giovedì 12 agosto 2010

Mariani: Perché dissi no al bilancio di An

Sedici minuti e diciassette secondi di tensione emotiva quasi insopportabile che accomunò in un salone d’albergo Gianfranco Fini e i suoi colonnelli. Era il 28 luglio di tre anni fa e davanti allo stato maggiore di Alleanza nazionale, Sergio Mariani spiegò il suo voto contrario al bilancio di An con argomenti molto espliciti («L’oggetto concordato per alcune fatture è falso») e concluse il suo discorso con una richiesta spiazzante: «Chiedo alla Assemblea nazionale di An di deferirmi al Collegio dei Probiviri...». Come dire: se ho detto bugie, non vi resta che denunciarmi. Nel salone dell’hotel Parco dei Principi, tra i capicorrente, grande fu lo sconcerto. Fini sorrise, qualcun altro disse «non è possibile» e Mariani continuò: «E allora, a norma dello Statuto, devo chiedere di denunciarmi al segretario provinciale di Roma...». Non accadde nulla. Nessun dirigente di An denunciò Mariani e l’indomani nessun giornale diede conto del suo intervento.

Ma quel discorso che sembrava destinato all’oblio, torna d’attualità. Soprattutto per un motivo: Sergio Mariani, sconosciuto al grande pubblico, è un personaggio nevralgico nella storia privata e pubblica della destra. Pochissimi, come lui, conoscono alcuni ex colonnelli di An, con i quali Mariani ha condiviso in gioventù “missioni” non sempre di stampo oxfordiano. Ma c’è qualcosa di più: Mariani è stato il primo marito di Daniela Di Sotto, la sanguigna militante che successivamente si innamorò di Gianfranco Fini e lo sposò. Il camerata Sergio reagì malissimo, sparandosi all’addome: allora, come oggi, Mariani era un duro, ma anche un uomo tutto d’un pezzo, per lui «onore e rispetto» restano valori assoluti. Uno spessore umano che ha impedito a quelli che avrebbero preferito rimuoverlo, di recidere i legami con lui. E infatti in privato Mariani continua a parlare senza ipocrisie con tutte le “parti”: il suo ex rivale Fini, ma anche la ex moglie di entrambi, Daniela.

E proprio loro due - Sergio e Daniela - più di 30 anni fa gli iniziatori di una lunga storia di amori e di voltafaccia, in questi giorni sono ricercatissimi dai giornali, affamati di gossip e di vetriolo. Ma i due si negano. Daniela, dopo la separazione da Fini, si è chiusa in un riserbo che i critici della sua verve romanesca non avrebbero mai immaginato. Ma a Mariani è naturale chiederlo: perché quel triplice “no” all’approvazione degli ultimi tre bilanci di An dal 2005 al 2007? Oltre alla casa di Montecarlo, ci sono forse altri beni dell’eredità Colleoni o del patrimonio missino, di cui hanno goduto in forme diversi altri dirigenti del partito? Mariani è un muro: «Non ho alcuna intenzione di fare dichiarazioni su questo argomento. Oggi, come allora, resto dell’idea che i panni sporchi si lavano in famiglia». Ma se fosse il magistrato che indaga su Montecarlo a chiederle le ragioni delle sue perplessità? «Se fosse l’autorità giudiziaria a interpellarmi, non potrei tirarmi indietro. Con spirito di verità».

Tra chi viene da An, nessuno mette in discussione la probità del garante degli ultimi bilanci, il senatore Franco Pontone, un gentiluomo napoletano d’altri tempi che non ha mai avuto l’autoblù, che si muove in treno e ripete spesso una frase: «L’unico patrimonio che lascerò a mia figlia è il mio onore». Una cosa è certa: gli ultimi bilanci di An sono stati approvati all’unanimità, la prova che nel partito di Fini c’è stata sempre una gestione collegiale delle questioni finanziarie, compresa quella che ha riguardato la casa di Montecarlo. E’ proprio questa collegialità che spiega la prudenza degli ex colonnelli? Italo Bocchino, capofila dei finiani, scuote la testa: «No, la gestione dei bilanci è sempre stata molto scrupolosa e rigida».


(fonte: http://www.lastampa.it/)

lunedì 9 agosto 2010

Aveva una casetta in Canadà

Qualcuno ricorderà una canzone di Carla Boni e Gino Latilla del 1957 che piaceva molto: “Aveva una casetta piccolina in Canadà, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà…”. Piaceva perché rappresentava il sogno di milioni di persone: possedere una casa, un appartamento, un posto decente dove abitare. Con il tempo, molti l’hanno realizzato. Ma per tanti resta una chimera. Questo spiega perché la casa sia ancora al primo posto nelle chiacchiere che si fanno in un gran numero di famiglie.

Se poi la casa di cui si parla riguarda un politico, le chiacchiere vanno a mille. L’ex ministro Scajola è diventata famoso non per il lavoro svolto, buono o cattivo che fosse. Ma per la faccenda dell’appartamento che un mister X gli avrebbe regalato, in tutto o in parte. Lo stesso vale per Gianfranco Fini, il presidente della Camera. Ormai anche dal parrucchiere le signore parlano di lui, della casa di Montecarlo, del cognato che ci vive, del modo singolare in cui è stata acquisita, poi venduta, poi rivenduta, poi affittata. Mi hanno raccontato che un signora, nel farsi la piega, domandava: “Ma che cosa sarà questo off shore? Un nuovo modello di reggiseno?”.

Naturalmente è possibile che Fini non sappia nulla dell’appartamento di Montecarlo. E che sia finito sui giornali soltanto perché ha divorziato da Silvio Berlusconi. Scriviamo sempre che il garantismo è un pilastro della società liberale. Anche se spesso su questo pilastro molti ci fanno i loro bisogni. Ma l’etica ci impone di essere garantisti nei confronti di tutti. Anche di un politico importante come Fini, la terza carica dello Stato. Che per difendersi ha molti più mezzi dell’uomo della strada senza potere.

Il guaio è che Fini non parla, non spiega, non dice una sillaba per ribattere alla valanga di parole che i media stanno scaraventando sulla faccenda di Montecarlo e, di riflesso, su di lui. È il primo aspetto paradossale di questa storia. Fini non ha mai amato il silenzio. Soltanto negli ultimi mesi, per non andare più lontano nel tempo, ha esternato di continuo, quasi tutti i giorni. Non si poteva aprire un giornale o accendere la tivù senza inciampare in una dichiarazione del presidente della Camera. Pensate alla tortura inflitta all’italiano qualunque. Ma non appena è emersa la storia di Montecarlo, Fini è diventato il muto di Montecitorio. Almeno sino al momento nel quale scrivo questa puntata del Bestiario: la mattina di sabato 7 agosto 2010.

C’è un leader politico che gli ha rimproverato di essersi tagliata la lingua. È Antonio Di Pietro, un maestro nell’avvalersi del diritto di parola. In due interviste al Riformista e a Libero, Tonino ha detto: «Per uscirne, Fini può fare una sola cosa: portare i documenti all’opinione pubblica, prima che lo faccia la magistratura».

Mentre Fini taceva, hanno parlato altri politici. Qui ne citerò tre. Il primo non mi sento di metterlo in croce perché è una signora con molti obblighi: Flavia Perina. Il suo vincolo più forte deriva dal fatto che dirige il quotidiano del futuristi finiani, il Secolo d’Italia. Per questo ha definito “dossieraggio” le inchieste dei giornali sulla casetta di Montecarlo. Sostenendo che “la lotta politica è regredita come ai tempi di Mino Pecorelli”. Ma che cosa poteva dire di diverso, la gentile Perina?

Più strambe sono le dichiarazioni di altri della casta. Pier Ferdinando Casini ha ruggito che le inchieste dei giornali su Fini sono “squadrismo mediatico” o, secondo un’altra versione, “squadrismo intimidatorio”. Due parole che coprono Casini di ridicolo. Siccome vuole fare il terzo polo con Fini, il capo dell’Udc si è messo a copiare il lessico del Cavaliere. Sia bocciato e ripeta l’anno.

Un altro da bocciare è un politico del Partito democratico, Luigi Zanda, vice capogruppo al Senato. Lui si è indignato per “l’uso della mazza ferrata giornalistica, editoriale e televisiva contro gli avversari del presidente del Consiglio”. Due errori da matita blu in un piccolo bla bla. Il primo è che la faccenda di Montecarlo ormai sta su tutte le gazzette e i tigì, anche su quelli che sono nemici giurati del Caimano. Il secondo riguarda la vecchia professione di Zanda. Quando era il segretario generale del gruppo Espresso-Repubblica si congratulava vivamente per le nostre inchieste su Tizio e su Caio. E non ci ha mai considerato dei mazzieri, bensì campioni del giornalismo investigativo.

Uno che non è da bocciare, bensì da compiangere con simpatia è Benedetto Della Vedova, vice capogruppo dei deputati futuristi. Da bravo valtellinese, si è messo lo zaino da battaglia. E va in tivù a spiegare l’arcano di Futuro e Libertà. Ossia a sostenere che i finiani restano nella maggioranza di centro-destra, accanto al Caimano, e non vanno con le opposizioni. Lo dice con garbo, da vero signore. Senza rendersi conto di accrescere la quota di grottesco che sprigiona dallo scisma di Fini.

Il grottesco aumenterà a dismisura quando inizieranno le manovre per le prossime elezioni. Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha già proposto di costituire un Grande Esercito di Liberazione per liquidare il Cavaliere. Ma leggerlo su Repubblica e ascoltarlo alla tivù, ti suggerisce una previsione sola. Se finirà così, vincerà di nuovo Berlusconi.

E se è vero che il premier si prepara a campare sino alla bellezza di 120 anni, molti non ne vedranno mai la caduta. A cominciare da me, che me ne andrò al Creatore senza poter sapere come sarà l’Italia di allora. Posso aggiungere per fortuna? Sì, l’ho aggiunto.

(di Giampaolo Pansa)

domenica 8 agosto 2010

Gianfranco, il fu-turista subacqueo


Ma se non ci fosse stato Berlusconi a sdoganarli, Fini e i missini starebbero ancora isolati, ai margini, nel sottoscala, nelle fogne? Non mi intendo di patafisica, cioè di storia scritta con i se e perciò non rispondo alla domanda. Mi accontento di guardare alla realtà. So che il Msi, piccolo, fiero e sterile partito di opposizione nostalgica, si stava avviando dopo Almirante a un declino inarrestabile, se non fosse esplosa l’Italia agli inizi del ’90. Il Msi era già stato sdoganato due volte prima di Berlusconi; negli anni Ottanta da Craxi che incontrò prima Almirante, verso cui ebbe espressioni di diffidente stima, e poi il neosegretario Fini, di cui invece descrisse la pochezza, anzi l’inconsistenza. E ai primi anni Novanta da Cossiga che, tentato dall’idea gollista di una Nuova Repubblica, rimise in gioco i missini considerandoli interlocutori. Il Msi vegetava ai margini della politica italiana quando scoppiò Mani pulite, implose la Dc tra Cossiga, Orlando e Segni e venne fuori dall’onda referendaria la riforma elettorale.

Andava sui giornali grazie all’estro dell’addetto stampa di Fini, il rustico Francesco Storace. Nel crollo della prima Repubblica, il Msi apparve come un partito dalle mani pulite o meglio delle mani intonse, perché mai usate per governare, ma solo per saluti romani e qualche scazzottata. Il Msi non aveva mai amministrato niente, o quasi; i suoi militanti erano credenti e brave persone, gran parte dei suoi parlamentari erano solo oratori, vergini di potere. Insomma aveva la fedina pulita, apologie di fascismo a parte. Fu così che Fini si trovò investito a candidarsi sindaco a Roma insieme alla Mussolini che si candidava a Napoli. Esitava, lo incoraggiammo, una volta gli telefonai per spingerlo a candidarsi dopo che la Dc di Martinazzoli aveva rifiutato di allearsi col Msi per sostenere Buttiglione o altri. Fini conseguì una gloriosa sconfitta contro il suo nuovo alleato Rutelli, come la Mussolini contro Bassolino. E al ballottaggio, Berlusconi ancora imprenditore, si schierò apertamente con lui. No, lo sdoganamento di Berlusconi non fu la svolta, anche se era la prima volta che uno dei più importanti personaggi dell’imprenditoria dichiarava pubblicamente di votare per il leader del Msi. La vera chiamata in paradiso per il Msi non fu quella; fu quando Berlusconi scese in campo, inserì nel gioco politico la destra e la coalizzò con la Lega e con gli ex Dc di Casini. Quello fu il miracolo per Fini e il suo partito; da soli non sarebbero mai riusciti a compierlo.

Quell’alleanza fu una proposta che avevo lanciato mesi prima su L'Italia settimanale, quando Berlusconi ancora non c’era. Ricordo che chiesi a Vittorio Feltri se condivideva questa idea e se ci scriveva un pezzo; e lui scrisse un articolo che intitolai «Se cani e gatti si alleassero», figurando l’alleanza tra Lega e Msi. Feltri continuò a scriverne sull’Indipendente. La stessa proposta lanciammo a Roma con Feltri, Fisichella e Selva in un convegno della Fondazione Italia. Dopo venne la discesa in campo di Berlusconi a trasformare un’idea in un’alleanza. I missi dominici dell’operazione furono soprattutto Letta e Tatarella, che stava lavorando per il nuovo partito (un altro missino ebbe un ruolo importante nella nascita di Forza Italia: Mimmo Mennitti). E con l’adesione di Fisichella, Fiori, Selva e altri, prese corpo An. Fini arrivò a cose fatte, con tempismo e abilità. Ma solo due anni prima pensava ancora che il richiamo a Mussolini potesse consentire al Msi di vivere con una manciata di parlamentari. Da segretario del Msi e da oppositore a Rauti, Fini era disposto a tutto per campare, perfino a sostenere Saddam Hussein, andando in Irak al traino di Le Pen.

L’organo finiano mi rinfaccia di aver tratteggiato in un mio libro un quadretto ironico e affettuoso di una sezione missina del Sud, raccontando la generosità e lo squallore naïf delle sezioni di quel tempo. Era una pagina narrativa e non politica, di colore e sentimenti, lievemente caricaturale anche se rispecchiava un’esperienza vera di vita; ma non penso affatto che tutti i missini si possano ridurre a quel rozzo campionario di zoologia. Ci fu chi ci rimise la pelle e onore a loro; ci fu chi ci rimise soldi e lavoro, altro che Montecitorio o Montecarlo; e c’era anche gente di qualità. Di solito, però, non se la passavano bene; erano all’opposizione interna, come Beppe Niccolai, o espulsi, come Marco Tarchi. La nomenklatura del Msi, con poche eccezioni, restò impenetrabile alla cultura e alle idee, diffidente verso gli eretici e gli innovatori, ostile a ogni iniziativa editoriale e culturale, di nuova destra o verso nuove aperture. Se portavo le mie idee su la Repubblica o su l’Unità, se esortavo a lasciare il fascismo alla storia e ad aprirsi ad alleanze nuove, se dialogavo con Cacciari o con i socialisti tricolore, passavo ai loro occhi per venduto e traditore. Quanti frustrati abitanti delle fogne missine, oggi finiani, la pensavano così... Appena poterono, i futuristi libertari di oggi, riuscirono già ai tempi di An a far chiudere l’Italia settimanale, cacciando prima il suo direttore. Ma, prima di An, quello era il Msi finiano, diffidente verso le novità, rancoroso e nostalgico; un passo indietro anche rispetto ai rautiani, o rispetto al Msi di Michelini e De Marzio. Che Almirante e Romualdi fossero ancora immersi nel neofascismo era comprensibile, era la loro biografia a chiamarli a Salò; ma che lo fosse un giovane ignaro e postfascista come Fini è metà assurdo e metà furbesco. Poi, a un certo punto, con una giravolta geniale di cui presto darò la mia versione, Fini si liberò del ruolo di vice di Berlusconi per aspirare al ruolo di vice di Casini (i rapporti di forza parlano chiaro). È commovente lo sforzo surreale di alcuni finiani di dare una linea culturale e una nobiltà ideale a un fatto personale, immaginando che si tratti di nuova destra. Futurismo? Sì, fu turismo. Subacqueo e fai-da-te.

(di Marcello Veneziani)

sabato 7 agosto 2010

La disgiunzione sociale generata dalla modernità


Uno dei capisaldi della decrescita è che non si può avere una crescita infinita in uno spazio finito.

La teoria della decrescita parte in effetti dalla constatazione elementare che le riserve naturali siano in via di esaurimento e che non si possa avere una crescita materiale infinita in un mondo finito. E’ il principio avverso alla logica del « sempre di più» e a quella dismisura che i Greci chiamavano hybris. L’inquinamento che degrada l’ecosistema, cioè la struttura della vita, oggi ha raggiunto un livello intollerabile. Evidentemente crediamo inesauribili e gratuite le riserve naturali, però non lo sono; specialmente nel caso delle riserve petrolifere: si avvicina il momento in cui il petrolio non potrà più essere estratto che a una resa decrescita. L’industria mondiale consuma 87 milioni di barili di petrolio al giorno, nel 2050 consumerà il doppio e a fine secolo il quadruplo. La domanda è dunque destinata ad aumentare fino a quando l’offerta non andrà rapidamente a diminuire. All’ora attuale, più dei tre quarti delle nostre risorse energetiche sono risorse fossili (petrolio, gas, carbonio, uranio). Quanto alle energie rinnovabili, non costituiscono che il 5,2% di tutte le energie consumate nel mondo. Bisogna dunque rompere con questa fuga in avanti. Gli alberi non possono crescere fino al cielo!

La crescita economica è legata a doppio filo alle catastrofi. Può spiegare come?

Se l’attuale crescita economica materiale avanza, non può che generare delle catastrofi di cui noi vediamo già i segni precursori. Esiste, inoltre, un nesso tra la crescita e la catastrofe che molta gente ignora: l’aumento del prodotto interno lordo (PIL) permette di misurare la crescita, intesa però non come miglioramento del benessere, ma come crescita di tutte le forme di attività economiche. Ciò vuol dire che si valutano positivamente le catastrofi naturali (inondazioni, nubifragi, terremoti, maremoti) nella misura in cui queste generano un’attività economica. In Francia, per esempio, l’ alluvione del dicembre del 1999 ha portato un aumento del 1,2 % di crescita! E ancora, la ricchezza misurata dal PIL non è netta, poiché le cifre non tengono conto dei costi che implica l’attività economica in termini di esaurimento delle riserve naturali. Da questo doppio punto di vista, la crescita non è che un miraggio.

Occorre, come dice Latouche, decolonizzare l’immaginario occidentale?

In effetti Serge Latouche parla di una necessaria « decolonizzazione » dell’immaginario simbolico. Si tratta di non abitare più nella convinzione che l’uomo sia un produttore-consumatore, o che l’economia sia il destino. Rompere con l’ossessione della produttività, della mercificazione, con l’idea che più sia sinonimo di meglio. Evitare di scegliere chissà quale nuovo gadget per il solo motivo che sia nuovo, riconoscendo che l’uomo non vive di solo pane e che l’individuo non è la somma di ciò che possiede. La logica dell’essere non è quella dell’avere, così come la qualità non è riducibile alla quantità. Il valore non può essere costantemente piegato su valore di mercato, o sul quello di cambio. I prezzi si negoziano, i valori no. E’ il tempo di uscire dal mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.

Agire partendo dal locale all’universale vuol dire recuperare una visione vernacolare e riappropriarsi di un centro, di una “residenza”?

Filosoficamente parlando, si potrebbe dire che nell’epoca della globalizzazione assistiamo a una progressiva destituzione del luogo per lo spazio. Il luogo è un punto chiaramente situato, con dei limiti propri, che ci è generalmente famigliare. Lo spazio non ha dei limiti: è incondizionato, illimitato; ciò corrisponde perfettamente alla logica della metropoli che tende, attraverso una propria dinamica, alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo è rappresentato dal carattere illimitato nel suo tentativo di collisione e di omologazione rispetto al mondo. In mezzo si trovano quelle culture popolari, con i loro modi di vita radicati, che ostacolano l’espansione planetaria delle metropoli e la trasformazione della Terra in un immenso cammino omologato. Tornare a orientare l’esistenza sul luogo vuol dire resistere all’influenza dell’incondizionato e, allo stesso tempo, restituire al mondo la diversità che ne costituisce la vera ricchezza. E’ per questo, allora, che attualmente si moltiplicano le delocalizzazioni; occorre rilocalizzare il più possibile la produzione e il consumo.

Perché chi pensa di poter moralizzare il capitalismo cade in un cortocircuito?

L’idea di una « moralizzazione » del capitalismo si sviluppa a partire dal 1990, in seguito a un certo numero di scandali sulle disfunzioni del sistema finanziario. Il capitalismo non è «moralizzabile» per la semplice ragione che per sua stessa natura è estraneo a tutta la considerazione morale. La sua ragione d’essere si riconduce all’accumulo dei profitti e non può che prevalere su tutte le altre finalità. Inoltre, il sistema capitalistico non è più, dopo molto tempo, oggetto sul quale si potrebbe aver presa, ma un soggetto che si sviluppa secondo le proprie leggi atte all’autoproduzione.
Nei nostri giorni non assistiamo, dunque, alla moralizzazione del capitalismo, ma piuttosto al contrario: all’ « economizzazione » della nozione stessa di valore, che avvicina gli individui nella direzione dell’accumulo. L’etica manageriale, per esempio, può interpretarsi come una morale disciplinare mirata a formare l’individuo per il desiderio di cambio. Distante dal poter essere « moralizzato », oggi il capitalismo contribuisce soprattutto alla « demoralizzazione » della società.

Come adattare la dimensione comunitaria in spazi sempre più grandi e affollati come le città e le varie metropoli?

Più le città diventano immense, più il quartiere può acquistare importanza. E’ proprio in questo ambito che si ritrova il carattere profondamente dialettico della globalizzazione: da una parte unifica e omogenea, dall’altra crea per reazione delle nuove frammentazioni. L’importante è lottare contro la disgiunzione sociale generata dalla modernità, favorendo i legami sociali che un tempo erano all’origine della solidarietà organica. Questa esigenza non concerne soltanto il domani privato, ma anche quello della vita pubblica. La riabilitazione del vincolo sociale deve andare di pari passo con il collocamento di una democrazia partecipativa, fondata sul principio della sussidiarietà, che possa rimediare alle insufficienze della democrazia rappresentativa, responsabile di aver creato un divario tra la classe dominante e la maggioranza dei cittadini.

venerdì 6 agosto 2010

Camerati, a noi Silvio ci ha salvati


Camerati, a noi è toccato il ruolo di essere i becchini del berlusconismo, bene. Ma almeno un esame di coscienza, lo possiamo fare? Ancora due giorni prima delle elezioni, quelle del 1994, la, gloriosa macchina da guerra di Achille Occhetto si scontrava con quei fantastici citrulloni dalla cravatta con il nodo grosso, i primi militanti di Forza Italia. E c`era Il Corriere della Sera, il giornale dei moderati e dei borghesi, che la buttava proprio chiara: "No a Berlusconi". Uno degli argomenti forti, certamente quello più scandalizzato, era l`imbarazzante apparentamento con il Movimento Sociale Italiano, il partito nel cui emblema, sotto la fiamma, c`era ancora visibile la bara di Benito Mussolini.
Camerati, a noi in quei giorni venne in sorte di vederci cambiata la vita: dall`oggi all`indomani. Due giorni dopo, incredulo, lo stesso Corriere raccontava l`inaudito: vinceva le elezioni l`uomo della plastica, il ricco non elegante, quello delle televisioni cui faceva contorno un`idea d`Italia, senza salotti e senza le terrazze di Ettore Scola. Solo arredi Aiazzone. E quella "storia italiana" poi, il depliant propagandistico di un animatore da villaggio intento a curare i fiori nel proprio giardino.

IL MITICO 1994

Camerati, a noi ci cambiò la vita perché ancora un giorno prima - e lo ricordo bene, con Salvatore Sottile, poi straordinario capo ufficio stampa di Gianfranco Fini - quando capitava di andare in Rai per elemosinare uno spazio, con i camerati che erano riusciti a trovare un lavoro sotto finta quota - coi liberali e coi socialdemocratici - dovevamo parlare di nascosto. Per non rovinarli.
Il giorno dopo, al contrario, fu tutto un batter di tacchi ed alalà. E non esagero. In luogo dei nostri arrivarono gli altri. Quelli del Settimo piano di viale Mazzini. Ci venivano a cercare per estrarre dai loro portafogli, commossi, le foto dei nonni e degli zii in orbace. Salvatore li costringeva a fare anticamera e quelli, nell`attesa, studiavano il martirologio della Repubblica sociale. Tutto un "caro lei, quando c`era Lui" adesso rinvigorito dall`arrivo di quel nuovo "Lui": il Cavaliere, che aveva messo sottosopra quell`Italia dove noi - camerati - nella migliore delle ipotesi eravamo topi di fogna, nella peggiore, "esuli in patria".

NOI E I POTERI FORTI

La vita cambiò perché ci venne incontro la possibilità di potere, subito abortita in quei mesi febbrili quando Pinuccio Tatarella, forte d`ingegno e di strategia, capì presto la mala parata: i poteri forti. Saranno loro ad avvelenare questa opportunità di cambiare l`Italia e sottrarla al conservatorismo della sinistra. La vita cambiò perché il Cavaliere si faceva carico di sbrogliarsela con un progetto perfino eversivo: rovesciare l`establishment.
Certo, la gente a modo continuava a pensarla secondo codice conformista. Io e Italo ******** abitavamo in un appartamento romano, vicini di pianerottolo di un transessuale che manco ci salutava tanto l`antifascismo era ed è religione civile. Un tabù fatto proprio oggi da Alemanno, da Fini e senza, avere la simpatica malizia di Maurizio Gasparri che alla, solita domanda su Mussolini risponde: "Conosco solo Alessandra".

ODIO PERMANENTE

In Italia l`odio è il carburante della società cosiddetta civile. Il sorriso del Caimano spiazzava tutti, noi per primi che non eravamo proprio abituati a così tanta grazia arrivammo a farci conoscere per i nostri modi da parvenu. Quello che combinavamo in Rai è pura antologia dell`orrore. Ancora ieri vi si aggiravano i cari parenti del capo indiscusso della destra, quella del patriottismo repubblicano, mica il Berlusca. Se non ci fosse stato Berlusconi la destra sarebbe diventata oscena, una di quella pagliaccesche parodie come se ne possono trovare nel mondo: xenofobia, isteria sociale, razzismo, islamofobia.

FASCISMO DEL 2000

Sarebbe stata, quella destra, la parodia cui già s`avviava proprio con Fini: "Il fascismo del 2000", giusto quando c`era quello stupendo faro di nome Beppe Niccolai che a tutti noi, camerati, indicava la strada per ricominciare ad assumersi la responsabilità della politica: entrando nella viva carne dell`Italia che si trasformava. Ma fu governo, fu destra di governo e tutti noi ci siamo trasformati in qualcos`altro. Perfino in ladri, in magnaccia, in furbi e, con rispetto parlando, in camerieri ciechi e ubbidienti di quelli che hanno ammazzato Enrico Mattei, quelli che ci hanno inchiodato, con la nostra bella Italia universale, ad essere periferia e spazzatura di ogni occidentalismo.

IL PROF. BUTTAFUOCO

Se non ci fosse stata la rivoluzione berlusconiana, non ci sarebbe stato Il Foglio, non avrei poi incontrato Pietro Calabrese che mi ha dato uno stipendio e un lavoro e io sarei rimasto in paese: la mia libreria sarebbe diventata una cartoleria, la, mia identità di intellettuale si sarebbe realizzata, nella cattedra di filosofia al Liceo linguistico di Enna, forse sarei pure diventato federale del partito, avrei attraversato piazze tricolori e festanti fino ad esaurimento del lumicino, insomma, un destino uguale a quello di tanti perché, camerati, a noi, non ce lo poteva dire nessuno che saremmo arrivati a questo punto, anzi, che tanti di noi sarebbero arrivati al punto di essere i liquidatori dell`Italia post-berlusconiana. Di questo si tratta.

FINI E I FUTURISTI

E va bene, allora, è finita, sarà finita ma io non pretendo di verificare il grado di futurismo di Gianfranco Fini.
Ma mentre capisco certe uscite di Fabio Granata (è grazie a Granata se le anime belle, oggi, devono inghiottire la smagliante verità di una foto, quella di Paolo Borsellino, in coppia con Pippo Tricoli, ospiti di Granata con tanto di croce celtica sullo sfondo), m`indignano gli anatemi di un Gianni Alemanno contro lo stesso Fabio (proprio lui, parla, il sindaco, lui che se li sucò fin nel midollo i ragazzi di Siracusa, suoi fedeli pretoriani; parla proprio lui, la fighetta, che per non fare la figura del fascio allo Strega ha ostentatamente votato Silvia Avallone e non Antonio Pennacchi).
Continuo a non chiedere a Fini di gettare il cuore oltre l`ostacolo ma di parlare con voce sua, sua politica voce, e non per tramite di avvocati, e di spiegare la, casa di Montecarlo, quanto meno a soli camerati, proletari e fascisti. Quelli che non avendo manco da tenersi le pezze al **** le trovavano le cento lire per la sottoscrizione. E il senso di vergogna che prende me che non sono più un elettore ma solo uno che se n`è andato o, forse, cacciato da ogni destra. E mi vergogno nei confronti di quelli che venivano in sezione per restarci anche se fuori, nelle piazze, gli altri, ci volevano morti. 1 beni immobiliari del Msi (altro che An, altro che Pdl) esistono in virtù di un istinto di sopravvivenza: le compravano le case perché nessuno ce le affittava. Nessuno ci ha mai voluto tra i piedi. Per i piedi a noi ci appendevano. Camerati, a noi!

(di Pietrangelo Buttafuoco)

martedì 3 agosto 2010

Non è sufficiente vivere la vita: bisogna pensarla


Vi racconto con un nome finto una storia vera, che non è storia singola e paesana ma una parabola epocale. Accade in provincia, che era il cuore antico e arretrato dell'Italia, ma ora vive le mutazioni in tempo reale, simultaneamente alle metropoli; anzi è un laboratorio a vista per le trasformazioni del costume.

Vent'anni fa quando tornavo al paese, i miei amici al bar mi raccontavano il pettegolezzo hard del momento: sai che Pippo Mazzo se la fa con la moglie del capostazione? Ma non è un'eccezione e mi citavano subito dopo altri casi di sposati irrequieti che trescavano con le signore più mature.

Dieci anni fa quando tornavo al paese i miei amici al bar mi raccontavano che Pippo Mazzo si era separato. Ma non è un'eccezione, e mi citavano subito dopo svariati altri casi (...) di quarantenni separati o in via di separazione. Gioca pure al videopoker d'azzardo, beve tanto e visita i siti porno, ma qui lo fanno in tanti.

Cinque anni fa quando tornavo al paese i miei amici al bar mi raccontavano che Pippo Mazzo era stato beccato in un locale di coppie scambiste e sniffava pure. Ma non è un'eccezione, a Milano avevano beccato altre coppie nostrane.

Ora, tornato al paese, i miei amici mi raccontano che Pippo Mazzo ha un amante, senz'apostrofo perché maschio. Ma non è un'eccezione, ce ne sono tanti altri, e mi citano altri cinquantenni, separati e no, con figli grandi, che se la fanno con ragazzi o vanno a trans. E cresce anche qui in paese l'uso tardivo di pasticche, erbe e cocaina. Ammazza la provincia dal cuore antico e un po' arretrato, vecchia credenza dei nostri ricordi puerili...

Ma noi siamo moderni e non condanniamo nessuno. Siamo uomini di mondo e ci ripetiamo col catechismo in uso che ognuno è libero di vivere la sua vita come meglio crede. O vuoi fare l'omofobo, il bigotto, il moralista? Nziamai, dicono al mio paese, contrazione di «non sia mai». Chi è senza peccati scagli la prima pietra. E poi, perché fermare le trasgressioni al primo stadio o consentirle fino al secondo, e non ammettere anche il terzo e oltre? Perché chiudere un occhio allo spinello e non ad alcol e pasticche? Bastano i motivi di salute per stabilire i limiti e i divieti? Cos'è quest'etica sanitaria, 'sta morale ospedaliera... Conosco pure casi inversi rispetto a Pippo Mazzo: ho un amico sessantottino che era un tossico depresso, gay e single libertino; alla mia età si sposò, ora spinge il carrozzino di suo figlio e vive appassito in adorazione di lui. Prima aveva l'occhio fritto, ora ha l'occhio lesso... I progressi della vita.

Per carità, non voglio fare il moralista né ho i titoli per farlo. Però come la chiamate questa parabola generazionale, arrivata pure in provincia? Evoluzione, involuzione? No, implicherebbe un giudizio positivo o negativo. Semplice mutazione biologica? Mi dà tanto di animali. Non la chiamo e mi sbrigo. Però guardiamoci negli occhi e chiediamoci: ma che razza di vita stiamo vivendo? Ho capito, il mondo di ieri è finito. Ma questa variazione continua di vita, di sesso, di affetti, cos'è, dove porta? Questa vita fondata sul cesso, prima persona del verbo cessare... cessare d'essere in un modo per diventare un altro. Lascio il piano morale, non entro nel piano religioso, mi fermo sul piano esistenziale. Il dogma assoluto della nostra società è semplice e categorico: la vita va vissuta. Ogni lasciata è persa, ogni desiderio negato è una perdita di libertà; niente e nessuno ti ridarà o ti compenserà quel che perdi o rinunci a fare. Cogli l'occasione, prova, divertiti. Vivi pienamente più vite; se non c'è l'eternità, datti alla varietà, e alla variabilità. È questo il canone universale, arrivato pure in provincia, come il digitale terrestre. Ma possibile che non ci sia nient'altro, nessuna alternativa; che razza di libertà è questa se c'è una sola risposta in automatico e il resto è considerato solo regressione-repressione-restrizione? Allora provo a tracciare una linea e a dire che accanto al dogma «la vita va vissuta» ci può essere anche un'altra scelta: la vita va dedicata. Ecco, dedicare è la parola giusta. Dedico la vita a qualcosa, a qualcuno, a qualcosa e qualcuno insieme, a Qualcuno. Come si dice per le canzoni, questa la voglio dedicare a... così, una vita dedicata a persone, a imprese, a creazioni, arti e mestieri, a paesi e mondi, dedicata a valori e ricordi, al sole e al mare, agli dei o addirittura a Dio. Non una vita dedicata a se stessa, ma a qualcosa che la riempia.

Perché non bastano una o più vite vissute, ci manca una vita dedicata. Una vita senza dedica, senza dedizione, è una vita fessa, oscura, che alla fine nemmeno è vissuta, ma è quasi subìta, decisa dalle occasioni e dagli impulsi. Per dedicarla devi essere convinto di una cosa: ciò che facciamo lascia comunque un segno, non scivola e sparisce tutto, ma di tutto resta invece una traccia. Niente va perduto. Accanto agli esiti visibili ci sono pure quelli invisibili. È fesso vivere senza progettare la vita, senza tendere a un amore, a un disegno intelligente. Certo, una vita dedicata può essere anche una vita vissuta. Ma in quel continuo vivere e cessare dov'è l'unità della persona, in quel farsi vivere dai desideri dov'è finito il cuore della vita, e l'anima, cosa resta alla fine di noi? Non dico quando si muore, perché qualcuno potrebbe dire chi se ne frega dopo morti; dico di noi adesso, a fine serata, quando pensiamo la vita anziché viverla soltanto. Che pippo sei?

Meglio dedicare la vita. Ma chi glielo dice al bar ai miei amici e a Pippo Mazzo? E come glielo dici, mancano le parole adatte a loro e al nostro tempo. A proposito, prevedo che con gli anni i miei amici mi diranno che Pippo Mazzo, se non diventerà nel frattempo pedofilo, avrà una badante giovane, una slovacca molto vacca, di quelle che fanno perdere la testa oltre che i mondiali. Quando morirà, magari d'overdose di viagra, sulla sua lapide scriveranno, perdonatemi l'epigrafe ma è la più veritiera: Visse a cazzo.

(di Marcello Veneziani)

E adesso, povero futurista?

Qualche lettore del Riformista ricorderà un forte romanzo di Hans Fallada, scrittore tedesco del Novecento. Il titolo era: E adesso, pover’uomo? Raccontava le traversie dei tedeschi alle prese con la terribile crisi economica degli anni Trenta, quando la Germania stava per essere inghiottita dalla notte del nazismo.
Quel libro mi è ritornato alla mente nell’osservare l’ennesimo strappo di Gianfranco Fini e la sua dichiarazione di guerra a Silvio Berlusconi. Mi sono chiesto: e adesso che cosa accadrà al povero signor Fini? Proviamo a immaginarlo, saltando le puntate precedenti. E guardando in avanti, come ci impone la nuova insegna dei fuorusciti dal Pdl: Futuro e Libertà.
Tuttavia, sul passato almeno una cosa bisogna dirla. Nella finta conferenza stampa di venerdì, Fini si è lagnato di essere stato cacciato dal Pdl per decisione del Cavaliere, un dittatore che non sopporta il dissenso. Ma a mio parere la verità è opposta. È stato Fini a voler essere espulso. Se uno decide di mettere su casa con qualcuno e poi questo qualcuno comincia a sfasciarla, è il coinquilino distruttore che sceglie di essere mandato via. Questo suggerisce il buon senso.
Lasciando perdere il passato, una semplice occhiata al futuro ci dice che, allo stato dei fatti, Fini ha di fronte a sé due strade, entrambe molto impervie e con tanti serpenti sotto le foglie.
La prima è la più banale. Pur contando su un gruppo parlamentare di tutto rispetto, i futuristi sanno soltanto vivacchiare. Fanno un po’ di guerra al Cav, ma senza provocarne la caduta. E nel 2013, alla fine della legislatura, si ritrovano con un pugno di mosche. Nel voto successivo, anche in virtù dell’attuale legge elettorale, spariscono o quasi dal Parlamento.
Questa mi sembra la strada meno probabile. Il Futurista numero 1 è un leader giovane, in gennaio ha compiuto 58 anni, sedici meno di Berlusconi. Ha di certo grandi ambizioni, seppure ancora imprecisate. Vuole disarcionare il Cavaliere? Vuole fondare una nuova Destra? Vuole arrivare a Palazzo Chigi con l’aiuto delle tante sinistre? Ho già immaginato un ticket fasciocomunista con Nichi Vendola o qualche altro big rosso. Però l’ho fatto soprattutto per divertimento. Resta una verità indiscutibile: neppure Fini oggi ha ben chiaro quale sia il proprio traguardo. È soltanto un tattico, sia pure bravo nel navigare a vista. Ma allora non resta che passare alla seconda, ipotetica strada.
Qui l’unico dato certo è la buona consistenza numerica dei futuristi: per ora 33 deputati e 9 senatori. Nessuno l’aveva previsto. È stato un regalo a sorpresa, dovuto soprattutto al cesarismo suicida di Berlusconi. Che è andato a cacciarsi in una condizione pericolosa. Il Cavaliere era già prigioniero di Umberto Bossi. Adesso lo diventerà anche di Fini. I futuristi sono in grado di rendere infernale il percorso parlamentare di Silvio. E anche di far cadere il suo governo.
Vorranno farlo per davvero? Il Bestiario pensa di no. Le incognite successive sono rischiose. La prima è che il presidente della Repubblica potrebbe mettere in sella un governo di transizione dal quale Fini sarebbe escluso, poiché presiede la Camera. Quel governo potrebbe durare, grazie all’intervento di santa Scarabola, la patrona delle imprese impossibili. E durando potrebbe far bene, a vantaggio del paese. Ma in questo caso il futurismo finiano resterebbe ai margini di un processo del tutto nuovo.
L’altra incognita è presto descritta: Giorgio Napolitano non ce la fa a salvare la legislatura, deve sciogliere il Parlamento e indire le elezioni anticipate. Sarebbe una vera sciagura per i futuristi. Che difatti stanno già sgolandosi a dire che non le vogliono, mai e poi mai. Come ho ricordato, con la legge elettorale odierna se ne andrebbero a casa quasi tutti. Salvo nell’ipotesi fantascientifica di una coalizione a tre colori: rossa, bianca e nera. Un po’ troppi.
Esiste una prova di quel che ho detto. Molti sostengono che il Cavaliere stia pensando proprio al voto anticipato. Vorrebbe tirar fuori dal cassetto la vecchia bandiera di Forza Italia. Per poi spiegare al paese che l’Italia di oggi non ha bisogno di avventure, bensì di un governo del fare guidato da lui medesimo. E non è detto che non riesca a convincere la maggioranza degli elettori.
Già, l’Italia. Un paese che stenta a uscire dalla crisi economica e, meno che mai, dalla crisi sociale. Un paese spaventato dal grigiore che lo attende. Ancora inconsapevole che non potrà più vivere come è vissuto negli ultimi decenni, sempre al di sopra delle sue possibilità reali. Un paese che ha paura di perdere non soltanto il lavoro, ma pure i televisori al plasma, i cellulari di ultima generazione, l’internet a gogò, la droga di face-book, l’outlet ogni domenica, le crociere esotiche, l’università facile, il posto fisso, un miraggio purché non sia quello dell’infermiere, del badante, dell’idraulico. Un paese, infine, che aborre la severità, i doveri, il rigore, l’imperio delle regole e dell’onestà.
L’unico collante di questa Italia in frantumi è il disprezzo per la casta dei partiti. Lo sanno i nuovi futuristi? Penso di sì. Allo stesso modo sanno che, nel caso abbiano anche loro qualche panno sporco, prima o poi verrà fuori. Nel giro dei cronisti politici si dice che venerdì Fini non abbia voluto fare una conferenza stampa vera per timore di qualche domanda sull’appartamento di Montecarlo. Può darsi che non sia così. Ma un vecchio detto recita: a pensar male si fa peccato, però non si sbaglia quasi mai.
(di Giampaolo Pansa)

lunedì 2 agosto 2010

Bugiardo e illiberale, ecco il vero Fini


Dottor Pino Rauti, la rottura definitiva tra Berlusconi e Fini è arrivata. Era più sincero il Fini del «siamo alle comiche finali» o quello del congresso fondativo del Pdl?

«Fini non è mai sincero. Lo conosco da una vita e una delle sue caratteristiche è non dire mai sinceramente quello che pensa».

Addirittura?

«Ma certo. A Roma c’è un termine che chiarisce bene il concetto: “mortarolo”».

Tradotto?

«Fini è un liquidatore. Ha liquidato il Msi prima, ha liquidato An nel Pdl e adesso vorrebbe liquidare il Pdl».

Più «pars destruens» che «pars costruens»?

«Nella sua lunga carriera politica non c’è mai stata una fase costruttiva. Dopo 30 anni di attività politica... Bilancio inquietante».

Glielo riconosca: a fare il controcanto è bravissimo.

«Un maestro. Peccato che con i problemi che ha il Paese... E poi quando si sta in una stessa formazione politica si ha il dovere morale di trovare le cose su cui andare d’accordo».

Ma Fini lamenta la monarchia di Berlusconi. Gli dà del despota, dell’illiberale.

«Ah ah ah... Ma Fini nel suo partito quando mai è stato liberale? Ha sempre comandato a spada tratta. Ha sciabolato quando e come ha voluto e non s’è mai sottoposto a congressi degni di questo nome. Non è lui che può fare un’accusa di questo genere a Berlusconi».

Pensa alla gaffe della caffetteria e alla successiva decapitazione dei colonnelli?

«Certo ma non solo. È sempre stato così. Dovrei scrivere un libro per ricostruire molte pagine della storia del Msi».

Molti elettori del Pdl oggi chiamano Fini «compagno». Ha sfondato a sinistra. Cos’è, diventato rautiano?

«Quando dissi quella famose frase, “sfondamento a sinistra”, che fu al centro di un’accanita campagna d’attacco da parte di Fini, non intendevo sfondare a sinistra nel senso di diventare di sinistra».

Ma?

«Intendevo far sì che il Msi si facesse interprete di istanze sociali molto approfondite».

E Fini non lo sta facendo?

«Macché. Io avevo un progetto politico, quello di Fini qual è? Lui si compiace soltanto dell’applauso della sinistra che adesso lo apprezza soltanto per il suo antiberlusconismo».

Invece il rautismo sarebbe attuale?

«Proprio in questo periodo è uscito un libro sui super ricchi: un volume sul capitalismo che si interroga su se stesso. Una miniera di spunti interessanti per noi che eravamo anticapitalisti per storia e cultura. Ma non vedo discussioni su questo».

È vero che Berlusconi l’ha chiamata?

«No. Ma voglio incontrare Berlusconi a settembre per parlargli a lungo di Fini e delle sue vicende di allora: nell’Msi prima e in An poi. E poi vorrei stabilire un accordo con Berlusconi, in caso di elezioni».

Che fa? Scende in campo?

«Noi abbiamo una formazione politica che in qualche zona nel centrosud ha un peso e un ruolo».

Fini innalza la bandiera della legalità: in questo la convince?

«Poco. La vostra inchiesta sulla casa di Montecarlo è un’ombra pesante su Fini».

Ma lui dice: nel Pdl ci sono troppe mele marce.

«Quando si sta lealmente in un partito si collabora per buttar via le mele marce ma non si dà l’impressione, in ogni occasione, che nel partito tutto sia marcio».

Insomma, non la convince neppure su questo?

«Vede, quando si sta in un partito uno ci deve stare con un certo stile, con una certa educazione. E questo Fini non lo fa».

Perché lo zoccolo duro delle truppe finiane è composto da ex rautiani?

«Questo continua a sorprendermi. Li ricordo tutti, giovani, accanitamente rautiani e antifiniani. Viespoli, per esempio...».

Pasquale Viespoli?

«Lo ricordo ai campi Hobbit e quando prese a schiaffi Fini. Vederli adesso accanto a lui, nel momento in cui Fini non sostiene tesi neanche genericamente di destra beh... Questo mi sorprende molto».

Forse hanno debiti di riconoscenza.

«Beh, sì. In un certo senso sono usciti dall’isolamento ma soltanto perché Fini è capitato nella fase positiva dell’uscita dal ghetto, inserendosi tra le picconate di Cossiga e le manette di Di Pietro. E poi... Le posizioni di potere».

Altra rautianissima: Flavia Perina.

«L’ho vista crescere. Passavamo tutte le feste a casa Perina, alla Camilluccia. Flavia la tenevo sulle ginocchia. Com’era irrequieta... Ma con me stava buona perché la facevo giocare».

Fabio Granata?

«Pure lui rautiano accanito».

Silvano Moffa?

«Ora ha il ruolo del moderato ma non sempre nelle vecchie vicende lo fu. Ricordo quando lo mandai a sostituire come commissario Teodoro Buontempo che si era accordato con Fini sebbene eletto come rautiano al congresso provinciale di Roma. Moffa fece “accompagnare” Teodoro fuori dalla federazione con la sedia sotto il sedere».

Con Fini oggi stanno in 33.

«Ma deve solo temere di perdere qualche elemento. Difficilmente può sperare di guadagnarne».

L’elettore di centrodestra sostiene che Fini non è più lo stesso. Se n’è fatto una ragione?

«Forse s’è montato la testa. Può succedere in politica, specie quando si ricopre una carica importante. Sa, il potere inebria».