giovedì 2 febbraio 2012

Il capitalismo liberale contro la sovranità popolare


Oggi non sono più molti gli uomini di sinistra disposti ad accusare la democrazia di essere una procedura di classe inventata dalla borghesia per disarmare e addomesticare il proletariato, come sosteneva Karl Marx, né gli uomini di destra disposti a sostenere, così come facevano i controrivoluzionari, che essa si riduce alla “legge del numero” e al “regno degli incompetenti” (senza peraltro mai essere capaci di dire esattamente che cosa desidererebbero mettere al suo posto). Fatte salve le rare eccezioni, ai nostri giorni la contrapposizione non è più tra sostenitori e avversari della democrazia, ma esclusivamente tra suoi sostenitori, in nome dei diversi modi di concepirla.

La democrazia non mira a determinare la verità. È soltanto il regime che fa risiedere la legittimità politica nel potere sovrano del popolo. Il che implica prima di tutto che esista un popolo. Nel senso politico del termine, un popolo si definisce come una comunità di cittadini dotati politicamente delle medesime capacità e legati da una regola comune all’interno di un determinato spazio pubblico. Fondandosi sul popolo, la democrazia è inoltre il regime che consente a tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica, che afferma che essi sono tutti chiamati ad occuparsi degli affari comuni. Spingiamoci un po’ oltre: essa non si limita a proclamare il potere (kratos) del pubblico, ma ha la vocazione a mettere il popolo al potere, a permettere al popolo di esercitare in prima persona il potere.

L’homo democraticus non è un individuo, ma un cittadino. La democrazia greca fu sin dall’inizio una democrazia di cittadini (politai), cioè una democrazia comunitaria, non una società di individui, cioè di esseri singoli (idiotai, “idioti” nel senso proprio della parola). Individualismo e democrazia sono, da questo punto di vista, originariamente incompatibili. La democrazia richiama uno spazio pubblico di deliberazione e di decisione, che è anche uno spazio di educazione comunitaria per l’uomo, considerato per natura un essere politico e sociale. Infine, quando si dice che la democrazia consente al maggior numero di persone di partecipare agli affari pubblici, si deve tenere a mente che, in tutte le società, quel maggior numero comprende sempre una maggioranza di cittadini appartenenti alle classi più modeste. Da questo punto di vista, una politica veramente democratica deve essere considerata, se non come quella che fa prevalere gli interessi dei più poveri, almeno come un “correttivo al potere del denaro”, come ha scritto Costanzo Preve.

Tuttavia, più si è imposta, più la democrazia si è snaturata. Prova ne sia che il “popolo sovrano” è ormai il primo a prenderne le distanze. In Francia, l’astensione e il voto di protesta sono stati in un primo momento gli strumenti per esprimere un’insoddisfazione circa la maniera in cui funzionava la democrazia. In seguito, il voto di protesta ha ceduto il passo al voto di disturbo, che mira deliberatamente a bloccare il sistema. Si è così costituita quella che il politologo Dominique Reynié chiama la “dissidenza elettorale”, vasto agglomerato di scontenti e delusi. In occasione dell’elezione presidenziale del 2002, questa dissidenza rappresentava già il 51% degli iscritti alle liste elettorali, contro il 19,4% del 1974. Alle legislative successive, ha toccato il 55,8%. Ebbene: i principali fornitori della dissidenza elettorale provengono dalle classi popolari, il che significa che l’inesistenza civica o l’invisibilità elettorale sono espressione in primo luogo di quegli stessi ambienti ai quali la democrazia aveva conferito il diritto “sovrano” di parlare. Che cosa avverrà quando questa dissidenza sceglierà di esprimersi al di fuori del campo elettorale?

Nel contempo, da anni stiamo assistendo, ma questa volta dall’alto, a uno snaturamento della democrazia da parte di una Nuova Classe politico-mediale che, per salvaguardare i propri privilegi, auspica di restringerne quanto più possibile la portata. Jacques Rancière non esita a parlare di un “nuovo odio della democrazia”, un odio che potrebbe “riassumersi in una semplice tesi: non vi è che un’unica buona democrazia, quella che reprime la catastrofe della civiltà democratica”. L’idea dominante è che non bisogna abusare della democrazia, altrimenti si rischia di uscire dallo stato di cose esistente.

Uno dei mezzi per snaturare la democrazia consiste nel far dimenticare che essa, prima di essere una forma di società, è una forma di regime politico. Un altro mezzo consiste nel presentare come intrinsecamente democratici alcune caratteristiche societarie, come la ricerca di un accrescimento illimitato di beni e merci, che di fatto sono realtà inerenti alla logica dell’economia capitalista: “democratizzare” significherebbe produrre e vendere a strati sempre più ampi prodotti dal forte valore aggiunto. Un terzo modo consiste nel tentare di creare le condizioni di una riproduzione in forme identiche del disordine costituito, consacrato come unico ordine veramente possibile, come qualcosa che dipende da una necessità storica dinanzi alla quale chiunque, per “realismo”, dovrebbe inchinarsi (“Il realismo è il buonsenso dei mascalzoni”, diceva Bernanos). È l’ideale della governance, che potrebbe essere definita come una maniera di rendere non democratica una società democratica senza per questo combattere frontalmente la democrazia: non si sopprime formalmente la democrazia, ma si mette in piedi un sistema che consenta di governare senza il popolo, e se necessario contro di esso.

La governance, che si esercita oggi a tutti i livelli, mira a porre la politica alle dipendenze dell’economia per il tramite di una “società civile” trasformata in semplice mercato. Essa appare perciò, per usare le parole di Guy Hermet, come un “modo di contenere la sovranità popolare”. La democrazia, svuotata del suo contenuto, si trasforma in una democrazia di mercato, spoliticizzata, neutralizzata, affidata agli esperti e sottratta ai cittadini. La governance aspira a una società mondiale unica, chiamata a durare in eterno, giacché la temporalità stessa viene ad essere reificata. Spoliticizzare, neutralizzare la politica, significa infatti collocarne le poste in luoghi che sono dei non-luoghi. L’obiettivo è sopprimere tutte le pesantezze che potrebbero fare da ostacolo alla mancanza di limiti della Forma-Capitale. Diceva Jean Baudrillard: “Il colpo di forza del capitale consiste nell’aver infeudato tutto all’economia”. L’intera società sarebbe così messa a servizio del capitalismo liberale.

Non si tratta, a questo proposito, di sviluppare una teoria cospirativa sui “padroni del mondo”. La governance non è altro che il risultato logico dell’evoluzione sistemica delle società alla quale stiamo assistendo da decenni. Né si tratta di rappresentare il popolo come un essere “naturalmente buono”, alienato e corrotto da dei cattivi. Il popolo non è privo di difetti. Ma si può pensare, con Machiavelli e Spinoza, che i difetti del volgo non si distinguono sostanzialmente da quelli dei principi – e che, nella storia, sono state soprattutto le élites a tradire. Come ha scritto Simone Weil, “il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa è giusta perché il popolo la vuole, ma che a certe condizioni il volere del popolo ha più probabilità di ogni altro volere di essere conforme alla giustizia”.

Della Repubblica di Weimar, si è potuto dire che era una democrazia senza democratici. Noi oggi viviamo in società oligarchiche nelle quali tutti sono democratici, ma non vi è più democrazia.

(di Alain de Benoist)

mercoledì 1 febbraio 2012

Putin dichiara guerra a George Soros & Co.


Le speculazioni su questa notizia sono molte e le motivazioni penso siano più che legittime e motivate, la cosa che più dovrebbe far riflettere i Capi di stato occidentali è come ha fatto Putin a liberare la Russia da coloro che volevano portarla al totale sfascio economico-sociale e sbattere in galera tutti coloro che ci hanno tentato, sono forse i Lubawitschern che influenzano Putin?

Fatto sta è che Putin è leale alla Russia e al suo Popolo, non permetterà mai a nessuno sin quando ci sarà lui al comando in quella Nazione, di svendere la sua Patria e la Patria dei russi dalle grinfie del NWO, per questo ha ordinato di rilasciare un mandato di cattura Internazionale nei confronti di George Soros che è stato preso con le mani nel sacco mentre si preparava a mandare aiuti finanziari a quella che si definisce opposizione in Russia che ultimamente ha fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone raccontando bugie e mistificazioni, imbrogli durante le elezioni, adesso il mister Soros ha poco spazio per continuare i suoi sporchi giochi con la speculazione che ha messo in ginocchio tutto il sistema finanziario mondiale e sempre in collaborazione dei Rothschild, Rockefeller ed altri sciacalli.

Il discorso di Putin che è stato ufficialmente emanato dalle Autorità Russe: Oggi viene messo pubblicamente il seguente comunicato dalla Federazione Russa e il suo Primo Ministro Vladimir Putin, è stata fatta richiesta per un mandato di cattura Internazionale nei confronti del Terrorista Finanziario, dell’Ungherese Valuta-Mogul George Soros, i Servizi segreti Russi hanno scoperto che Soros stava usando Derivati Danesi con altre valute straniere per iniziare un attacco contro le Azioni in Valuta russa sul mercato. Da notare che Soros usava questi Derivati con l’aiuto di banche Lussemburghesi, cosa che è severamente vietato dopo il contratto fatto dagli stati della UE denominato Basel II. Sia l’IMF (International Monetary Fund) e l’Interpol Europea hanno emesso un “Red Notice” che corrisponde all’arresto immediato non solo nei confronti di Soros, ma anche contro gli Squali della Finanza, Bush, Clinton organizzazione criminale, Marc Rich e la sua ditta che si trova in Svizzera, la Broker-Richfield Commodities, per questo motivo il Premier russo Putin ha incontrato ultimamente lo Chef della Federal Reserve Bermard Bernake facendogli chiaro che la Federazione Russa non accetterà che si faccia uso di queste persone come Soros e Rich per commettere atti criminali sul mercato dei Derivati e della Finanza che hanno portato alla destabilizzazione Sociale in tutto il globo.

Sia fatta la volontà di Putin e che cominci a la caccia a questi criminali e ai loro complici Banchieri Rothschild, Rockefeller.

(di Corrado Belli)

martedì 31 gennaio 2012

Pensare l'impensabile


Crollino le economie, si mettano all'asta intere nazioni, periscano i popoli; ma non si osi mettere in discussione il dogma.

La dottrina contenuta nei sacri testi di Adam Smith - che ha abolito i dazi doganali (mettendo in competizione i nostri salari con quelli cinesi); che ha soppresso qualsiasi limite e freno alla circolazione mondiale del capitale finanziario (regalando un immenso potere alla pura speculazione); che punta a smantellare la più piccola parvenza di stato sociale (i lavoratori la smettano di difendere il proprio salario, si adeguino al libero mercato); che teorizza il divieto assoluto di intervento nell'economia da parte dei governi (sostituiti nelle proprie prerogative dalle banche e dalla loro mano invisibile) - non è una teoria, ma un atto di malafede.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Grecia è già di fatto in default (entro marzo probabilmente se ne prenderà coscienza), a nulla sono valsi gli immani sacrifici che sta patendo: un terzo della popolazione è ormai ridotto in povertà, le medicine scarseggiano, manca il combustibile per il riscaldamento (per difendersi dal freddo, si tagliano e si bruciano gli alberi nelle piazze), la disoccupazione dilaga, la disperazione imperversa (si registra la media di due suicidi ogni tre giorni).

È la fine del miraggio, le illusioni cedono il passo alla realtà. L'Europa benigna che dispensava mutui a basso costo, prestiti a interessi irrisori, crediti facili sta mostrando il suo vero volto. Miseria, sfruttamento e schiavitù i suoi frutti avvelenati. Riacquista vigore la domanda proibita: “Conviene restare in questa Europa? Per cosa abbiamo ceduto la nostra sovranità?”.

Come scrive Maurizio Blondet, i vantaggi essenzialmente consistevano nella “possibilità di indebitarsi a tassi 'tedeschi', ossia bassi”. E nel nostro Paese “ne hanno profittato i politici d’ogni livello, comunali, regionali, statali, per indebitarci ancora di più”, mentre alla Spagna il basso costo del denaro “ha regalato una bolla immobiliare che affonda le sue banche, strapiene di immobili pignorati e invenduti”. “Magari - continua - ci abbiamo guadagnato un po' anche come famiglie, accendendo mutui per comprare appartamenti”, ma in ogni caso questi tempi sono finiti. Terminati per sempre: lo spread è lì a ricordarcelo.

È urgente prendere coscienza dello stato delle cose, perché - sia chiaro - se continuiamo con le amorevoli cure somministrateci dall'eurocrazia (gli enormi e iniqui sacrifici, le tasse ed i tributi palesi ed occulti, la distruzione del welfare) il nostro destino sarà quello greco. È necessario interrogarsi, rimettersi a pensare (immane fatica alla quale non siamo più abituati) senza tabù e censure.
Occorre comprendere che non ha senso svenarsi per decenni con l'unico fine di pagare i creditori. Non ha senso mortificare intere nazioni per qualche generazione solo per servire gli interessi sui prestiti. Non ha senso deprimere la nostra economia e le nostre vite unicamente perché ce lo impone il Pensiero Unico globalista.

Una riduzione massiccia dei debiti sovrani è inevitabile,“non c’è altra soluzione, dati i livelli d’indebitamento raggiunti, e i veti germanici imposti alla Banca Centrale”. Nessuna austerità e rigore otterrà mai alcun risultato. Disoccupati e suicidi non pagano le tasse.

Intendiamoci, ristrutturare il debito non è una passeggiata, non è un colpo di bacchetta magica che risolve d'incanto tutti i problemi. Ma è forse la soluzione meno peggiore.
A sentire l'economista Henri Regnault dell'università di Pau (in Francia almeno si pongono ancora domande), si tratterebbe di “passare a un debito amministrato dal debitore anzichè ad un debito gestito dai mercati strutturalmente inefficienti”. Il docente francese ha studiato a fondo la questione del ripudio controllato e gestito del debito, invece dei vani tentativi di scongiurare l'inevitabile crollo catastrofico e disordinato.

Prima di tutto, ha tentato di dare una risposta al quesito preliminare su quali siano le condizioni nelle quali ad uno Stato conviene fare default senza subire troppi contraccolpi. Per una domanda così censurata, la risposta è banale: quando può fare a meno dei suoi creditori. E quando può fare a meno dei suoi creditori? Regnault risponde: “Quando gli introiti (fiscali) dello Stato coprono le sue spese, al di fuori di quelle dovute per il rimborso del debito e il pagamento degli interessi. Dunque a condizione che il saldo primario delle finanze pubbliche sia nullo o positivo, in altre parole quando non ha bisogno di prendere a prestito se non per onorare il servizio del suo debito”.

Ribadiamo l'ultimo concetto: quando non ha bisogno di prendere a prestito se non per onorare il servizio del suo debito.

Dunque si tratta di capire ora se il nostro e gli altri paesi europei rispettano queste condizioni. Sicuramente l'Italia (con le sue caste statali inadempienti e fancazziste, con la sua enorme spesa pubblica che si configura in sostanza come vero e proprio assistenzialismo di stato, con i suoi enormi sprechi) presenterà un saldo primario negativo, costretta dunque a rivolgersi agli usurai anche per fronteggiare le spese correnti. E invece, sorpresa, non è così.

Il docente universitario dimostra, dati alla mano, come “in termini di attivo primario l'Europa è molto più virtuosa di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti”, avanzando il sospetto - molto fondato - che “tutto il bailamme attorno al debito europeo è largamente unesagerazione fabbricata di sana pianta dagli apprendisti stregoni anglosassoni, per tentare di canalizzare i flussi finanziari mondiali verso il proprio indebitamento, molto più problematico”. Dunque Regnault ci sta dicendo in sostanza che l'intera Eurozona nel suo insieme non si indebita per finanziare le spese correnti.

Ma si spinge ancora oltre. Del resto un dato aggregato potrebbe mascherare le forti disparità esistenti all'interno del vecchio continente, tra un Nord virtuoso ed un Sud parassita. Ma ancora una volta questa tesi così propagandata è smentita dai fatti. L'Italia vanta un avanzo primario (in percentuale rispetto al PIL) addirittura maggiore della Germania (0,6% dei tedeschi contro il 3,3% di noi italici spreconi). Anche la Spagna è in attivo (0,5%), mentre è in leggero disavanzo la Francia (-0,6%)*.

Ricapitolando, quindi, le entrate dello Stato italiano superano le sue spese del 3,3%. Solo dopo aver servito il debito, andiamo in passivo. Dunque, scrive Blondet, “scopriamo che proprio a noi conviene ripudiare il debito, sovranamente e ragionevolmente”. Non abbiamo bisogno dei creditori per sopravvivere. Tutto il terrorismo delle sorelle del rating è solo una truffa condotta per lucrare sulla nostra pelle, ingigantita dai veti di Berlino.

Ovviamente, continua il direttore di EffeDiEffe, il fatto che all'Italia convenga ripudiare parzialmente il debito, non vuol dire che debba farlo. Non significa che sia una soluzione politicamente o socialmente facile: sarebbe più semplice “monetizzare” il debito, ossia costringere la BCE a comprare direttamente i nostri BOT, CCT e BTP a interessi bassi. Il che sembra anche ragionevole, visto il contorto meccanismo attualmente messo in piedi dal suo presidente, il nostro connazionale Mario Draghi, che presta miliardi di euro alle banche al tasso ridicolo dell'1% con la speranza che queste poi comprino i titoli degli stati più indebitati reclamando interessi del 5-6%, realizzandoci sopra grassi profitti. Forse sarebbe più economico ed intellettualmente onesto se la Banca Centrale Europea prestasse denaro direttamente agli stati al tasso dell'1%, evitando loro di andare sui mercati ad implorare prestiti offrendo il 6%, e rischiando con ciò la bancarotta.

Ma la Germania imperterrita continua ad opporre i suoi nein.
Monetizzazione? Nein!
Aiuti diretti agli stati? Nein!
Eurobonds? Nein!

E allora il default è l'ultima carta da giocare. Inevitabile, come spiega Regnault, “trarre le conseguenze dall'impossibilità di onorare integralmente gli impegni dei contratti di prestito” e soprattutto farlo presto, “senza attendere devastazioni irreparabili”. Prima che l'austerità, il rigore, l'iper-tassazione e l'amministrazione controllata dei gestori eurocratici soffochino completamente le nostre economie. Prima che i solerti burocrati del liberismo mondiale prosciughino il patrimonio privato e il risparmio delle famiglie. Prima che la disoccupazione inghiotta del tutto i nostri giovani nella sua morsa paralizzante. Prima che si arrivi comunque, dopo tutto questo, a rendersi conto dell'insostenibilità del debito.

Il default, se gestito con intelligenza (questo solleva la domanda: da chi?), ci permetterebbe di scegliere: ad esempio potremmo rifiutarci di pagare i creditori esteri e continuare invece ad onorare gli impegni presi con i piccoli creditori italiani; si potrebbe ripudiare del tutto il debito vecchio, ossia quello dove il creditore ha ormai lucrato in interessi più del capitale a suo tempo investito; si potrebbero nazionalizzare le banche strapiene di BOT e salvaguardare i correntisti.

È probabile, anzi sicuro, che qualcuno ci rimetterà, che saranno tempi duri (comunque ineluttabili), soprattutto all'inizio. Ma il Paese guadagnerà un futuro, o almeno la speranza in un futuro, oggi completamente e tragicamente negata.

(di Antonio Schiavone)

La moneta creata e la schiavitù del debito


“Il tempo è denaro”. Lo scrisse, nel 1736, Benjamin Franklin (nella foto n.d.r.), uno che del tempo fece un uso incredibilmente consapevole. Tra l’invenzione del parafulmine, un’ambasciata a Parigi e la stesura della Costituzione americana, l’inventore-patriota gettò, con quella frase, le fondamenta del nuovo spirito capitalista che avrebbe penetrato la civiltà moderna. Non a caso Max Weber, il grande sociologo tedesco che indagò la natura del capitalismo, vide in questo padre dell’America, in questo puritano votato agli ideali massonici, una sorta di teorico di quell’etica basata “sull’acquisizione di denaro e sempre più denaro” in maniera quasi “trascendente e assolutamente irrazionale”. E’ raro che una frase riesca a presagire in maniera così chiara la trasformazione della società e dell’uomo. Forse solo il “Dio è morto!” di Nietzsche ha avuto la stessa forza profetica della frase di Franklin. E infatti, eclissi del sacro e dittatura del denaro, sono la trama finita del tempo in cui viviamo.

Franklin fu uno dei protagonisti della lotta d’indipendenza americana e fu strenuo sostenitore del diritto dei coloni a battere una propria moneta, svincolandosi dall’obbligo imposto dalla corona britannica (e dalla Banca d’Inghilterra) di effettuare i pagamenti in oro e argento. La Rivoluzione che portò alla nascita della più grande democrazia del mondo sarebbe nata da due fattori congiunti: eccesso di pressione fiscale e mancanza di sovranità monetaria. Chissà cosa avrebbe pensato lui dell’Euro. Di questa furbizia storica che ha portato ad un’Europa fatta da Stati senza moneta e da una moneta senza Stato.

Ma l’intuizione di Franklin ci consente di comprendere la natura perversa del modello economico in cui viviamo e della crisi che ci sta travolgendo.

Se il tempo è denaro, allora il denaro cos’è? La risposta è semplice: il denaro è tempo. Un tempo concepito come continua proiezione futura, una promessa all’interno dell’astratto meccanismo credito/debito. L’intero sistema capitalistico moderno si basa sul rapporto tra un credito puro e un debito infinito generati da una moneta creata dal nulla. Il denaro, non più legato ad alcun elemento di natura (per esempio l’oro), ha cessato di essere intermediario di scambi e strumento di circolazione di beni. Il capitalismo finanziario, generando la moneta dal nulla, ha trasformato il denaro in valore in sé proiettandolo in un tempo futuro. Un gioco di prestigio che ha reso i banchieri moderni demiurghi delle nostre vite e dei nostri destini.

La moneta creata dal nulla (l’invenzione più importante della modernità) porta con sé un aspetto del tutto nuovo: il denaro che le banche centrali stampano e mettono in circolo è un debito per loro e un credito per chi lo possiede. Ma nello stesso tempo, acquisendo corso legale, quel debito è moneta, cioè pagamento. In altre parole, un debito che non potrà mai essere estinto se non per mezzo di altro debito (cioè altro denaro). Una magia che, come tutte le magie, genera un potere assoluto nelle mani di chi la detiene.

Quando banchieri, economisti e politici espressione delle potenti élite finanziarie ci dicono che la pesante pressione fiscale (da sempre strumento di limitazione della libertà individuale da parte dello Stato) e le manovre “lacrime e sangue”, sono un prezzo da pagare, un sacrificio momentaneo per riequilibrare i debiti sovrani e garantirci il futuro, mentono sapendo di mentire. Perché è proprio del nostro futuro che si stanno impossessando. Il sistema non consente che alcun debito venga estinto perché è su di esso e sulla promessa del pagamento che legittima la sua esistenza. Il debito è la nuova schiavitù cui sono sottomessi i popoli e le generazioni future. Dalla condizione di debitori non si esce (il cittadino nei confronti dello Stato, lo Stato nei confronti delle banche centrali, il cittadino nei confronti della sistema finanziario, il sistema finanziario verso se stesso).

Pochi giorni fa, il suicidio dell’architetto francese davanti all’ufficio delle imposte ha seguito i suicidi degli imprenditori italiani strozzati dalle banche e dal sistema del credito e del debito. L’Europa è attraversata da una disperazione collettiva che gli istituti di sondaggio non colgono e i media del grande potere nascondono. C’è solo una via di uscita: far saltare questo sistema. Ma servirebbe una politica in grado di recuperare la sua missione di governo del bene pubblico. Per ora la politica si è arresa. Dopo essersi barricata per oltre 30 anni nei suoi nascondigli parlamentari, è uscita a mani alzate scortata dagli sgherri del nuovo potere mondiale. Aspettiamo che torni a battere un colpo.

lunedì 30 gennaio 2012

Quelli che vogliono tagliare le nostre radici


Vuoi vedere che il male principale del nostro tempo è il richiamo alle radici? Lo ripetono da troppo tempo troppi intellettuali: nelle radici vi sarebbe l’odio per ogni diversità, per la mobilità e l’emancipazione.

Nelle radici si nasconderebbe il seme del razzismo e dell’antisemitismo verso l’ebreo errante, l’esodo, il mondo migliore. Le radici sarebbero la figurazione arborea dell’identità, l’ombra legnosa della tradizione, la traduzione in natura dell’ideologia nazionalista e reazionaria.

A comporre questo tam tam giunge ora un libretto di Maurizio Bettini, Contro le radici (Il Mulino, pagg. 112, euro 10), lanciato con evidenza dalla Repubblica. Per uno scherzo del destino in questi giorni esce un libretto di pari formato ma di opposta tesi di Roger Scruton, Il bisogno di nazione (Le Lettere, pagg. 98, euro 10) con una prefazione di Francesco Perfetti. Scruton sostiene che le democrazie devono la loro esistenza alla «fedeltà nazionale», cioè a quel legame vivo, culturale, storico e naturale, con le proprie radici, il proprio territorio e alla preferenza per il nostrano. Il nazionalismo, a suo parere, è la patologia della fedeltà nazionale o, come preferisco dire, è l’infiammazione dell’idea di nazione: aveva un senso agli albori del Novecento. Gli avversari di Scruton sono le ideologie universaliste, i poteri e le imprese transnazionali, che egli riassume in una sola espressione: oicofobia, ovvero rifiuto delle eredità e della casa. Di oicofobia soffre Contro le radici di Bettini, nel solco de L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm, storico che si definisce ancora comunista, e dei numerosi scritti contro l’identità (è il titolo di un testo laterziano dell’antropologo Francesco Remotti).

Secondo Bettini l’immagine delle radici sostituisce il ragionamento con una visione. La metafora delle radici permette di far passare per ordine naturale la sottomissione a una tradizione e a un’autorità. Senza il richiamo alle radici, nota Bettini, un «tradizionalista» non riuscirebbe a dirci come sia concretamente costituita la tradizione o l’identità di cui parla. Non si comprende perché la tradizione abbia necessità di una metafora e, invece, il progresso, l’uguaglianza o la libertà sarebbero in grado di spiegarsi da sole. Non c’è bisogno d’illusionismo o di metafore suggestive per spiegare la tradizione. Ci sono molte cose vive e concrete - atti, patrimoni, eredità, esperienze, legami, gesti, simboli e opere - che indicano la tradizione e l’identità. Le radici sono un simbolo riassuntivo di quell’universo e il frutto di un’analogia tra l’uomo e la terra che abita, tra la vita umana e la natura. L’albero - la pianta, le radici - è sempre stata la più frequente figurazione dell’umano, da Omero a Virgilio e Dante, da Goethe a Heidegger; Bettini, studioso della classicità, lo sa bene. Anche la cultura deriva da culto e coltivazione.

Ma Bettini reputa il richiamo alle radici la pericolosa premessa all’odio per chi non condivide le nostre radici e all’intolleranza verso chi non vi si riconosce. Insomma il nazionalismo (fino al nazismo) è dietro le radici. Ora, che si possano usare le radici anche come corpo contundente per colpire il prossimo, eliminarlo e perseguitarlo, lo conferma anche la storia. Ma la stessa storia insegna che anche nel nome dei diritti umani, dell’uguaglianza, della libertà, della fratellanza, furono violati quegli stessi principi e fu violentata l’umanità. Quante guerre nel nome della pace... Condannare l’amor patrio perché c’è chi fa guerra in suo nome, è come condannare l’amore perché c’è chi compie delitti in suo nome. Le radici possono degenerare in alibi per i violenti ma creano legami - affettivi, comunitari, vitali e culturali - intensi e veri; nessuno può tradurre automaticamente l’amore per le radici in odio verso chi non le condivide. La violenza nasce dal capovolgere le radici in frutti e dal brandirle come rami, violando la loro nascosta profondità. Peraltro nessuno può imporre l’amore delle radici a chi non ne ha, non le sente o non le riconosce. Questa costrizione produce finzione o violenza.

Il dramma della nostra epoca è la perdita delle radici e dei legami, lo spaesamento e la solitudine, la vita labile e precaria che si agita insensata. Se diffidate di Heidegger, leggetevi almeno la Simone Weil di L’énracinement: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana... l’essere umano ha una radice... Chi è sradicato sradica. Chi è radicato non sradica». Viceversa lo sradicamento per la Weil «è la più pericolosa delle malattie delle società umane».

Parola di Simone Weil, operaista e rivoluzionaria, ebrea e antifascista. Del resto, l’atto dello sradicare evoca in sé una violenza che invece è assente nel radicarsi. È la differenza radicale tra piantare ed espiantare, tra l’essere e la sua negazione.

Aver radici vuol dire non esaurire la propria vita nel presente o nell’egoismo di un’esistenza autarchica; vuol dire venire da lontano, avere un passato e dunque un avvenire, coltivare la vita e non solo consumarla, amare le proprie origini e stabilire consonanze a partire da chi ti è più prossimo. È molto più naturale e umano amare prima chi ti è legato in radice - i tuoi famigliari - piuttosto che amare prima chi è estraneo e lontano. Amare il prossimo si fonda sulla legge della prossimità; amare il prossimo a partire da chi ti è più vicino, stabilendo sugli affetti e i legami un’inevitabile gerarchia d’amore. Non potrò mai amare dello stesso amore mia madre o mio figlio e una persona sconosciuta che vive agli antipodi. Sarebbe falso e bugiardo dire il contrario; sarebbe disumano, anche se passa per umanitario.

E poi le radici sono anche le matrici di una civiltà, le fonti della cultura classica, le tradizioni civili, letterarie e religiose di un popolo. Perché dovremmo considerare barbarico amare le nostre radici? Solo la neolingua totalitaria può indurci a considerare a rovescio la vita, gli affetti, la realtà e l’amore. Shakespeare: «Oro? Oro giallo, fiammeggiante, prezioso? No, o dèi, non sono un vostro vano adoratore. Radici, chiedo ai limpidi cieli». Amate le vostre radici.

(di Marcello Veneziani)

Denaro, sterco del nulla


Nella società attuale l’impresa è centrale. Perché qualsiasi cosa produca, sciocchezze o mine antiuomo come l’Oto Melara o qualcosa di utile, dà lavoro e quindi stipendi o salari che permettono il meccanismo produzione-consumo-produzione (ma oggi sarebbe più esatto dire: consumo-produzione-consumo) su cui si regge tutto il sistema. Ecco perché in questa fase di crisi non solo il governo Monti, ma tutte le lead occidentali cercano di sostenere in ogni modo l’impresa a costo di passare per il massacro di chi ci lavora.

L’impresa dipende però dai crediti delle banche per i suoi investimenti. E qui c’è già una stortura. Il mercante medievale, che è l’antesignano dell’imprenditore moderno, investiva denaro proprio, non chiedeva prestiti. E questa buona creanza si è mantenuta a lungo, anche dopo la Rivoluzione industriale, se è vero che nel 1970 Angelo Rizzoli senior sul letto di morte raccomandava al figlio e ai nipoti “non fate mai debiti con le banche” (i discendenti non lo ascoltarono e si è visto com’è andata a finire). Ma, per la verità, il vecchio Rizzoli era ormai un uomo fuori dai tempi.

Se le imprese dipendono dalle banche noi dipendiamo dalle imprese. Siamo tutti, o quasi, come scrive Nietzsche, degli “schiavi salariati” che è un concetto più omnicomprensivo del marxiano proletariato che riguarda gli operai di fabbrica. Non siamo più padroni di noi stessi mentre l’uomo medievale, almeno economicamente, lo era. Perché, contadino o artigiano che fosse, viveva sul suo e del suo. Anche i famigerati “servi della gleba”, detti più correttamente servi casati, è vero che non potevano lasciare i terreni del feudatario, ma non potevano neanche esserne cacciati. La disoccupazione non esisteva. Il lavoro non era un problema. La sussistenza di ciascuno era assicurata dalle servitù comunitarie, cioè a disposizione di tutti, che gravavano sulla proprietà e sul possesso (servitù di legnatico, di acquatico, di seconda erba, eccetera).

Era il regime dei “campi aperti” (open fields) che teneva in un delicato ma straordinario equilibrio il mondo rurale. Per un secolo e mezzo le case regnanti inglesi dei Tudor e degli Stuart si opposero ai grandi proprietari terrieri che volevano recintare i campi (enclosure) perché ne avrebbero tratto maggior profitto, capendo benissimo che questo avrebbe buttato milioni di contadini alla fame. Col parlamentarismo di Cromwell, preludio della democrazia, fu invece introdotta l’enclosure (quei parlamenti erano zeppi di proprietari terrieri, di banchieri, di mercanti e di altri furfanti similari).

Tutti questi processi sono stati enfatizzati dalla trasformazione del denaro, nella sostanza e nella forma. Da utile intermediario nello scambio per evitare le triangolazioni del baratto (c’è un bel geroglifico egizio che mostra, come in un fumetto, un tale che per procurarsi una focaccia deve fare tre passaggi) diventa a sua volta merce. All’inizio è oro o argento o bronzo. Non che l’oro rappresenti davvero una ricchezza, è una convenzione come un’altra (i neri africani e i polinesiani gli preferivano le conchiglie cauri) ma ha almeno una consistenza materiale. Poi diventa banconota, poi segno su carta, infine impulso elettronico e quindi totalmente astratto. Per questo enormi masse di tale denaro virtuale possono spostarsi in pochi attimi da una parte all’altra del mondo. Se dovesse spostare dobloni d’oro la speculazione non esisterebbe.

Infine per scendere dalla luna sulla terra non si capisce perché fra tante misure inutili non si vieta almeno, in Borsa, la compravendita allo scoperto dove uno vende azioni che non ha o le compra con denaro che non possiede, lucrando sulla differenza. E con ciò gonfiando ulteriormente la quantità di denaro virtuale e facendone una massa d’urto che puntando su un obiettivo lo determina, anche per il trascinamento psicologico che comporta, e può così strangolare paesi e intere aree geografiche.

(di Massimo Fini)

Quando condannò a morte un uomo: "Colpevole? Non lo so"


Prima di essere politico, Oscar Luigi Scalfaro era stato magistrato. Indossata la toga nel 1943, ancora su giuramento al Duce e al fascismo, il futuro presidente della Repubblica la indossò di nuovo dopo la Liberazione, dopo aver combattuto da partigiano contro i nazifascisti. Nel clima d'odio post 25 aprile, l'allora 27enne Scalfaro fu chiamato a giudicare sei fascisti "collaborazionisti". Furono tutti condannati a morte dalla Corte straordinaria di Assise di Novara e Scalfaro partecipò agli interrogatori. Di uno in particolare, il brigadiere Domenico Ricci, era assai intimo. Vicino di casa, la figlia di Ricci Anna Maria lo considerava addirittura un "secondo papà". Nell'ottobre 2006 quella oscura vicenda torna a galla e Scalfaro non può non ammettere di aver contribuito alla condanna a morte di Ricci e degli altri cinque imputati, anche se nella sentenza si legge: il brigadiere Ricci "insieme al Missiato costituì l' anima della Squadraccia, della quale, poi, pare abbia assunto il comando ufficiale allo scioglimento di essa". Quel "pare" peserà come un macigno sulla coscienza di Scalfaro, e non a caso per tutta la vita continuerà a scrivere ad Anna Maria, come per rimarginare quella ferita.

La sentenza scandalosa - Quando nel 1996 il Giornale pubblicò una foto di Scalfaro del 23 settembre 1945, sul luogo dell'esecuzione di Ricci e degli altri 5 presunti fascisti, la stessa Anna Maria scrisse al presidente per chiedere se pensasse che il padre fosse innocente o colpevole. "Sono certamente io, accanto al canonico Pozzo - spiegò Scalfaro alla stampa -. La sera alle nove, nove e mezza uscivo dall'ufficio e il sindaco mi disse: la fucilazione sarà eseguita domattina. Mi sono alzato alle quattro e sono andato in carcere. Li ho abbracciati tutti, uno per uno. Ho fatto la comunione con loro sul camion". Ma alla figlia di Ricci non potè dare spiegazioni: "Scalfaro una mattina presto mi telefona, un sabato o una domenica - ricorda la donna -, due parole: 'Stia tranquilla perché suo padre dal Paradiso pregherà per lei'. Tutto qua...". Semplicemente, Scalfaro non poteva avere la certezza della colpevolezza del suo vicino di casa, ma da "consulente tecnico giuridico" del tribunale d'emergenza, o meglio "tribunale militare di partigiani", non si sottrasse alla decisione.

sabato 28 gennaio 2012

Quei "compagni" alla corte di Goebbels


È un libro strano e bello L’albero del mondo di Mauro Mazza (Fazi, pagg. 158, euro 16). Saggio e romanzo, è una riflessione storica sulla generazione che, per chi come l’autore e chi scrive ha superato i cinquant’anni, fu quella dei padri, e tuttavia anche un esame di coscienza per la propria, da quei padri segnata, certo, e però alla ricerca di una propria via individuale che nel rispetto e, se il caso, nel disprezzo per ciò che è stato, permetta una volta per tutte l’uscita dal tunnel delle ideologie novecentesche che così duramente segnarono quel secolo.

Il sottotitolo recita Weimar, ottobre 1942, ovvero l’autunno del disincanto per molti degli intellettuali fascisti chiamati a discutere nella cittadina tedesca sullo stato della cultura e dell’Europa, ovvero sul proprio «domani», vincitori o vinti. Dopo le conquiste sfolgoranti dei primi anni, la guerra aveva preso un’altra piega: erano scesi in campo gli Usa, la Wehrmacht si era trovata bloccata a Stalingrado, l’Italia si era rivelata l’anello di latta di un patto d’acciaio non più tale. Che fare? Come comportarsi? A chi credere? Fra gli scrittori italiani presenti a Weimar, Mazza focalizza l’interesse sulla «promessa» Giaime Pintor, germanista di valore a dispetto della giovane età (era poco più che ventenne), e sul più «anziano» Elio Vttorini, trentenne, romanziere, polemista, traduttore.

Gli altri, i Falqui, i Baldini, i Cecchi, appartengono in fondo, per gusti, abitudini, temperamenti, stili di vita, al vecchio mondo liberale che vent’anni prima il fascismo aveva politicamente spazzato via. Sono professori, studiosi di tutto rispetto, ma tutti più o meno conservatori, più o meno reazionari, più o meno codini, più o meno apolitici. Stanno sì con il Regime, ma l’impressione è che starebbero con qualsiasi regime purché venisse loro concesso di zappare il proprio orticello letterario non dando fastidio a nessuno.

Pintor e Vittorini sono generazionalmente un’altra cosa e Mazza lo racconta bene, con un intelligente uso di pubblico e privato: sentimenti e delusioni sentimentali, dichiarazioni di principio e infatuazioni letterarie. Sono nati con il fascismo e nel fascismo e se Elio, allora ragazzino, ha sognato nel ’22 di sfilare con le camicie nere, l’adolescente Giaime si è arruolato per combattere quella Seconda guerra mondiale che in patria viene presentata come uno scontro di civiltà, nazioni giovani contro nazioni vecchie, il sangue contro l’oro...

Quando un giorno ci si deciderà a fare sul serio la storia intellettuale del Ventennio, un capitolo spetterà a chi diede al fascismo molto più di quanto in cambio ricevette, e che dal fascismo si distaccò non tanto nel nome di un generico o convinto dissenso ideologico, ma più semplicemente perché si accorse che il vero «fascismo» era il loro e non quello di un regime codificatosi in una recita dove la gerarchia era una posa, la fantasia un’illusione, l’anticonformismo una colpa.

I Malaparte, i Longanesi, i Berto Ricci, i giovanissimi dei tempi della marcia su Roma come i teorici della cosiddetta «seconda ondata» rivoluzionaria, a lungo si ostinarono a pensare che i loro sforzi intellettuali, libri, riviste, convegni, polemiche, potessero contribuire a fare dell’intuizione di un singolo individuo un patrimonio nazionale. Gli rimase invece fra le mani il combinato disposto di un sistema che sempre meno tollerava la discussione, che sempre più premiava l’acquiescenza, di una dottrina che per codificarsi annullava qualsiasi eresia feconda e si accontentava di una sterile ripetizione.

La guerra si incaricò di mostrare fino a che punto una ventennale costruzione fosse stata rosa dal suo interno, lasciandola apparentemente intatta, ma in realtà priva di senso e significato. Prima e più di tutto, il loro distacco e poi il rifiuto furono il frutto di una delusione. Un anno dopo Weimar, Pintor saltò su una mina mentre faceva da ufficiale di collegamento per conto degli Alleati. Quanto a Vittorini, entrerà nella Resistenza, scriverà il suo più brutto romanzo, Uomini e no, e nel dopoguerra andrà a sbattere contro l’ortodossia comunista. «Credeva fossimo liberali, e invece, guarda un po’, eravamo solo comunisti» ironizzerà Togliatti...
Nel libro Mazza racconta il momento dell’incertezza, quando non si crede più, ma non si sa ancora in cos’altro credere e se sia ancora possibile credere... «Nulla è più difficile che crescere» fa dire al Pintor traduttore di L’infanzia del cuore di René Podbielski.

Occorre di nuovo «aderire alle cose», come il fascista francese Drieu La Rochelle, un altro dei relatori di Weimar, ama ripetere. Bisogna dare un senso, non limitarsi ad accettare ciò che viene. Mescolando testi, diari, lettere, articoli, forzando la cronologia, prestando ai suoi protagonisti pensieri e considerazioni plausibili perché frutto delle riflessioni di un autore che quel clima e quel modo di essere conosce bene, Mazza traccia le coordinate di un mondo in declino, fra dubbi, tormenti e illusioni, il cuore dell’Europa un attimo prima della resa dei conti.

Una citazione di Goebbels, «noi passeremo alla storia come i più grandi uomini di Stato di tutti i tempi o come i più grandi criminali», spiega meglio di un libro di storia Hitler, i Campi, il Bunker e una Germania rasa al suolo. Le stesse speculazioni sulla scomparsa di Ettore Majorana, rivale di Fermi affascinato dalla «necessità storica» del nazismo, che Mazza racconta con felicità espressiva unita al talento del cronista di razza, rimandano a un’epoca fluida, dove non c’è il senno di poi a spiegare le ragioni e i torti, il bene e il male.

Lavorando sui destini intrecciati di due fra i più brillanti intellettuali italiani dell’epoca e del più implacabile ministro del Reich, Mazza compie una ricognizione che va dritta al problema: il rapporto fra la cultura e il potere politico, l’idealismo e il realismo che si contrappongono, la sudditanza della prima nel suo allearsi con la seconda, il compito e il ruolo stesso dello scrittore.

A un Goebbels che chiede una letteratura d’evasione «per le donne sole in casa e per i soldati al fronte», Vittorini replicherà che «una pagina può illuminare il senso di un’epoca» e che il non scriverla, ovvero l’accettare quell’invito, fa diventare «complici di questa immane catastrofe»... Anni dopo, a un Togliatti che chiede una letteratura marxisticamente impegnata, replicherà che non ci sta «a suonare il piffero per la rivoluzione». Fra impegno e disimpegno resta lo spazio accidentato, fragile e ambiguo della libertà di pensiero, ma non sempre basta la letteratura per salvarsi l’anima.

(di Stenio Solinas)