lunedì 11 ottobre 2010

Liberi davvero?


Mi chiedo, a volte, se in Italia e nelle democrazie europee esiste ancora la libertà di espressione. La comunità ebraica per una frase infelice, ma non più che infelice, sulla kippah detta in Senato dall'onorevole del Pdl Ciarrapico – che ben più sostanziali magagne ha sul groppone – ne ha chiesto l'espulsione dal Parlamento. Daniele Nahum, presidente dei Giovani ebrei italiani, ha dichiarato: “L'espulsione è un atto dovuto perché in quelle parole sono intesi comportamenti antisemiti che devono essere puniti” (ci si è dimenticati che un parlamentare è irresponsabile per ciò che dice nell'esercizio delle sue funzioni). Il pm di Varese ha incriminato 22 giovani, che nel 2007 avevano festeggiato, in una birreria di Buguggiate, il compleanno di Hitler e intonato cori nazisti, “per incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi etnici e razziali”

La Digos ha poi seguito questi ragazzi e ha potuto appurare che non fanno parte di nessuna organizzazione e che non hanno commesso, né in quella occasione né in altre, alcun atto di violenza per cui è caduta l'imputazione di "ricostituzione del partito nazista". Sono stati incriminati quindi solo per aver espresso il loro credo politico, in base alla "legge Mancino". Se fosse viva, Oriana Fallaci sarebbe sotto processo in Francia “per incitamento all'odio razziale”, a causa dei suoi pamphlet antislamici. Sotto processo ad Amsterdam è Geert Wilders, il deputato anti-islam che alle recenti elezioni ha ottenuto un milione e mezzo di voti, per aver paragonato il Corano al Mein Kampf. In Francia è proibito indossare il burqa nei luoghi pubblici in nome della laicità dello Stato. In Italia è proibito con l'escamotage che il viso deve essere scoperto (e allora proibiamo anche i caschi da moto sotto cui si mascherano spesso i killer, mentre una donna in burqa è molto meno insidiosa proprio per l'evidenza del suo vestire).

Nelle democrazie baltiche è punita "l'apologia del comunismo". A Vienna lo storico inglese David Irving si è fatto due anni di carcere perché nei suoi libri ridimensiona le cifre dell'Olocausto (sia chiaro che, per quanto mi riguarda, questi macabri conteggi sono totalmente privi di senso, l'orrore non cambierebbe di un ette se gli ebrei sterminati fossero 4 milioni invece di 6 e nemmeno se un solo bambino ebreo o palestinese o malgascio fosse stato o fosse ucciso solo perché ebreo o palestinese o malgascio). Una democrazia, se è tale, deve accettare tutte le opinioni anche quelle anti-democratiche o che paiono più aberranti. È il prezzo che paga a se stessa e che la distingue dai regimi totalitari. L'unico discrimine è che nessuna idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza.

L'odio, anche razziale, è un sentimento e non si possono mettere le manette ai sentimenti. Io ho diritto di odiare chi mi pare. Ma se gli torco anche un solo capello devo andare in gattabuia. Se in una democrazia, pur con le migliori intenzioni, si limita, anche solo parzialmente, la libertà di espressione su cui si basa si sa da dove si comincia ma non dove si va a finire. Non per nulla il più deciso avversario della legge Scelba, che puniva come reato "la ricostituzione del partito fascista", fu Togliatti che, da quell'uomo intelligente che era, capiva benissimo che si inizia con i fascisti e si finisce con i comunisti. Oggi si puniscono le espressioni razziste, anti-semite, anti-islamiche e in tal modo si è imboccata, in Italia, una strada scivolosa per cui domani potrebbero essere considerati reati manifestazioni di anti-americanismo, di anti-nazionalismo, il parteggiare per i talebani e così via. La "legge Mancino", diciamo le cose come stanno, è una legge liberticida, degna di un regime fascista.

(di Massimo Fini)

domenica 10 ottobre 2010

Dossieraggi killeraggi pompieraggi


Che cosa ho imparato nei primi anni di giornalismo? Alla Stampa, al Giorno e al Corriere della sera, mi hanno insegnato che l’inchiesta è il top della professione, la prova di eccellenza, il traguardo glorioso di un cronista. A Repubblica la pensava nello stesso modo Eugenio Scalfari. Del resto lui veniva da anni di Espresso. E con Lino Jannuzzi aveva scritto un’indagine rimasta famosa contro il Piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo.

Piero Ottone, direttore del Corriere della sera, amava molto le inchieste. Ne ricordo una che scrissi per lui, insieme a Gaetano Scardocchia. Era il febbraio 1976 quando emerse lo scandalo Lockheed, la grande azienda americana che fabbricava aerei. La Lockheed era sospettata di aver pagato tangenti a politici italiani per facilitare la vendita dei suoi Hercules C 130, destinati all’aeronautica militare.

Vedo dai miei taccuini che Scardocchia e io pubblicammo sul Corriere ben tredici articoli, un numero insolito per l’epoca, tirando in ballo eccellenze della politica e dell’industria. Le reazioni furono tante.

non escludo che nella nostra indagine ci fossero errori. Ma nessuno ci accusò di aver fatto del dossieraggio. O di aver tentato di uccidere moralmente questo o quel big.

Oggi qualunque inchiesta giornalistica sfiori un potente diventa subito un dossier. E gli autori dell’indagine vengono bollati come killer che sparano parole micidiali quanto le pallottole. Siamo dunque arrivati al dossieraggio e al killeraggio.

Il lancio della nuova moda è merito soprattutto di Italo Bocchino, il numero uno delle teste di cuoio di Gianfranco Fini. Qualunque leader politico vorrebbe avere uno scudiero come lui. Bocchino ha imparato meglio di tutti una vecchia lezione mediologica: il mezzo è il messaggio. Se ripeti all’infinito, su tutti i media, che l’uovo di Cristoforo Colombo era di gesso, qualcuno finirà per crederci.

Dopo cinquant’anni di giornalismo, posso permettermi di ridere delle trovate di Bocchino. Pensando che anche lui, come tutti i ras della casta partitica, preferisca il pompieraggio. Ossia l’arte di spegnere con getti d’acqua gelida qualsiasi notizia in grado di infastidire un leader. E al tempo stesso pomparne l’immagine illibata, priva di macchie. È quanto è stato tentato per Gianfranco Fini e per la storiaccia della casa di Montecarlo, del cognato intraprendente, dei favori ottenuti dalla Rai.

Ma Il Giornale di Vittorio Feltri e Libero di Maurizio Belpietro sono andati avanti per la loro strada. Suscitando la desolata irritazione dei media che da sempre combattono Silvio Berlusconi con le stesse armi. Ossia con campagne giornalistiche protratte per settimane e settimane, senza andare per il sottile. Anche in questo caso è prevalsa la nevrosi anti-Cav. Se l’obiettivo è il maledetto Berlusca, tutto è lecito. Se invece sotto tiro stanno gli oppositori del premier, allora devono entrare in scena i pompieri.

Ho spiegato più volte che del Cavaliere non m’importa nulla. Non l’ho mai votato, né l’ho mai frequentato. La stessa indifferenza ho per il presidente della Confindustria, la signora Emma Marcegaglia. Adesso nel mirino del Giornale e di Libero c’è lei, per aver dichiarato al pubblico ministero napoletano di sentirsi minacciata dal quotidiano di Feltri e di Alessandro Sallusti. Per di più a causa di articoli mai pubblicati, però pubblicabili. Avallando in questo modo un’indagine pesante sul comportamento del vertice del Giornale, Sallusti e Nicola Porro.

Sono convinto che l’inchiesta giudiziaria si rivelerà una bolla di sapone. Ma posso anche sbagliarmi. Un antico detto cinese sostiene che la giustizia è come un timone: dove lo giri, la barca va da una parte o dall’altra. Sull’affare Marcegaglia esistono però un paio di certezze.

La prima riguarda il comportamento della signora Emma. Fare il presidente di Confindustria è un mestiere simile a quello del leader di partito. Palmiro Togliatti sosteneva che, per fare politica, fosse necessario avere la pelle del rinoceronte. Vale a dire essere insensibile ai colpi degli avversari. Ho fatto in tempo a conoscere Angelo Costa, l’armatore genovese per due volte capo di Confindustria. Era un vero duro, classe 1901, e non sarebbe mai andato a lamentarsi con un altro padrone dei problemi che gli potevano venire da un giornale.

La potente signora Marcegaglia, invece, si è comportata come Winston Churchill, senza esserlo. Lui diceva: «Parlo soltanto con le proprietà dei giornali, mai con i direttori e i giornalisti». Emma si è condotta così, telefonando a Fedele Confalonieri, che sta nel consiglio d’amministrazione del Giornale. Senza rendersi conto di maneggiare un boomerang. E di mettersi al centro della scena. Un palco ruvido perché non privo di problemi per la sua azienda.

Lei temeva un dossier e l’ha avuto subito. Prima ancora che dal Giornale e da Libero, da una testata della sponda opposta. È Il Fatto Quotidiano che, con un giorno d’anticipo, ha pubblicato lo scabro articolo di un bravo giornalista economico, Vittorio Malagutti. Intitolato “Quanti guai per l’azienda di Emma la zarina”.

Morale della favola? In tempi di politica debole e confusa, i giornali è meglio lasciarli stare. Stampare notizie sgradite ai potenti è sempre stato il loro compito. Del resto il clima cattivo, denunciato per primo dal “Bestiario”, non è colpa della stampa. Bensì dei violenti che la minacciano di continuo, anche nelle persone dei giornalisti. Come è accaduto, sta accadendo e seguiterà ad accadere.

(di Giampaolo Pansa)

Il cenacolo rossonero


C’era una volta un cenacolo sorprendente di intellettuali che venivano dai totalitarismi ideologici del Novecento, su fronti opposti, ma decisero di incontrarsi. Dialogavano quelli della nuova destra e di una sinistra, anch’essa in parte nuova. Nei primi anni Ottanta, e nel nome di Céline e di Benn, di Schmitt e di Heidegger, di Nietzsche e di Jünger, intellettuali come Massimo Cacciari, Giacomo Marramao e Francesco Masini (da sinistra) e Marco Tarchi, Monica Centanni, Gianfranco De Turris (da destra) allestivano prove di conversazione, in riviste come Diorama letterario o come l’effimera Omnibus. Tutto questo faceva scandalo, perché a sinistra prevaleva l’idea che una cultura di destra non ci fosse, o che fosse comunque inservibile.

Oggi, alcuni dei protagonisti di quel dialogo li ritroviamo tra i promotori del “manifesto di ottobre”, definizione che ha a sua volta una storia (e che storia: così si chiamava il provvedimento con il quale, nell’ottobre del 1905, lo zar Nicola II concedeva Costituzione e Parlamento ai russi). Nella versione odierna, che sarà presentata a Milano il 25 ottobre, indica il “progetto per l’Italia contemporanea” che vuole “sfruttare il varco che si è aperto con Futuro e libertà”, in una fase di “sommovimento geologico delle ideologie”, come ha scritto ieri sul Secolo d’Italia Peppe Nanni. Uno dei massimi officianti, con lo stato maggiore della fondazione FareFuturo e con Libertiamo di Benedetto Della Vedova, del laboratorio cultural-politico che ingaggia Franco Cardini e Massimo Cacciari, Angelo Mellone e Giacomo Marramao, Fabio Granata e Franco La Cecla, Flavia Perina e Gianni Borgna. Tutti, di nuovo, apparentati dalla conclamata volontà di “rompere gli steccati”. Ambizione che ha una storia, come si diceva all’inizio. Ma ora che storia è diventata? Se negli anni Ottanta il problema era uscire dalla Guerra fredda, oggi dove va a parare il trasversalismo del “manifesto di ottobre”? E il Cacciari che dialogava ieri con Tarchi su Heidegger è davvero lo stesso che oggi si augura di poter votare Montezemolo?

Marcello Veneziani, ormai lontano da Gianfranco Fini e sempre più convinto che “la destra sia diventata una sinistra in ritardo”, dice al Foglio che c’è “totale estraneità tra processi culturali e la leadership di Fini. C’è invece l’intelligenza di alcuni esponenti a lui vicini, che cercano di dare caratteristiche culturali a un’operazione finiana nata per ragioni tattico-personali. Detto questo, il dialogo è sempre positivo. Personalmente, con Cacciari e Marramao non l’ho mai interrotto. Ma si vuol far scendere nella politica un dibattito che fino a ieri riguardava idee metapolitiche, se non impolitiche. E’ una forzatura, tatticamente conveniente”. Da sinistra, lo storico Luciano Canfora osserva “che i partiti tradizionali si sono disfatti tra l’89 e il ’93, e non c’è ancora un nuovo assetto, tanto che all’interno dei partiti attuali ci sono grandissime difformità di pensiero. Altrove – in Germania, in Francia, in Gran Bretagna – il quadro è stabile, da noi no. Vuol dire che eravamo ‘acerbi’ o che siamo molto avanti o molto indietro? Non lo so. So che le iniziative come quella di cui stiamo parlando sono frutto di questi riassestamenti. Se sono utili? E’ difficile dirlo. Gli intellettuali sono un po’ come gli abitanti delle Isole dei beati descritte da Diodoro Siculo: elastici e capaci di parlare contemporaneamente con due lingue e con due diversi interlocutori”.

Gianfraco De Turris, studioso di Evola e partecipe della prima stagione di dialogo con alcuni intellettuali di sinistra, boccia l’iniziativa del “manifesto di ottobre”, e si stupisce di trovarvi coinvolti da protagonisti “Centanni e Nanni, già esponenti della nuova destra tarchiana. Il dialogo destra-sinistra con persone intelligenti va sempre bene. Ma ai tempi era iniziativa privata, fatta a dispetto dell’ostilità dei partiti di appartenenza, ora è qualcosa a supporto di una nuova forza politica. Qualcosa di confuso, gestito da persone (parlo di chi arriva da An) che hanno cambiato idea alcune migliaia di volte”. Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, ricorda che l’epoca Tarchi-Cacciari “era quella del ponte tra due blocchi di granito. Ora, per dirla con Bauman, le identità sono liquefatte. E la forma scelta per l’iniziativa, il manifesto e l’appello, profuma di novecentesco e di ‘rive gauche’. Ricordiamo che c’è stata molta ‘rive gauche’ anche a destra, come spiega un famoso saggio di Lottman, che racconta come in periodi presartriani l’egemonia culturale, in Francia, era di destra. ‘Gringoire’, settimanale di destra con simpatie antisemite, vendeva trecentomila copie”. Oggi, nota Battista, “si è sgretolata definitivamente la vecchia identità culturale della destra, a vantaggio di icone liberaldemocratiche come Arendt, Furet, Aron. Poi c’è stata la corsa alle icone della sinistra: non più Flaiano ma Saviano”. E’ la “pietra tombale del passatismo che fu centrale nell’identità missina e ora diventa odiosa alla meglio gioventú finiana”, come ha scritto Alessandro Giuli nel suo pamphlet sulla destra postfascista (“Il passo delle oche”, Einaudi).

Per Marco Tarchi, il “manifesto di ottobre” è, “nel migliore dei casi, una buona operazione di marketing. In tutti questi anni non ho visto nessun nuovo progetto di società delinearsi attraverso Charta minuta o FareFuturo. Penso allo scioglimento di An, con fuochi d’artificio esilaranti, in cui si citava tutto e il contrario di tutto. Il che significa che dietro non c’era nulla, salvo il desiderio di accreditarsi come classe dirigente candidata a scalzare quella di Forza Italia. L’opportunismo in politica serve, ma se c’è identità. Negli anni Ottanta, il dialogo era un tentativo di verificare se ci si poteva riconoscere fratelli su alcuni punti, scorticando le identità ideologiche e vedendo se fosse possibile convergere sull’essenziale. I ‘patroni’ ideali di quell’operazione erano gli autori di culto di una parte, diventati autori di studio dell’altra. Tutto questo avveniva in funzione totalmente alternativa al pensiero liberale, al mercantilismo, all’individualismo, all’occidentalismo. Fa tristezza vedere persone che prefiguravano con toni arditistici il superamento dell’esperienza liberale del Novecento ritagliarsi una nicchia nel politicamente corretto, in tutto quello che fa spettacolo, nell’idea che l’italianità è la Ferrari”.

(di Nicoletta Tiliacos)

Nessun mito è stato più fasullo e strumentale di quello di John Fitzgerald Kennedy


Alimentato, abilmente, dal progressismo europeo prima e poi dalla sinistra post-comunista, ha retto fino a quando uno scandaglio critico delle sue idee e dei suoi comportamenti non ha portato alla luce contraddizioni stridenti con la rappresentazione che da parte di taluni ambienti liberal ne è stata fatta, fino a consegnarlo, a cinquant'anni dalla sua elezione alla Casa Bianca, come icona mondiale a chi nel frattempo si è perduto tra le rovine delle vecchie ideologie.

Ogni riferimento all'orticello politico-culturale di casa nostra è tutt'altro che casuale, naturalmente. Sta di fatto che JFK era altra cosa rispetto a come lo si è descritto da parte di una pubblicistica compiacente che in lui ha visto il carismatico promotore di una "nuova frontiera" che era senz'altro una buona intenzione, ma sostanzialmente non ha mai preso corpo nei tre anni di presidenza ed ancor più non ha mostrato segni rimarchevoli nella lunga presenza al Congresso del giovane ed ambizioso politico. Piuttosto affiorano, come nella biografia, suggestiva ed apertamente controcorrente, che gli dedica Lanfranco Palazzolo, «Kennedy shock» (Kaos edizioni, pp.185, 18,00 euro), atteggiamenti politici ed orientamenti ideologici che non sono certo compatibili con l'immagine che è stata fabbricata su misura dopo l'assassinio a Dallas che sconcertò il mondo.

Bisogna pur dire, infatti, che Kennedy era un politico realista, scaltro, libero dai pregiudizi ideologici e soprattutto consapevole della minaccia comunista contro l'Occidente. Le sue tesi in proposito non lasciano dubbio alcuno sulla sua riprovazione delle politiche sovietiche e del pericolo rappresentato dal castrismo nascente. Fu il protagonista occulto dell'invasione della Baia dei porci a Cuba nel 1961; ordinò il primo bombardamento nel 1962 di un villaggio di civili in Vietnam, conscio che quella guerra era "necessaria" per fermare la comunistizzazione del Sud-Est asiatico; decretò il blocco navale dell'isola dove spadroneggiava Fidel Castro; avallò, un mese prima di morire, il colpo di Stato militare che destituì a Saigon il cattolico Ngo Dinh Diem, ucciso all'indomani dagli insorti.

Il "bellicismo", comunque, non ebbe bisogno di entrare nello studio ovale per scoprirlo. Fin dal 1940 aveva valutato la necessità dell'uso della forza teorizzandola in un libro che i progressiti non citano mai, «Perché l'Inghilterrà dormì», un duro atto d'accusa alla politica militare britannica di fronte al nazismo, che venne pubblicato in Italia, guarda un po', dalle edizioni del Borghese, le stesse che proposero, per iniziativa di un grande intellettuale, Henry Furst, «Ritratti del coraggio», scritto nel 1956, nel quale JFK analizzava le biografie politiche di otto senatori americani additati come esempi di coraggio intellettuale e politico in quanto assunsero posizioni in dissenso dal loro partito e dai loro elettori. Tra i "biografati" c'imbattiamo nel senatore Robert A. Taft, noto per essersi scagliato contro il processo di Norimberga. Ritratti del coraggio è una sorta di "manifesto" conservatore, apprezzato all'epoca anche da Barry Goldwater e dall'establishment repubblicano, mentre venne valutato con diffidenza in ambienti democratici che non si fidavano del giovane politico che ancora nel 1957 si rifiutava di prendere una posizione netta contro la segregazione razziale. Ma anche sul maccartismo fu ambiguo, al punto di non votare la mozione di sfiducia contro il senatore McCarthy, promotore di una virulenta campagna anticomunista.

Kennedy, insomma, non è quello che ci è stato raccontato. A prescindere anche dalla sua vita privata. La sua personalità complessa, come fa intendere Palazzolo, è attraversata da luci e da ombre. Averne fatto un mito liberal non rende giustizia alle sue idee. Osiamo ritenere che se fosse vissuto oggi, il suo campo non sarebbe stato neppure quello democratico nel quale si trovò, con ogni probabilità, per puro opportunismo. Ciò, naturalmente, nulla toglie alla sua non indifferente statura politica.

(di Gennaro Malgieri)

sabato 9 ottobre 2010

L'ultimo messaggio su Fb: "Meglio morire in piedi che vivere una vita strisciando"


Il militare italiano, morto questa mattina in Afghanistan aveva compiuto 32 anni il 24 settembre scorso e sulla bacheca del social network in tanti gli avevano fatto gli auguri e dato appuntamento per il suo ritorno in Sardegna.
"Houston.... ti ho lavato la macchina - gli aveva scritto, invece, scherzosamente la sorella Antonella qualche giorno fa - almeno non me lo chiedi più, la prossima lavata quando torni". Orfano di padre, il caporal maggiore Gianmarco Manca aveva preso il diploma di geometra ad Alghero. Dopo la morte del genitore, un maresciallo dell'Aeronautica scomparso nel 2003 in un incidente, Gianmarco si era arruolato.
Effettivo al 7/o Reggimento alpini di Belluno, Gianmarco lascia la mamma Pierina Cuccuru e la sorella Antonella. Questa mattina le due donne hanno appreso la notizia nella casa di viale della Resistenza ad Alghero dallo stesso Comando degli alpini.
Davanti alla casa di famiglia si sono radunati parenti e amici per portare cordoglio ai parenti. Il caporal maggiore era alla sua quarta missione all'estero. Prima della partenza per l'Afghanistan la mamma Pierina aveva cercato di convincerlo a desistere perché temeva per la sorte del figlio.
"Mia madre non voleva che partisse - ha detto stamattina la sorella Antonella ai giornalisti - ma Gianmarco le aveva detto: mamma io i miei colleghi soli non li lascio, loro sono la mia famiglia. Erano dei ragazzi meravigliosi - ha aggiunto Antonella Manca - erano alla quarta missione insieme, non si sentivano degli eroi. Gianmarco diceva che era un lavoro come un altro, mio fratello è morto facendo il suo lavoro. Voleva ottenere l'avvicinamento in Sardegna per stare vicino a mia madre e a me - ha concluso la sorella - l'ultima cosa che ci siamo detti qualche giorno fa è stato l'appuntamento all'aeroporto di Alghero dove sarebbe arrivato in mimetica come sempre".

In Afghanistan è strage: uccisi quattro alpini vicino a Farah


Un'esplosione e, poi, uno scontro a fuoco. E' stato un attacco "combinato" quello che oggi, in Afghanistan, ha ucciso quattro alpini del settimo reggimento di Belluno, arrivato in Afghanistan due mesi fa. Un loro commilitone è rimasto ferito in modo grave, «ma è cosciente e non è in pericolo di vita», assicurano al comando del contingente italiano.

L'agguato

Dal 2004, quando è cominciata la missione Isaf, le vittime italiane salgono così a 33. I fatti si sono verificati alle 9.45 locali, nel distretto di Gulistan, a circa 200 chilometri a est di Farah, al confine con l’Helmand. I militari italiani, a bordo di blindati Lince, stavano svolgendo un servizio di scorta a un convoglio di 70 camion civili che rientravano verso ovest dopo aver trasportato materiali per l’allestimento della base operativa avanzata di Gulistan, denominata "Ice". All’improvviso l’esplosione, violentissima. Uno "Ied", vale a dire un ordigno rudimentale di grande potenza, è esploso al passaggio di un blindato, distruggendolo. Per quattro dei cinque alpini a bordo non c’è stato niente da fare.

Le vittime

Nell'attacco hanno perso la vita Sebastiano Ville ( 27 anni, di Francofonte, nel Siracusano), Marco Pedone (23 anni, della provincia di Lecce), Gianmarco Manca (32enne di Alghero) e Francesco Vannozzi (26 anni, di Pisa). Dopo lo scoppio è seguito un violento scontro a fuoco, al termine del quale i militari italiani, come riferiscono al comando di Herat, hanno «messo in fuga gli aggressori». Il convoglio era già stato attaccato ieri con armi leggere. Era sto colpito un mezzo americano. Il ferito - con lesioni di vario tipo alle gambe - è stato immediatamente evacuato con elicotteri di Isaf. Si chiama Luca Cornacchia, 28 anni, di Pescina (L’Aquila): «E' cosciente e ha risposto agli stimoli», viene sottolineato. Attualmente si trova ricoverato all’ospedale militare da campo di Delaram ed ha telefonato alla moglie per aggiornarla sulle sue condizioni.

giovedì 7 ottobre 2010

Pansa: ecco perché non credo alla scommessa di Berlusconi


«Non ho mai minacciato le elezioni, sono sempre stato convinto che fossero un guaio». Con queste parole Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa di ieri sera a Palazzo Chigi, ha voluto allontanare nuovamente lo spettro del voto anticipato, rilanciando i “cinque punti” appena presentati alle Camere. La strada che porta alle urne, ha spiegato il premier, non è “agevole”, anche perché un governo tecnico non è poi così difficile da realizzare. Non resta che concentrarsi sulle riforme, quindi, prendendo per buono l’impegno dei finiani a sostenere lealmente il governo e il suo programma.

«Il Cavaliere sembra davvero intenzionato ad affrontare un’impresa titanica - dice Giampaolo Pansa a Il Sussidiario.net. Ma il governo rispetterà gli impegni presi? Realizzerà quello che non ha ancora saputo realizzare? Ho paura che questa volta il proverbiale entusiasmo di Berlusconi potrebbe non bastare».

Ci spieghi meglio.

«Sarà una diagnosi banale, ma è chiaro a tutti che Fini ormai gioca in un’altra squadra, sta costruendo un nuovo partito ed è intenzionato a continuare la guerriglia. Nei fatti non è più parte della maggioranza che sostiene il governo. E, visto che la matematica ci dice che il Cavaliere ha potuto incassare la fiducia solo grazie ai voti di Futuro e Libertà, la conclusione è una sola».

Quale?

«Questa legislatura non può durare fino al 2013 e forse nemmeno fino al 2011. Pensare che il nuovo soggetto politico finiano possa fare da “terza gamba” al governo Berlusconi mi sembra davvero fantapolitica».

Gli impegni presi, secondo lei, vanno al di là di ciò che si riuscirà a realizzare?

«I punti che Berlusconi ha illustrato in Parlamento sono le cinque piaghe croniche del Paese. Prendiamone soltanto una: la giustizia. Da quanto tempo auspichiamo che venga risolto questo vero e proprio dramma che travolge soprattutto l’italiano senza potere, il cosiddetto “uomo della strada”. Siamo rimasti in pochi a non confondere Berlusconi né col Diavolo né col Padreterno e posso dire di aver ascoltato il Presidente del Consiglio senza pregiudizi. Le intenzioni mi sembrano buone, ma con “tre gambe” non si va lontano».

Ma come si spiega questo immobilismo, questa immensa difficoltà nel riformare il Paese vincendo i conservatorismi e i veti incrociati?

«A mio parere è il sistema dei partiti a essere andato in tilt, tant’è che centrodestra e centrosinistra sono andati in crisi soltanto per dissidi interni. In secondo luogo, è in atto una “lotta tra bande” che distrugge tutto. Se anche l’avversario ne combina una giusta l’importante è demolire».

Sono segnali che preannunciano la fine del bipolarismo?

«In parte è già finito, anche se mi sembra un destino fatale da cui non riusciamo a liberarci. Forse in un momento così complicato, a causa della crisi economica e sociale, resta la strada migliore. Perciò dico che il bipolarismo è malato e bisognerebbe curarlo perché chi vuole il ritorno del proporzionale potrebbe addirittura peggiorare le cose».

Se non crede al rilancio dell’azione del governo cosa sarebbe meglio augurarsi?

«Sono stato tra i primi, assieme al direttore del Tg1 Augusto Minzolini, a sostenere che non ci sono strade alternative al voto perché il quadro politico è compromesso. Basta un banale incidente per ritrovarci in un attimo alle urne. La stessa Lega non mi sembra intenzionata ad aspettare e potrebbe essere il vero detonatore delle nuove elezioni».

Lei era stato anche uno dei primi a denunciare un clima che si stava facendo sempre più pesante…

«È vero, sono stato il primo a ricordare a tutti gli “Anni di piombo” e, nonostante le ironie, sono convinto di non avere esagerato. Da giornalista ho seguito da vicino la stagione del terrorismo. Tante cose ovviamente sono diverse, anche perché sono passati 40 anni. Se però si torna con la mente all’“alba” delle Brigate Rosse si potrà ritrovare una “caccia all’uomo” che a mio parere è ancora in corso».

A cosa si riferisce?

«Le intimidazioni alla Cisl, l’agguato a Maurizio Belpietro e parecchi altri episodi inquietanti che si stanno ripetendo con una certa regolarità. Nel caso del direttore di Libero devo dire che, purtroppo, non ho visto una solidarietà sincera e incondizionata. Lo sento spessissimo e da tempo mi racconta minacce ed episodi che non posso riferirle. Devo ritenermi fortunato, perché in un certo senso sono “fuori dal mondo”. Quello che accade a lui, sono convinto che riguardi anche Vittorio Feltri e Mario Sechi. Il nostro è un Paese che si sta distruggendo con le proprie mani, anche grazie alla faziosità politica che secerne tutte le mattine attraverso alcuni giornali».

Ma se davvero ci ritrovassimo improvvisamente in campagna elettorale questo clima non potrebbe addirittura degenerare?

«Una campagna elettorale dura 45 giorni, sarebbe certamente violenta, ma, si spera, soltanto a parole. Se però siamo arrivati al punto di aver paura delle elezioni significa che siamo davvero finiti. Se è così meglio chiudere bottega, Montecitorio e Palazzo Madama...».

mercoledì 6 ottobre 2010

Il sobrio orgoglio di essere "destri"


Che schifo, è di destra. Sono pochi a definirsi di destra ma il disprezzo per la destra è ancora forte, nota Giuliano Ferrara. Lo sappiamo, lo sappiamo. Questa legge del disprezzo vige in tutto l’Occidente, nota Ferrara; ma in Italia ancor di più. Tre cose da noi conducono al disprezzo o alla morte civile: avere opinioni contrarie al politicamente corretto e magari in sintonia con il buon senso comune, preferendo i valori tradizionali, civili e religiosi; avere un giudizio diverso sul fascismo e sull’antifascismo, ma anche sul comunismo, rispetto al canone dominante; preferire Berlusconi ai suoi avversari o ex alleati. Quest’ultima pesa di più di tutte, anche se è la meno legata ad un’identità di destra e la più contingente. Si veda, a conferma, il caso Fini&finiani: il loro recente neofascismo viene ripulito dal loro neo-antiberlusconismo. Se il fascismo è il male assoluto, il berlusconismo è il male due volte assoluto, oltre che dissoluto.

Il disprezzo verso la destra si articola in due modi: è gridato se il personaggio è più esposto in vetrina, è al potere o è più grossolano; è taciuto, per simulare la sua inesistenza, se il personaggio è meno vistoso e più sobrio, e magari pure colto. Il primo è manganellato, il secondo è cancellato.
Nonostante il livore aggiuntivo verso chi tradisce la sinistra, il disprezzo verso gli ex è dimezzato: penso a Oriana Fallaci, a Pansa, allo stesso Ferrara. Con loro c’è un minimo di colloquio, si possono citare. Gli altri no, damnatio memoriae anche da vivi: sepoltura in piena attività o vituperio urlato a mezzo stampa. Nel caso della destra grossolana che commette vistose gaffe, ci sono episodi grotteschi. Prendete Ciarrapico: socio in affari per anni della sinistra editoriale, viene ora massacrato per un’infelice battuta e ribollato come fascistone. Vorrei ricordare una cosa: quando la sinistra tifava per gli arabi e i palestinesi contro Israele, il grossolano Ciarrapico pubblicava in difesa d’Israele un libro del leader ebreo Begin La rivolta e fu Israele. Che volete, le battute valgono più delle opere. Ma torniamo al tema serio.

Chi da destra denuncia il disprezzo viene accusato anche dai cosìddetti terzisti di vittimismo. Prendi le botte e zitto, non far la vittima. Mazziato e cornuto.

Il disprezzo verso la destra è cagionato da tre agenti: una sinistra settaria e velenosa che propaga ribrezzo etnico, antropologico, per quelli di destra; l’inevitabile presenza a destra di personaggi screditati, ma questo accade quando si è in tanti e quando si va al governo; e il complice, connivente, disprezzino dei cosiddetti indipendenti, terzisti veri e presunti, a volte persino centrodestrorsi vaghi, snob o vigliacchetti. È lì che nasce la barriera del disprezzo. I suddetti a volte usano il disprezzino verso la destra come alibi per poter poi criticare la sinistra, facendosi così una polizza contro rischi. Ci sono ballerini in punta di piedi che bilanciano ogni critica a sinistra con uno sputino gentile a destra, per mostrare che loro sono in perfetto equilibrio, personcine ammodo. Per la destra colta si adeguano alla legge non scritta del potere intellettuale: morte civile. Dei tre agenti di disprezzo, questo è forse il più nocivo.

Potrei ancora aggiungere che dire destra, in effetti, è dire poco: le destre sono tante e spesso tra loro si detestano o s’ignorano. Le destre presunte o implicite sono assai più di quelle che si dichiarano tali. Ci sono almeno tre destre: la destra liberale, un po’ conservatrice sul piano dei valori, liberista in economia, anticomunista e garantista; la destra della tradizione, con significative varianti cattoliche o ribelli; la nuova destra, sociale e comunitaria, critica verso il dominio del mercato e il modello consumista. Il tratto comune delle destre è oggi il richiamo alla sovranità popolare, la preferenza per una democrazia decisionista e un amor patrio territoriale e reale piuttosto che il patriottismo costituzionale. Fini sta alla destra come la posa dell’orzo sta al caffè.

Tre destre hard ribollono nei fondali del basic instinct: la destra reazionaria, rivolta al rimpianto del passato remoto; la destra neofascista, nostalgica del passato novecentesco; la destra autoritaria, che esige legge e ordine e a casa gli immigrati. L’operazione mediatica del disprezzo riduce le destre presenti a quelle hard: sarebbe come ridurre la sinistra presente a brigate rosse, stalinismo e mao-polpottismo. Il basic istinct è sempre feroce, e cova a destra come a sinistra. Ma se fai paragoni, ti dicono che soffri di nevrosi.

Sul piano dei fatti resta vero che, alla fine, la cosiddetta destra ha commesso meno errori in campo e in teoria della cosiddetta sinistra, ha saputo cogliere meglio la realtà e dar voce ai popoli, ha più aiutato lo sviluppo ed è stata più efficace, ha saputo meglio temperare libertà e tradizione, libertà e sicurezza, e ha meno vessato, perseguitato, oppresso i cittadini. E la destra culturale si è resa meno complice di intolleranze, totalitarismi vigenti e pericolose utopie, rispetto alla sinistra culturale. La destra ha generato sicuramente meno intellettuali, ma ha prodotto meno cattivi maestri e più grandi maestri (che sono rarità ma svettano nel Novecento).

So che dire destra significa poco e produce troppi malintesi, e io parlo di destra come di una definizione che riguarda più il mio passato che il presente e il futuro. Ma davanti al disprezzo ideologico e razziale verso chi è di destra, lasciate che vi esorti alla sobria fierezza di essere e dirsi di destra.

(di Marcello Veneziani)