai ha ritrattato la propria appartenenza » (Johnny). «Chiari, Tognazzi ed ora lui: dopo la Rsi la tv, ed ora continueranno anche da lassù» (eja-Gio). «Portava con sé l’umanità e la simpatia di tanti giovani fascisti che nell’Italia dopo il 1945 dovettero lavorare duro e mandare giù rospi incredibili per andare avanti» (Quinto Fabio Massimo). Ci sono percorsi dove la piccola storia popolare incontra la Storia con la maiuscola. Dieci anni fa, uno studioso di sinistra famoso come Roberto Vivarelli, pubblicando il libro di memorie «La fine di una stagione», confessò: «Sono stato un fascista repubblicano a 13 anni e non me ne pento» (dove l’assenza di pentimento era sottolineata anche da quel repubblicano in luogo dello spregiativo repubblichino). Mazzantini, commentando quella confessione, si rammaricò che non fosse avvenuta prima, quando «certi giudizi storici potevano ancora essere modificati». Poi aggiunse: «Se oggi mi venisse riproposta la scelta, alla luce di tutto ciò che ho imparato, sceglierei ciò che scelse la maggioranza degli italiani e fu sintetizzato da una scritta apparsa a Trastevere: nun volemo né tedeschi né americani fatece piagne da soli». Vianello, rimarginate le cicatrici di Coltano, aveva scelto di farci sorridere.

Marzio Tremaglia, il ministro della Cultura che non fu


I n un’intervista, un mese dopo la sua morte, l’editore Gabriele Mazzotta mi disse: «Marzio era naturaliter destinato a diventare ministro della Cultura». Per apertura mentale, per preparazione, per coraggio, per spirito organizzativo e per legame alle sue radici culturali, posso aggiungere. Ma così non è stato: Marzio Tremaglia morì il 22 aprile del 2000, a soli 42 anni, dopo aver lottato per almeno tre con la sua malattia. Era stato per cinque anni assessore alla Cultura della Regione Lombardia rivoluzionando il modo di affrontare la complessa materia e lasciando un’impronta indelebile del suo lavoro come dimostra il volume Ripensare la cultura (Mazzotta), curato da Romano F. Cattaneo, uscito un mese prima della morte, che documenta il suo lavoro.

Pur non potendo rammaricarci di quel che non è stato, non posso fare a meno di chiedermi: ma sarebbe stata veramente ipotizzabile questa sua nomina? E sarebbe stato possibile fare il ministro della Cultura in un governo di centrodestra, considerando quel che in due lustri è avvenuto politicamente e culturalmente nella destra italiana, quella ufficiale intendo? Conoscendo carattere e idee di Marzio, io credo che avrebbe trovato insormontabili difficoltà. Da un lato aveva idee precise e ben fondate: quando sul Corriere della Sera venne rilanciata la protesta dell’Arcigay perché il suo assessorato non aveva finanziato un festival di film omosessuali, Marzio rispose con una lettera: lui si atteneva al dettato costituzionale che prevedeva la difesa della famiglia, e quindi... Noi però sappiamo quel che è successo nel frattempo sia nel Paese sia nel centrodestra. E come si sarebbe comportato, lui che con legge regionale ha istituito il Centro studi della Rsi, con sede a Salò, diretto dal professor Roberto Chiarini e che ha per motto «Salviamo la memoria del nostro Paese», come si sarebbe comportato Marzio nei confronti del segretario del suo partito che definì all’improvviso, non solo le leggi razziali, ma il fascismo tutto e quello della Rsi in particolare come «male assoluto»? Lui che aveva inviato al segretario del suo partito molte e dettagliate lettere su problemi politico-culturali, tutte ovviamente inascoltate?

Marzio, però, possedeva soprattutto una visione amministrativa «a 360 gradi». Non era ottuso, ma managerialmente liberale, pur con i suoi «paletti» e aveva capito che alla fine del XX secolo certi aspetti del mondo moderno non si potevano ignorare. Ecco perché promosse, con i suoi collaboratori, una serie di importanti eventi sia di alta cultura che di cultura popolare: dalle grandi mostre internazionali alla rivalutazione del folklore (senza alcun eccesso di iperlocalismo leghista): da un lato la dea Iside, Kandinsky, Lorenzo Lotto, Postumia, Klimt, Hokusai, il Tibet; dall’altro il giallo, la fantascienza, l’avventura, il fumetto, gli alieni, i vampiri. Marzio aveva capito che non ci si doveva adagiare sulla conquista del potere «politico», ma affermare anche una «visione del mondo». Senza faziosità ma anche senza timori reverenziali nei confronti dei tabù imposti dal conformismo e dal «politicamente corretto», senza l’ossessiva paura di venir criticati per la propria libertà intellettuale da partiti e giornali avversari, da lobby politiche, economiche e religiose. Ecco quindi i convegni sulle insorgenze antigiacobine, sui gulag sovietici, sulla rivolta ungherese, sulla Repubblica sociale, su «destra/destre», su Ezra Pound e su Julius Evola. Finanziò infatti, nel 1998, centenario della nascita del filosofo tradizionalista, un fondamentale convegno ed una storica mostra sulla sua pittura: intervenne alla inaugurazione, nonostante fosse stato visibilmente operato da poco. Non lo dimenticherò mai. Piuttosto sono (quasi) tutti gli altri assessori alla cultura del centrodestra in città grandi e piccole che, nell’arco di dieci anni, hanno sostanzialmente dimenticato o ignorato il suo esempio e la sua testimonianza di efficienza e coraggio culturale, limitandosi tremebondi all’ovvio o al nulla di fatto.

(di Gianfranco de Turris)

giovedì 15 aprile 2010

Il fascismo è morto. L’epica fascista è viva e sta benissimo


Il fascismo è morto e sepolto, condannato dalla storia e dall’anagrafe, ma lascia a volte saporiti frutti letterari. Ho davanti a me due libri di due autori che sono forse le ultime tracce del miglior neofascismo letterario. Parlo di un vivo e di un morto, e spero che Piero Buscaroli, facile all’ira, non consideri un supplizio etrusco legare lui e il suo libro, Dalla parte dei vinti, a Giano Accame, morto giusto il 15 aprile di un anno fa, e al suo libro postumo, La morte dei fascisti. Sono usciti entrambi in questi giorni: il testo di Accame è edito da Mursia, quello di Buscaroli da Mondadori. Sono due libri pervasi di pathos storico e letterario. Due libri impolitici, percorsi dalla nobiltà della sconfitta. Buscaroli estende il suo sguardo al Novecento e alla saga della sua famiglia. Accame, invece, esula dalla storia per entrare, com’era sua consuetudine, nell’estetica e nell’ideologia del fascismo, nel culto della bella morte, nella letteratura, nel pensiero e nella poesia civile che lo accompagnò.

Piero Buscaroli è un grande scrittore di musica e di storia, e conosce come pochi la storia della musica e la tragica musicalità della storia. Non solo per dandysmo si definisce «un superstite della repubblica sociale in territorio nemico» ma non aveva l’età per aderire alla Rsi. Oggi ne ha ottanta, ma ne aveva quindici quando cadde il fascismo. Non per civetteria disse a Montanelli che era diventato fascista «non per Mussolini ma nonostante Mussolini». Qui racconta il suo tormentato rapporto con Indro e con Il Giornale, di cui fu firma sotto falso nome. Perché lui, come Prezzolini e Del Noce, fu proscritto, e lo ricorda in queste pagine: ma rispetto agli altri due che fascisti non erano, lui sul Giornale almeno poté scrivere con lo pseudonimo di Piero Santerno. Di Buscaroli sono memorabili i suoi scritti e le sue biografie. Ma memorabile è pure il suo carattere scontroso, i suoi litigi e le sue polemiche, con Montanelli stesso e Giovanni Volpe, Almirante e Dino Grandi, suo cugino Massimo Cacciari e Paolo Mieli. Facile alla querela, si narra che Buscaroli avesse un velivolo che aveva battezzato Querelino, frutto dei proventi delle sue vittorie giudiziarie. Litigò anche con me, per ragioni di cui assoluta è la mia innocenza: ma non riesco a volergli male e tanto meno a parlar male di lui, che considero uno dei rari grandi rimasti. Buscaroli fu scoperto da Longanesi e fu una firma storica del mitico Borghese, soprattutto in politica estera. Diresse anche Il Roma di Lauro; ma dirigere un giornale, a Napoli per giunta, sarà stato per lui e per chi era con lui, un vero supplizio. Come fu terribile la sua campagna elettorale politicamente scorretta alle europee del ’94. Questo suo libro è bello ma diseguale, pieno di guerra, carteggi e autobiografia. Le pagine migliori sono per me quelle dedicate a Longanesi e a Ezra Pound.

A Pound dedica pagine diverse ma altrettanto belle anche Giano Accame. Quando Francesco Martucci mi ha donato la sua Morte dei fascisti, vi confesso che ho avuto un tuffo al cuore. Per anni Giano, che mi affiancò in tante avventure editoriali, me ne aveva parlato, ma il libro annunciato con l’editore Enzo Cipriano non era mai uscito. Mi ero convinto che fosse un testo implicito, un canto del cigno di quelli che ti accompagnano invisibili per l’ultima stagione della vita, di quelli che si scrivono dentro ma non si tirano mai fuori, perché rispecchiano la propria anima e la propria storia. Quando morì, lo stesso 15 aprile in cui morirono Giovanni Gentile e Giovanni Volpe, mi persuasi che se lo fosse portato nella tomba, quasi a epigrafe del suo cammino. E invece ora il parto postumo. È il libro di un fascista anomalo che dialogava con la sinistra, che sognava un ’68 nazional-rivoluzionario e una nuova repubblica, il socialismo tricolore e le alleanze trasversali. Lui che da fascista si era innamorato di Pacciardi l’antifascista e d’Israele, poi di Craxi e dei ragazzi di Cl, pur restando legato alla destra sociale. Storico dell’economia, amava Pound e le sue teorie sull’usura che gli permisero di conciliare l’economia alla poesia tramite l’epica del fascismo letterario. Aveva due anni più di Buscaroli ma gli bastarono per indossare solo per un giorno la divisa della Rsi. Era orgoglioso di aver partecipato in extremis alla nobiltà della sconfitta, quell’universo dei vinti e delle rovine di cui Buscaroli canta l’elogio. Ricordo Buscaroli come un vulcano in eruzione, emiliano sanguigno, anello di congiunzione tra d’Annunzio e Sgarbi. Giano, invece, da ligure, era parsimonioso anche di parole ed effusioni, scorreva come un fiume sotterraneo, sornione, timido e gentile. Un’aria svagata e un po’ assente, l’inquietudine intellettuale dissimulata nella flemma e un radicalismo foderato nella felpa del moderato. E poi la sua ribellione all’automobile: un giorno gettò la patente nel Tevere e da allora non guidò più. Buscaroli fece di peggio, fu investito dalla sua stessa auto senza freno a mano, e lo trasse in salvo proprio l’editore Volpe, vicino di casa, con cui aveva litigato.

Accame e Buscaroli scrissero entrambi sul Borghese, fuoruscirono presto dall’Msi, fondarono la rivista il Reazionario che era un pugno nell’occhio già nel titolo, anche se nessuno dei due può considerarsi propriamente un reazionario. Erano due neofascisti, ma intelligenti, colti e impolitici. Come altri neofascisti che rimasero tali a babbo morto: è il caso di Enzo Erra tra i giornalisti-scrittori. O di giornalisti purosangue come Giovannini, Gianna Preda, Pisanò, Bolzoni. Tra i giovani in politica, l’unico che avesse qualcosa del neofascismo colto era Marzio Tremaglia, che fu il miglior assessore regionale alla cultura, come mi disse una volta Veltroni da ministro dei Beni culturali (di Marzio si ricordano domenica prossima a Milano i dieci anni della sua morte precoce). Il neofascismo in politica fu una sterile utopia, nutrita di fedeltà e rancore; ma sublimato in arte e letteratura poteva tradursi nel sogno epico e nostalgico di un romanticismo fascista, come scrisse Paul Serant. Se la qualità e la verità contassero qualcosa, Accame e Buscaroli sarebbero oggi considerati tra i frutti migliori del giornalismo intellettuale espresso nell’Italia repubblicana. Ma si sedettero dalla parte del torto e le loro opere ne scontano ancora le conseguenze.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 14 aprile 2010

Proposta, perché Marchionne non si leva quel maglione?


Stanotte mi sono sognato Sergio Marchionne che girava nudo col maglione tra Napolitano, Montezemolo e Papa Ratzinger e veniva fulminato dall’Altissimo Gianni Agnelli che gli rinfacciava non tanto la nudità di sotto quanto il maglione di sopra. Maledetto Mavchionne, hai messo il pullovev alla mia Fiat, hai vidotto l’Impevo ad una maglievia, vevgognati. E giù fulmini e saette. Sergio Marchionne è per me un mistero, il maglione è come la sua sindone. Quando lo vedo perfino in Quirinale con il suo maglione che gli dà quell’aria di passante capitato lì per caso, ho un misto di tenerezza e di apprensione. Ma perché, poveretto, non si può permettere una giacca e una cravatta, quale indigenza, quale allergia, quale complesso alberga in lui che gli è interdetto l’uso della giacca e della cravatta? Perché non può mostrare mai la sua camicia come se fosse sempre macchiata di olio motore? Perché deve sentirsi sempre a disagio, fuori posto, come un immigrato clandestino senza permesso di soggiorno...

Ha fatto un voto, ha subito un trauma infantile, da bambino fu violentato da un pedofilo con la cravatta, ha avuto problemi con gli usurai detti appunto cravattari? Posso capire che uno preferisca un look a un altro, ma quando la scelta è assoluta, ostinata, inderogabile, quando non si cambia capo d’abbigliamento nemmeno davanti al capo dello Stato e ai corazzieri, c’è qualcosa di patologico, di esoterico o di maniacale che dovrebbe essere portato alla luce. Psicanalizzate Marchionne. Chi vi parla non è un fanatico del bel vestire, anzi è un nemico giurato della cravatta, la usa quando è d’obbligo e non quando è solo d’uso, detesta i damerini, indossa spesso maglioni e ama vestire casual che il mio Maestro, Checco Zalone, più efficacemente traduce in «veste a cazzo». Marchionne ama il vestire «a cazzo», ma lo fa con studiata impertinenza e con premeditata serialità, facendo della sua vistosa e volontaria inferiorità la sua calcolata superiorità, e comunque la sua distinzione. In mezzo ai corazzieri in alta uniforme vederlo così, in borghese, anzi peggio, da sala bigliardi o da cena a casa con i suoi, fa un’impressione quasi eversiva. Perfino Mussolini quando andava dal Capo dello Stato si toglieva la camicia nera da duce e saliva in frac, in marsina, insomma si vestiva da alto borghese. Marchionne no, resta così, da portiere della Juventus in tenuta d’allenamento. E dite di Berlusconi, Di Pietro, Santoro che sono populisti: Marchionne è peggio di Peron, non è nemmeno descamisado con la giacca appesa al braccio, ma integralmente immaglionito. Quando il povero Bossi si faceva vedere in canottiera scandalizzava mezzo mondo e gridavano alla sua cafoneria. Lo fa Marchionne alle cerimonie ufficiali, e nulla da obiettare, anzi che figo, che elegante. Non so se si barrica nei maglioni perché, come dicono i suoi biografi, non potendo competere con l’eleganza degli Agnelli, dei suoi predecessori e con il mitico ferrarista Luca Cordero di Montezemolo, preferisce vestire da utilitaria con abitacolo girogola.

Oppure se vuol lanciare un messaggio subliminale agli operai, proiettando nel maglione la tuta del metalmeccanico, elevata a divisa aziendale, incluso il numero uno della Fiat in segno di socializzazione e populismo operaio. Sono uno come voi, cari compagni, vesto come voi, e festeggio insieme a voi il Primo Maggio. Sono uno rimasto col cuore a Togliattigrad, la fabbrica Fiat in Unione Sovietica. Chiamatemi Tovarich Sergei, Compagno Sergio. Oppure no, è una strategia di mercato che passa attraverso il suo look. Magari vuol rassicurare la clientela e presentarsi come un capo officina pronto a garantire di persona la manutenzione dell’auto, a parcheggiarla nel garage, o a fare il tagliando. Non so se anche la sua lingerie è adeguata al ruolo, se usa mutande in euro5, munite di airbag in caso di erezione, scarponi con la abs per la frenata e polsini col servosterzo. Ma il suo maglione vuol essere una specie di status symbol, la finzione di passare per uno qualunque per risaltare al contrario di essere speciale, straordinario. A lui tutto è permesso. Sarà che per arrotondare, il povero Marchionne si sobbarca nel ruolo di testimonial e indossatore di cashmere Loro Piana o Fedeli. Sarà che Marchionne è cresciuto in Canada, come l’orso Yogi, anche se lui somiglia più all’orsetto Bubu ripassato in versione Tognoli (l’ex sindaco di Milano sembra il suo fratellino maggiore). E come per l’orsetto canadese il pelo è la sua pelliccia naturale.

Sarà che vive in Svizzera e veste così per mungere le mucche, per gli alpeggi e per i cori di montagna. Sarà che dietro quell’aria global è nato addirittura a Chieti, tipica e ruspante provincia del profondo Abruzzo, e dunque resta fedele col suo maglione alla sua matrice rustica e casereccia. Sarà tutto questo, ma non capisco come possa usare il maglione come la tonaca o il saio, con la stessa metodica costanza di chi è entrato in un ordine religioso. Marchionne è come il fondatore di un nuovo ordine, dopo i Padri Cappuccini ecco i Frati Pulloverini, una variante religiosa della banda della Magliona. Il maglione è diventato il suo burqa identitario. Ora dovrebbe lanciare una linea di auto sportive con i sedili rivestiti di maglione, per affermare il marchio. Verrà un giorno in cui le magliette con la faccia di Che Guevara saranno sostituite dai maglioni con la faccia di Marchionne. In un Paese di travestiti e voltagabbana, ecco finalmente uno che non cambia mai casacca.

(di Marcello Veneziani)

martedì 13 aprile 2010

Guerra in Afghanistan: una strage troppo spesso ignorata

Mentre le televisioni di tutto il mondo, persino quella italiana, mostrano un video-choc risalente al 2007, iracheno, dove si vede come i rambo americani, al sicuro sui loro bombardieri, abbiano il grilletto facile e gli basti scambiare un reporter della Reuter con una cinepresa in mano per un insorto e fare una strage uccidendo una dozzina di persone, fra cui due bambini, cose di questo genere, e peggiori, sono all’ordine del giorno in Afghanistan ma passano sotto silenzio, o nascoste nelle pagine più interne dei giornali.
Non solo perché non vi sono coinvolti occidentali, ma perché l’Afghanistan è un Paese remoto e gli afgani, non essendo nemmeno arabi, non hanno santi in paradiso per cui se ne può fare carne di porco. Il 12 febbraio a Gardez, nell’est dell’Afghanistan, i reparti dell’American Special Operation Force, in uno dei consueti raid, hanno ucciso tre donne, due delle quali, madri di dieci e di sei figli, incinte. Poi hanno cercato di far sparire le tracce del loro eccidio e di attribuirlo agli afgani, affermando che «le tre donne, legate e imbavagliate, nascoste in una stanza», erano state uccise qualche ora prima del blitz.

La balla era così spudorata che persino la polizia afgana, di solito di manica larghissima con gli americani, ha dovuto smascherarli. Gli americani sono stati costretti ad ammettere «È stato un incidente. Ce ne scusiamo».

Di questi «incidenti» ne accadono ogni giorno in Afghanistan. Da quando, un paio di mesi fa, il comandante in capo delle forze alleate, Stanley McChristal, ha annunciato la nuova strategia, il «Surge», che nessuno capisce cosa sia tranne che dovrebbe evitare di colpire i civili, per non alimentare il montante odio degli afgani contro gli occupanti, ne sono stati uccisi una cinquantina. E parliamo solo delle notizie che sono filtrate fino a noi.

Sfoglio i miei ritagli. «Spari sulla folla, è strage. Rivolta in piazza a Kabul» (30/5/2006); «Bombe sulle case, strage di civili in Afghanistan» (27/10/2006); «Afghanistan, nuove vittime civili» (28/10/2006); «Massacro di civili dopo l’imboscata agli Usa» (5/3/2007); «Afghanistan, raid Nato. Tra le vittime 45 civili» (2/7/2007); «Afghanistan, gli italiani sparano. Decapitata una bimba di 12 anni» (13/2/2008); «Strage in Afghanistan. Le scuse dell’America» (7/5/2009); «Afghanistan, attacco Nato. Strage di talebani e civili» (5/9/2009); «Afghanistan, colpiti bambini di 5 anni» (10/2/2010); «Afghanistan, nuova strage di civili» (23/2/2010). Devo continuare? E questo non è che un florilegio del materiale da me raccolto e una parte infinitesima di ciò che è accaduto nei nove anni di occupazione occidentale.

La situazione è talmente compromessa che il presidente Karzai, la cui sopravvivenza dipende dalla presenza delle truppe Nato, ha dichiarato in una conferenza stampa: «Gli americani lavorano perché il conflitto continui per poter continuare ad occupare il Paese. Se va avanti così diventerò alleato dei Talebani». Un simile azzardo da parte di Karzai vuol dire una sola cosa: che i Talebani stan vincendo la partita, non sul piano militare, dove la sproporzione tecnologica è enorme, ma perché ormai è passata dalla loro parte pressoché l’intera popolazione afgana, anche quella parte che prima li detestava e li aveva combattuti. E noi italiani? Fino a quando intendiamo rimanere complici di una mattanza quotidiana che non ha più alcuna ragion d’essere, se mai ne ha avuto una?
(di Massimo Fini)