mercoledì 13 febbraio 2013

"Con Wojtyla c'è un abisso là il dolore era uno show"


Premessa: «Sono un polemista, non un dietrologo». Massimo Fini, penna acuta e spiazzante del giornalismo italiano, allarga le braccia: «Cominciamo col dire che non dobbiamo sporcare il gesto di papa Ratzinger con il solito gossip all'italiana».

Il gioco al chissà che c'è dietro?

«Appunto. Ai tempi delle Brigate rosse si diceva: chissà chi c'è dietro le Brigate rosse. Naturalmente c'erano solo e soltanto loro, le Brigate rosse, ma questo per certuni era un dettaglio irrilevante. Lo stesso accadde con Mani pulite e temo che oggi siamo al punto di prima».

Si parla di rapporti segreti sconvolgenti, si evocano i corvi svolazzanti e si vocifera di malattie nascoste.

«Lasciamo perdere e concentriamoci sul gesto».

Lei è sorpreso?

«Devo dire che trovo le dimissioni un atto di responsabilità».

Responsabilità?

«Sì, vuol dire che papa Benedetto è persona di grande realismo, se vogliamo un po' tedesco. Ha fatto i conti con le sue forze, ha visto che le energie scemavano irrimediabilmente, cosa possibile a quell'età, quando il vigore può scendere di botto, come un ascensore».

È stata una decisione programmata?

«Non lo so, sicuramente è stata una decisione sofferta da parte di una persona molto lucida, consapevole dei propri mezzi e dei propri limiti. Quindi leggo quel che è successo come un atto di coraggio e di umiltà».

Si può definire coraggioso chi lascia il timone del comando?

«Sì, se uno ha calibrato risorse e capacità disponibili. Ci vuole coraggio, molto coraggio, ad abbandonare il trono del potere; ci vuole coraggio, molto coraggio, ad imboccare una strada che nessuno o quasi aveva mai percorso; ci vuole coraggio, molto coraggio ad esporsi a critiche, chiacchiere, gossip planetari. Ancora di più se si è, come papa Ratzinger, una persona riservata, schiva».

Scusi, non ci vuole più coraggio a rimanere alla guida della Chiesa, come ha fatto Wojtyla negli ultimi anni?

«Vede, tra Wojtyla e Ratzinger per conto mio c'è un abisso».

Addirittura?

«Wojtyla, e parlo da agnostico o, se preferisce una formula alla Nietzsche, da onesto pagano, era perfettamente adeguato ai tempi. Quel che contava era l'apparire e non l'essere, lo show, la sua faccia che rimbalzava su tutti i media del mondo».

Naturalmente, molti - laici e cattolici - la vedono diversamente da lei. Giovanni Paolo ha usato i media per riproporre la centralità di Cristo.

«Non sono per niente d'accordo. Quello che lei sostiene è vero all'inizio, poi per inseguire tv e giornali, Wojtyla ha annacquato sempre di più il messaggio cristiano. Ma in ogni caso voglio dire che papa Benedetto è agli antipodi del suo predecessore».

Forse vuol dire che sono due figure complementari?

«No, no: antitetiche. Ratzinger ha portato la sofferenza finchè ha potuto, poi ha deciso di farsi da parte. L'altro l'ha esibita la sofferenza e il dolore non si esibisce, come la carità».

Non è stato il Wojtyla sofferente a insegnarci che il cristiano non ha paura di niente?

«No, per me anche quello è stato uno show, uno spettacolo, sia pure drammatico».

Papa Benedetto?

«Ci lancia un messaggio che è insieme molto contemporaneo, direi all'avanguardia, e nello stesso tempo politicamente scorretto».

Che cosa vuol dire?

«Intendo dire che oggi la vita si allunga, la quarta età diventa una realtà, ma non è scontato che una persona arrivi a ottantacinque, novant'anni con disinvoltura. E invece c'è tutto un pensiero dominante che nega la vecchiaia, nega il decadimento, nega la senilità. Ratzinger combatte la retorica della modernità, con i corpi sempre perfettamente efficienti».

Insomma, le dimissioni non sono una fuga dalla realtà?

«Al contrario. Perché mascherare la propria debolezza, percepita come inadeguatezza ad un impegno così pesante? Peccato solo, e mi permetta questa battuta, che fra i due grandi vecchi si sia dimesso quello sbagliato».

Quello giusto?

«L'inquilino del Quirinale».

Lascerà fra poche settimane pure lui.

«I nostri politici non mollano mai. Papa Benedetto, che certo non ama il clamore, ha avuto il coraggio di compiere un gesto così clamoroso».

(fonte: www.ilgiornale.it)

domenica 10 febbraio 2013

martedì 5 febbraio 2013

Unamuno, il filosofo allievo di Don Chisciotte


Quando l'ideale divorzia dal reale nasce il tragico, poi il comico, quindi il sognatore, infine il pazzo. In una parola, Don Chisciotte. Lui, il Cavaliere dalla trista figura, in conflitto eroicomico con la realtà e il suo tempo, li riassume tutti. 

 Il più importante commento al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes è di un filosofo spagnolo del primo Novecento, Miguel de Unamuno. Nativo di Bilbao, insegnò all'Università di Salamanca, fu esiliato alle Canarie. Di lui esce ora una raccolta di saggi, In viaggio con Don Chisciotte (Medusa, pagg. 140, euro 16,50). Il suo Don Chisciotte è un Cristo folle, con «i baffi, grandi neri e spioventi» e questa sua immagine ricorda l'ultimo Nietzsche nelle braccia della pazzia. Unamuno sottrae Don Chisciotte al suo autore, lo rende autonomo, universale, lo consegna alla mitologia, ne fa il genio di un popolo.

A dir la verità questi saggi non sono un granché, nulla di paragonabile al Commento uscito nel 1905. Qualche anno fa Medusa aveva pubblicato con il titolo Cultura e nazione un'altra opera di Unamuno uscita nel '45 in Italia a cura di Carlo Bo col titolo Essenza della Spagna. Meglio sarebbe quest'anno ricordare di Unamuno i cent'anni della sua opera filosofica più significativa, Del sentimento tragico della vita, uscita nel 1913, tradotta da SE nel 1989 (importante è pure L'agonia del cristianesimo).

«Non sento la filosofia che poeticamente - scrive Unamuno - e innanzi tutto religiosamente». Unamuno è con Ortega y Gasset il filosofo più importante del Novecento spagnolo, spesso paragonati a Croce e Gentile. Ambedue vitalisti ma Unamuno in versione tragica e con tratti più letterari. In Italia i primi a scoprirlo furono Papini e Prezzolini. Il filosofo cattolico M. F. Sciacca gli dedicò un gran bel libro, Il chisciottismo tragico di Unamuno. La sua filosofia è ispirata a un sentimento tragico e onirico della vita, figlio di Don Chisciotte e del Sigismondo de La vita è sogno di Calderon de la Barca. Percorre i suoi scritti un vivo senso del paradosso e del capovolgimento, fino all'irrealismo magico. Unamuno esalta la guerra come «scuola di fraternità e vincolo d'amore» e in uno scritto tristemente profetico scrive nel 1915: «Sia benedetta da Dio la guerra civile... senza sangue fraterno non c'è patria». Il suo terribile auspicio fu esaudito nella sanguinosa guerra civile spagnola che Unamuno non vide conclusa perché morì l'ultimo giorno del 1936. Se l'avesse vissuta, si sarebbe pentito?

La verità per Unamuno si dissocia dalla realtà e vince sulla menzogna tramite la follia. Vera, per Unamuno è «ogni cosa che alimenta nobili slanci e partorisce opere feconde» e falsa è «ogni cosa che soffoca gli impulsi generosi e produce sterili aborti». Una visione emotiva, etica ed estetica della verità fondata sulla superiorità dell'Inutile. L'insuccesso è il sigillo che nobilita l'azione, «la vittoria delle vittorie è perdere tutto». Risuona il motto dell'hidalgo: «la sconfitta è il blasone dell'anima ben nata». «Solo gli amori infecondi sono fecondi di frutti spirituali - scrive don Miguel -, solo la sterilità temporale dà la fecondità eterna». L'amore per lui è «ciò che vi è di più tragico al mondo», figlio dell'inganno e padre del disinganno. Il fato è la fratellanza d'amore e dolore. Non a caso Unamuno cita spesso Leopardi e in particolare La ginestra.

Gli uomini per lui si dividono in carnali, cardiaci e intellettivi: la sua barba nera, il suo sguardo appassionato e i suoi occhialini penetranti li riassumono de visu. Anche Dio e l'immortalità sono sogni per Unamuno, ma sogni che fanno vivere, dunque sono veri. Se la vita è sogno «lascia che io la sogni immortale». Il ponte tra la vita e il sogno è la gloria, la stessa che persegue Don Chisciotte. La gloria è la speranza di continuare a vivere negli altri, immortalità terrena. In una pagina vibrante Unamuno scrive: «L'essenziale è non morire. Non morire! Non morire! Questa è l'ultima radice della follia chisciottesca. Ansia di vita, ansia di vita eterna ti dette l'immortalità, Don Chisciotte mio, il sogno della tua vita fu ed è il sogno di non morire». Egli, nota Sciacca, «non vuole, non ama Dio, vuole e ama se stesso; se la sua sopravvivenza potesse essergli assicurata anche senza Dio, non chiederebbe di più e forse di meglio».

Unamuno resta nell'orizzonte umano e immanente del soggettivismo eroico, in una visione disperata e solitaria, anche se il suo sentimento tragico si riferisce non solo ai singoli ma anche ai popoli. Ricorrente è il richiamo all'essenza spagnola e alla sua tradizione eterna. Il Don Chisciotte per lui è una specie di Vangelo dell'hispanidad, categoria geospirituale, etno-metafisica. I suoi discendenti sono l'esteta, il dandy, l'eroe solitario. Il chisciottismo è l'altra faccia dell'utopia rivoluzionaria che ha percorso la modernità. Versione fantastica e singolare l'una, visione storica e collettiva l'altra. Ma la differenza tra Don Chisciotte e i rivoluzionari è essenziale: il primo carica sulle proprie spalle il costo proibitivo dei suoi sogni solitari, i secondi invece li riversano sugli altri, anzi pretendono che gli altri facciano i loro stessi sogni e li vadano ad abitare. E quando il sogno si oppone alla realtà, tanto peggio per la realtà. In quella differenza c'è tutta l'abissale distanza tra la magnifica, solitaria, gentile e disperata grandezza dei cavalieri che vivono e muoiono del loro ideale nel loro romantico delirio e la cupa, feroce, messianica ideologia dei rivoluzionari che impongono al mondo la pretesa di una società perfette.

Certo, anche fra gli utopisti rivoluzionari vi furono nobili sognatori, martiri dei loro ideali; ma quando i rivoluzionari puri vanno al potere sono più crudeli e intransigenti dei rivoluzionari impuri, disposti al compromesso con la realtà. Perché ogni assoluto trasferito in terra produce mostri, tiranni, violenze, regimi totalitari. Invece i sogni rimasti nella sfera ideale e singolare si traducono in creatività, opere d'arte, figure letterarie. Uno rappresenta il sentimento tragico della vita, gli altri il risentimento tragico della storia. Un plotone di Don Chisciotte farebbe paura; invece un Cavaliere solitario e anacronistico, fuor di senno e di tempo, accompagnato solo dal suo fido scudiero e da un grappolo di sogni e allucinazioni, suscita un nugolo di sentimenti: riso, tenerezza, pietà e nostalgia. La solitudine è la sua follia ma è anche la nostra salvezza. Il suo irrealismo cavalleresco lo destina alla sconfitta storica e alla gloria letteraria. In palio per Don Chisciotte non c'è la conquista del potere ma il favore di Dulcinea del Toboso e dei suoi lettori.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 4 febbraio 2013

Il premio Nobel alla dittatura del relativismo


Il 10 dicembre 2012 i presidenti, rispettivamente, dell’Unione Europea Herman Van Rompuy, della Commissione europea, José Manuel Barroso e del Parlamento europeo, Martin Schultz, hanno ritirato a Stoccolma il premio Nobel per la Pace assegnato quest’anno all’Unione Europea. L’ assegnazione del premio e le sue motivazioni («L’Ue ha contribuito all’avanzamento della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa») hanno un suono beffardo e provocatorio per i cittadini europei. Il Vecchio Continente conosce infatti uno dei momenti più difficili dalla sua storia più recente, proprio a causa delle tensioni sociali e delle violazioni della democrazia e dei diritti umani di cui è responsabile l’Unione.

L’Unione Europea, registra innanzitutto un pesante fallimento economico. L’euro, che avrebbe dovuto portare stabilità e coesione economica all’Europa, è in profonda crisi. Le differenze tra le strutture produttive dei Paesi dell’Unione si sono divaricate, con un trasferimento di ricchezza dal sud al nord dell’Eurozona. Mentre la Germania ha assunto la guida della locomotiva europea, i vagoni della Grecia, della Spagna, e dell’Italia, hanno iniziato a deragliare dai binari. Intanto la Banca Centrale Europea, che non è solo un organismo monetario ma è la vera cabina di regia politica, innalza a Francoforte il suo tempio: un colossale grattacielo che sorgerà nell’area dei vecchi mercati generali di Francoforte, e costerà la bellezza di 1,2 miliardi di euro, caricati sul debito dei 28 paesi della UE. E ciò proprio mentre il presidente della BCE e i suoi collaboratori fustigano gli Stati membri, invocando austerità e sacrifici per tutti.

Tra i leader dell’Unione Europea il più docile agli ordini della BCE è Mario Monti, designato al governo dell’Italia nel novembre 2012, senza investitura popolare, per designazione congiunta dei vertici europei e del presidente della Repubblica Napolitano. Ma, dopo un anno di governo, la ricetta di Mario Monti, per “salvare l’Italia” mantenendola nell’euro, si è rivelata disastrosa. L’aumento senza precedenti della pressione fiscale ha prodotto la crescita della disoccupazione, il crollo dei consumi e della produzione industriale, l’aumento dell’inflazione, e del debito pubblico. Eppure avrebbe dovuto bastare l’esempio della Spagna, dove le misure imposte della BCE hanno creato uno stato di gravissima depressione, con un tasso di disoccupazione complessivo che sfiora il 25%, e un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50%.

La prova del fallimento economico della Unione Europea è però dimostrata soprattutto dall’aumento, negli ultimi cinque anni, di oltre il 25% del debito pubblico della eurozona, mentre l’obiettivo della moneta unica era proprio quello di assicurare all’Europa una maggiore solidità economica, attraverso una significativa riduzione del debito pubblico.

Altrettanto evidente risulta il fallimento politico dell’Unione Europea. L’ambizioso obiettivo era, in questo caso, quello di giungere ad una politica estera comune a tutti gli Stati membri, in modo che l’Europa si presentasse di fronte agli Stati Uniti, alla Cina e alle altre potenze emergenti, come un soggetto forte e coeso sulla scena internazionale. Oggi il fallimento della politica estera della UE è addirittura oggetto di tesi di laurea e rischia di essere pesantemente aggravato dal minacciato ingresso della Turchia musulmana tra gli Stati membri.

Nello spazio di venti anni, dai Balcani, al Medio Oriente, dalla crisi irakena a quella libica, l’Unione Europea ha conosciuto una profonda divergenza al suo interno e una sostanziale incapacità di assumere una leadership sul piano internazionale. Quando si è manifestata una certa convergenza di giudizi, come nel caso della “primavera araba”, si è aperta la strada al più sconsiderato autolesionismo.

Ma, ancora più clamoroso di quello economico e politico, è il fallimento nella difesa della democrazia e dei diritti umani, un campo in cui l’Unione Europea sta raggiungendo traguardi devastanti, esattamente opposti a quelli per i quali ha ricevuto il Nobel. Il primo dei diritti umani è infatti il diritto alla vita, che oggi è sistematicamente violato dalle legislazioni abortiste di tutti i Paesi europei. L’UE non solo non ha mai levato la sua voce contro la strage degli innocenti, peggiore di qualsiasi genocidio del XX secolo, ma esercita una intollerabile pressione giuridica e morale nei confronti di quegli Stati che resistono all’introduzione dell’omicidio di massa, o tentano una inversione di marcia.

Paesi come l’Irlanda, la Polonia e Malta, dove l’aborto è limitato da alcune restrizioni, sono accusati di non allinearsi agli standard anti-etici dell’Unione europea. E se qualche uomo politico, come il premier spagnolo Rajoi annuncia timidamente la possibilità di modificare la legge-simbolo dell’era Zapatero – ovvero il diritto all’aborto entro la quattordicesima settimana, anche per le sedicenni, senza necessità di informare i genitori – rischia di fare la fine di Viktor Orban, accusato di aver impresso una «svolta autoritaria» al suo Paese, per aver fatto approvare una nuova costituzione in cui si afferma, tra l’altro, che «l’Ungheria proteggerà l’istituzione del matrimonio inteso come l’unione coniugale di un uomo e di una donna», e che «la vita del feto sarà protetta dal momento del concepimento».

In ossequio al diktat, Pier Luigi Battista sul “Corriere della Sera” del 18 gennaio, minaccia:  «se si perpetua la logica dei “valori non negoziabili” e dell’oltranzismo ideologico  non si arriva a nulla. O si continua all’infinito nel vaniloquio». Lucio Romano, vicepresidente nazionale del Movimento per la Vita dal 2003 al 2012 e ora presidente nazionale dell’associazione “Scienza e Vita”, raccoglie l’ammonimento dichiarando, il 21 gennaio allo stesso giornale, che temi come l’aborto e la contraccezione sono «argomenti che non possono essere trattati in termini di integralismo e di interpretazione ideologizzata». Romano è uno degli uomini di punta della lista di Monti in Campania, alle prossime elezioni, e assicura di non voler «ingaggiare battaglie», ma di cercare condivisione «per proporre iniziative politiche credibili e affidabili».

Ma tutto questo non basta. Le lobby europeiste lavorano perché sia introdotta la proibizione dell’obiezione di coscienza per medici e infermieri in tema di aborto e perché sia esteso a tutti gli Stati il reato di omofobia nei confronti di chiunque neghi le unioni “matrimoniali” contro-natura.. Una lobby abortista di Bruxelles, l’EPF (European Parliamentary Forum on Population an Development), legata alla Planned Parenthood americana, ha redatto una lista di 27 “personalità europee anti-choice”, di cui viene monitorata l’attività per colpirle al momento opportuno in maniera “soft” o “hard”, a seconda dei casi. Così, ad esempio, in Italia, Luca Volonté, uno dei 27 “anti-choice”, troppo attivo in difesa della vita al Consiglio d’Europa è stato pretestuosamente eliminato dalla lista elettorale UDC-Monti, mentre in Francia  si minaccia, l’interdizione dell’associazione Civitas, presieduta da Alain Escada, un altro dei 27 “anti-choice”, colpevole di aver promosso manifestazioni contro il matrimonio omosessuale e la cristianofobia.

Misure simili minacciano i siti web cattolici troppo polemici, mentre dilagano sul web quelli dove bestemmiatori di ogni risma vomitano le loro blasfemie senza che nessuno pensi minimamente alla possibilità di oscurarli. Chi può dirsi tranquillo? Ed è legittimo chiedersi: ma il premio Nobel attribuito alla Unione Europea, che tanto piace a Mario Monti, costituisce un riconoscimento ai valori democratici o alla dittatura del relativismo promossa dalla tecnocrazia di Bruxelles?

(di Roberto de Mattei)

domenica 3 febbraio 2013

"Sono fascista per disciplina ma non credo negli uomini"


Altro che Piero il terribile: cortese, cortesissimo, spunta in cima alle scale della casa nel centro di Bologna, lo sguardo da Re Leone. Al telefono aveva detto: «È passato a trovarmi un reduce della RSI. Aveva perso la guerra e alla fine era in pace. Io non l'ho fatta perché ero troppo piccolo, ed è finita che ho dovuto odiare al posto loro. Per sessant'anni».

Ma a 82 anni Buscaroli più che di combattere ha voglia di raccontare, intrattenere, perfino ridere: «Gli dei mi avevano assicurato che nel 2012 sarei morto. Invece dicono tutti che sto bene, se lo dicono loro... Mi hanno trovato un po' di diabete. Raccontava un amico napoletano, Oderisio Piscicelli Taeggi, ufficiale del Regio Esercito: “il diabete è la malattia più deliziosa del mondo. È una schermaglia quotidiana con la glicemia”». Storia, giornalismo, musicologia: Buscaroli ha scritto «in guerra». «Il mio Beethoven ha corretto più di 150 dati storici. Per decenni mi sono domandato se avrei avuto la forza di prendere per il collo questo gigante. Mi sono chiuso nella casa in campagna, a Monteleone, per quattro anni: mangiavo e dormivo quando capitava. Una volta ebbi un collasso, se ne accorsero in tempo per fortuna». Ma Dalla parte dei vinti (Mondadori, 2010) è una controstoria italiana, risentita, sì, però piena di dati, episodi, cose. E ora La bancarotta dei vincitori (uscirà in primavera per Minerva edizioni, pare gli abbiano assicurato la massima libertà e il minimo di editing). C'è il revisionismo «alla Buscaroli», ma anche i pezzi dal Vietnam, pieni di vitalismo e curiosità; e i ricordi dei maestri. Oltre all'animo eracliteo da Polemos signore di tutte le cose, emerge la gioia sottile di raccontare. Nel libro emerge un Leo Longanesi inaspettato: uomo dalle idee «ferme e forti».

«Non ci demmo mai del tu. Ma era lo stesso con il suo grandissimo amico Giovanni Ansaldo, cui una volta domandai: “ma come mai, con la dimestichezza che avevate avete continuato a darvi del lei fino alla fine?”. Rispose: “Con tutto quello che si sapeva l'uno dell'altro, se ci si dava del tu che troiaio veniva fuori!”. Su Longanesi le confesso una cosa esplosiva».

Prego.

«Appena prima di morire \ voleva andarsene in America con una ragazza lunga, di belle fattezze, che chiamavamo la Cannavòta. Aveva raccolto molti soldi, era pronto. Forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciare la moglie, che aveva annusato qualcosa, e i figli. Era disgustato dall'Italia».

Come lei...

«Ho rifatto i conti con il passato almeno tre volte. Gli italiani buoni non sono mai esistiti. O meglio, gli italiani buoni non parlano. E sono pochissimi».

Anche sotto il fascismo?

«Già allora l'Italia era quella di adesso. Nessuno degli intellettuali, da Benedetto Croce a Marconi, ebbe il tempismo o l'astuzia di dire a Mussolini: “stai facendo una porcata” con le leggi razziali».

E chi si salva?

«Un episodio. A Imola, quello che poi divenne il comandante delle Brigate Nere di mestiere faceva il direttore di un ospizio. I soli ricchi ebrei a Imola erano la famiglia Fiorentino: padre e madre riuscirono a scappare, lasciando lì il padre della moglie, il generale Gallicchi. Fu aiutato da questo gerarca, e accolto nell'ospizio».

Un italiano buono, e zitto...

«Appartenere a una parte o all'altra dipende da un momento, dal Caso. Mio padre era fascista, “per disciplina” come disse, con frase bellissima, Edda Ciano. Senza farsi tante domande. Anch'io lo sono, “per disciplina”».
Ma non è stato tenero con l'Msi.

«Negli anni '50. Un gruppo di politici e intellettuali che volevano “rifondare la destra” invitarono Longanesi e me. C'erano De Marzio, Tedeschi, Guglielmi. E Arturo Michelini, che aveva scarpe bianche, di una bellezza... Mentre parlavano di “vecchi ideali”, guardavo Longanesi, abbacinato dalle scarpe. Poi sbottò: “Ma lei! Come si fa a parlare di destra con quelle scarpe lì?”».

Non apprezzava Almirante. Chissà Fini...

«Il peggiore di tutti. Una volta mi invitò a Faenza. Fece due comizi tutti uguali, comprese le congiunzioni. Un nulla totale».

I politici di oggi?

«Bersani dice cose serie, sensate, ma non lo voto. Berlusconi è stato una delusione, anche se l'altra sera da Santoro ha fatto una cosa divertentissima, sul piano della farsa».

Torniamo ai buoni e ai belli di cui parla nel libro: Vincenzo Cardarelli.

«Montale, che non gli fu amico, scrisse che era stato lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma quando lo conobbi, a Roma, negli anni '50 era un fagotto. Stava al primo caffè di via Veneto, aveva sempre freddo. Era nato naufrago, abbandonato dal padre. Longanesi l'aveva scaricato crudamente, e lui l'aveva capito. Una volta avrebbe dovuto portarselo dietro alla mostra che organizzava al Sistina, ma lo lasciò lì. Longanesi era capace di freddezze assolute. Quando Longanesi morì Cardarelli disse: “È l'ultimo dispetto che potevi farmi”».

E veniamo a uno che la nomea di evitabile l'ha avuta per decenni, Mario Praz.

«La casa della vita era il più grande libro italiano dopo Lemmonio Boreo di Soffici. Ma quell'anno, era il '59, il premio andò a Il Gattopardo. Scrissi una recensione, me ne ringraziò, e iniziò il nostro rapporto. Antidemocratico d'istinto. Timido, piede caprino, occhio torto. Una volta andai da lui, vidi una magnifica libreria, gli chiesi di copiarla. Mi disse: “Pensi che l'ho copiata dal duca di Bedford”. È questa qui». 

La sua passione per il collezionismo?

«Io credo nelle cose, non credo negli uomini».

Regalò una moneta d'argento a Nguyen Cao Ky, primo ministro sud-vietnamita dal '65 al '67...
«Inviai a Ky un esemplare delle due lire d'argento del 1923, col fascio littorio e la scritta “Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”. Avevo una mia idea della guerra in Vietnam. Convinsi, con fatica, Tedeschi e Giovannini a spedirmici come inviato».

Quale idea?

«Stavo con i vietnamiti del Sud, gravati dalla divisa americana. Capii che il vero coraggio stava dalla loro parte: considero i sudvietnamiti come la RSI».

Il suo incontro con Ky...

«Sapeva che non avrebbero vinto. Come premio i generosi americani gli diedero una pompa di benzina. Gli americani sono il peggio, peggio dei russi. E ora sono contento perché rimarranno fregati dai cinesi».

In Vietnam incontrò Susanna Agnelli...

«Egisto Corradi e io credevamo fosse arrivata come crocerossina. E invece era lì, puntualizzò, come inviata da una lega di società di Croce rossa. Approfittava dei mezzi di trasporto degli americani ma stava con i vietcong. Piena di snobismi, raccontava delle serate con Moravia e la Maraini chiamandoli Dacia e Alberto. Mi venne alla mente la delicata poesia di Dacia: “Ti orinerò sulle mani, mio tanto amico...”».

Per lei la guerra è continuata.

«Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l'altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».

Come?

«Nel 1970, quel farabutto di Willy Brandt volle fare un regalo in danaro al Vaticano, in occasione della sua visita a Roma. Quando i tedeschi cercarono di capire le reazioni, raccontai che un importantissimo vescovo lituano faceva notare che si aspettava molto di più da una potenza come la Germania. Tutti credettero all'esistenza di questo vescovo...».

venerdì 1 febbraio 2013

Elezioni. Ci toccherà rivotare entro l’anno. Sempre meglio della grande coalizione


Prepariamoci a votare un’altra volta entro l’anno o, al massimo, nei primi mesi  del prossimo. Non ci ha dato di volta il cervello. È l’ipotesi che ragionevolmente si profila sulla base dei sondaggi di opinione e delle analisi degli osservatori. Lo spettro dell’ingovernabilità, infatti, si allunga sull’esito della consultazione elettorale e precipita nell’umore più nero i partiti. Tutto dipende dal risultato nelle cosiddette regioni in bilico.

Dato per acquisito il Veneto al centrodestra, restano la Lombardia e la Sicilia a determinare la maggioranza al Senato. Basta che una delle due, più probabilmente la prima, venga conquistata dal centrodestra ed il gioco è fatto. C’è anche chi ritiene pericolante per Bersani la Campania, ma non credo: la composizione delle liste berlusconiane  è stata talmente demenziale da aver regalato in anticipo la vittoria a Pd e a Sel nonostante il disturbo di Ingroia. Adattiamoci, dunque, all’idea che a Palazzo Madama il centrosinistra non avrà la maggioranza e, pertanto, Berlusconi, entrato in campagna elettorale già battuto, potrà cantare vittoria come se avesse ottenuto la maggioranza assoluta.

Se le urne dovessero sancire l’ingovernabilità, è chiaro che la responsabilità ricadrebbe sulla classe politica che in cinque anni, prendendo in giro i cittadini, non ha voluto riformare la legge elettorale varata nel 2005 dal centrodestra, in particolare per impulso di Casini e del suo partito che trovarono nel leghista Calderoli un efficientissimo esecutore. Allora l’obiettivo, certamente non voluto, ma prevedibile, previsto e denunciato fu di impedire un chiaro esito del responso delle urne e rendere problematica la costruzione di maggioranze omogenee in entrambi i rami del Parlamento.

I risultati del 2008 sembrarono tuttavia smentire ciò che si era già verificato due anni prima, quando vinse per pochi voti la coalizione guidata da Romano Prodi, che ottenne soltanto tre seggi in più al Senato. Poi la scissione del gruppo di Fini palesò tutta la fragilità di un sistema che poteva essere sconvolto, per le ragioni più varie, proprio in virtù di una normativa che non lo metteva al riparo dal trasformismo. Una storia che si può ripetere, sia pure in altre forme rispetto ai possibili cambi di casacche che abbiamo visto nel passato.

Può accadere, infatti, che due formazioni concorrenti non essendo autosufficienti al Senato (alla Camera il problema non si pone perché il premio viene attribuito su base nazionale e non regionale) decidano di allearsi al fine di costituire una maggioranza che il voto non ha sancito.

Se, come come tutto lascia prevedere al momento sulla base dei sondaggi, Pd e alleati non avranno la maggioranza al Senato, la governabilità, per quanto traballante, potrebbe essere assicurata solamente (e brevemente) da un patto tra Bersani e Monti. I quali, pur invocandone l’inevitabilità, smentirebbero la loro alterità, per dar vita ad un pasticcio indigesto ai rispettivi elettorati.

Che il legame tra sinistra e centristi, a prescindere dalle forme che assumerà, sia nell’ordine delle cose, si evince dall’atteggiamento che hanno assunto nel confrontarsi: da avversari che sanno di doversi incontrare, nonostante le fibrillazioni degli ultimi giorni dovute alle polemiche scaturite dallo scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Certo, resta la preconcetta ostilità di Vendola e della Cgil nei riguardi del Professore, ampiamente ricambiata, ma Pd e Monti una qualche forma di composizione  dovranno ingegnarsi a  trovarla se non vogliono che la legislatura duri meno di un anno, con buona pace di Fini e di Casini che inevitabilmente faranno da stampelle alla sinistra. Non è detto che il progetto riesca. Ma non essendovi la possibilità di formare maggioranze alternative -  la soglia è di 158 senatori – non resterebbe che tornare al voto.

E allora? Più perniciosa delle elezioni a breve scadenza sarebbe soltanto un’altra “grande coalizione”. Dal novembre 2011 molta acqua, per lo più inquinata, è passata sotto i ponti della politica italiana e non v’è emergenza che tenga in grado di rimettere su un teatrino di quart’ordine. Consapevoli della catastrofe politica che si prospetta, è fatale che gli investitori si tengano alla larga dall’Italia, che l’Unione europea riprenda a guardarci con diffidenza, che il Fondo monetario internazionale paventi effetti disastrosi derivanti da una recessione fuori controllo aggravata da una crisi politica senza sbocchi.

Si tornerà, dunque, alle elezioni? Sarebbe la sola cosa da fare. Ma con una seria legge elettorale. Impossibile? Qualcuno dovrà pure farla. Magari, forzando la Costituzione, addirittura per decreto. Lo stato di necessità impone l’eccezionalità. Non c’è altra soluzione. A meno che non si voglia ripetere in farsa la tragedia di Weimar con la prospettiva di un comico o di un demagogo a Palazzo Chigi, in attesa che la rivolta popolare divampi.

(di Gennaro Malgieri)

MPS e Goldman Sachs


È noto che i guai di Montepaschi iniziarono nel 2007, quando acquisì la banca Antonveneta per 10,3 miliardi di euro, una cifra che prosciugava interamente il capitale sociale. Antonveneta era stata venduta ad ABN-Amro per circa un terzo di quella cifra, e poi rivenduta al Banco Santander per poco più di 6 miliardi. Nello stesso anno, Santander la rivendette a MPS ad un prezzo maggiorato di tre miliardi.

Per coprire l’esborso non bastò l’aumento di capitale di 5 miliardi. MPS concluse una serie di scommesse derivate che non andarono a buon fine. Per mascherare le perdite in bilancio, MPS sostituì le vecchie scommesse con delle nuove, che immediatamente portavano soldi freschi, ma a scadenza sarebbero state perdenti per MPS, e il buco sarebbe aumentato. Sono noti almeno due di questi contratti: uno, chiamato Progetto Santorini, stipulato con Deutsche Bank, e l’altro, chiamato Alexandria, stipulato con Nomura. Si ritiene però che questo sia solo la punta dell’Iceberg.

Come mai MPS si avventurò nell’operazione Antonveneta, sborsando tre volte il valore della banca e dissanguandosi quando oltretutto era scoppiata la crisi finanziaria mondiale? La risposta potrebbe darla la Goldman Sachs, che fu “coordinatore globale” dell’acquisto. Ma Goldman era anche stata advisor di ABN nella prima acquisizione, quella osteggiata dal governatore Antonio Fazio che a causa di quella vicenda, come è noto, fu costretto a dimettersi.

Capo dell’ufficio europeo di Goldman Sachs all’epoca dell’accordo ABN-Antonveneta era un certo Mario Draghi, lo stesso Draghi che, nel dicembre 2006, sostituì il dimissionario Fazio. Lo stesso Draghi che era responsabile della supervisione bancaria quando MPS truccò il bilancio per mascherare le perdite sui derivati.

Ora Draghi dovrà rispondere del suo operato, assieme all’attuale governatore Visco e a Mario Monti il quale, come ha rilevato l’ex ministro Tremonti, ci teneva tanto a far approvare il pacchetto salva-MPS da averci posto la fiducia.

Il ministro del Tesoro Vittorio Grilli ha indirettamente confermato le accuse di Tremonti, affermando che i guai di MPS “non sono un fulmine a ciel sereno. Sappiamo da un anno che la banca è in una situazione problematica”.

(fonte: www.movisol.org)

giovedì 31 gennaio 2013

Così i fascisti di Salò furono macellati


Riemerge dalle nebbie del passato uno dei momenti più cruciali e crudeli di quella tragedia che fu la fine del fascismo. Il momento è quello in cui, sul lungolago di Dongo, il 28 aprile 1945, quindici prigionieri furono messi a morte spicciativamente, per i loro trascorsi fascisti, dopo un simulacro di giudizio. 

Tra i quindici erano gerarchi maggiori o minori - Alessandro Pavolini e Ferdinando Mezzasoma in particolare -, un bizzarro ex comunista e perseguitato dal regime come Nicola Bombacci, poi riavvicinatosi a Mussolini, e un personaggio, Marcello Petacci, sul quale Walter Audisio (il «colonnello Valerio») aveva messo gioiosamente le mani. Credeva fosse Vittorio Mussolini, il primogenito del Duce. Chiarito lo scambio di persona, il colonnello ritenne che comunque il Petacci meritasse la pena capitale, per essere fratello di Claretta, assassinata poco prima. E ancora il capitano pilota dell'aeronautica militare Pietro Calistri - del quale ancora oggi non si capisce perché sia finito a quel mondo - e il segretario del Duce, Luigi Gatti.

All'esecuzione spietata e affrettata seguirono, per i ricorsi di familiari degli uccisi, inchieste e processi. Che ebbero la sorte toccata infallibilmente a tutte quelle vicende giudiziarie: la rubricazione come atti di guerra e l'archiviazione, nel 1967. Ai processi per gli ammazzamenti s'intrecciò l'interminabile e inutile processo sull'oro di Dongo. Insieme al sangue vi furono certamente passaggio e poi dispersione e trafugamento di denaro, bagagli con valori incamerati così come gioielli, sterline d'oro e marenghi a migliaia. Il Pci, che aveva gestito l'operazione Dongo, affettò sorpresa e indignazione quando si trattò di rendere conto del «tesoro».

Il faldone in cui era conservata quella documentazione - con testimonianze anche di Palmiro Togliatti, Sandro Pertini, Ferruccio Parri, Enrico Mattei - è stato salvato da una possibile distruzione, come ha raccontato ieri il giornalista Stefano Ferrari sulle pagine del quotidiano La Provincia di Como. E con i documenti sono state salvate tre agghiaccianti fotografie - rarissime, una addirittura inedita - scattate pochi istanti prima che la scarica del plotone d'esecuzione falciasse le vittime. Per la verità almeno uno dei giustiziati, proprio il medico Marcello Petacci, non fu abbattuto insieme agli altri. Il Petacci era arrivato a Dongo, con spaventosa incoscienza, insieme alla compagna Zita Ritossa e ai due figli. I fascisti duri e puri non lo vollero insieme a loro, considerandolo non un fedele del Duce ma un profittatore del regime. Forse riteneva che l'avrebbero risparmiato perché nulla di grave poteva essergli addebitato. Quando s'accorse che i giustizieri erano risoluti a farlo fuori, sfuggì a chi lo custodiva - era giovane e robusto - e tentò la fuga gettandosi nel lago. Lì fu crivellato di colpi. La compagna e i bambini lo videro morire da una finestra dell'albergo dove erano alloggiati.

Le istantanee di quel 28 aprile 1945 sono terribili. Nessuna pietà, nessuna parvenza di umanità e di vera legittimità. Furono giorni di una mattanza spietata e volubile insieme: Ferruccio Parri la definì «macelleria messicana». La sorte dei fascisti braccati dipese spesso da circostanze fortuite (o da decisioni fortunate, come quella del maresciallo Rodolfo Graziani che evitò astutamente l'autocolonna diretta a Dongo e riuscì a consegnarsi agli angloamericani). Fu un periodo che ebbe l'ambizione d'essere rivoluzionario, che da molti anche oggi viene descritto come rivoluzionario ed eroico, ma che della rivoluzione spartì solo in minima parte i connotati positivi: l'ardore del nuovo, la genuinità delle convinzioni e delle passioni, la speranza del futuro. Ne ebbe invece i connotati peggiori, la ferocia e la vendetta.

A chi sottolinea gli aspetti truci, e in casi non rari delinquenziali, della purga post-liberazione viene opposto un argomento ritenuto decisivo e che tale non è. L'ansia di eliminare fisicamente i fascisti catturati, la volontà di non consegnarli agli alleati - quasi che gli alleati avessero combattuto in favore del fascismo - derivarono dalle nequizie di cui i «repubblichini» si erano resi responsabili. Anche loro con messe a morte crudeli. La grande purga fu probabilmente inferiore alla cifra - trecentomila morti è a fantastic exaggeration secondo gli angloamericani - suggerita da certa pubblicistica nostalgica. Ma Giorgio Bocca, non certo un estimatore del Duce, ritenne verosimile il bilancio di quindicimila uccisi. Che è di per sé impressionante soprattutto perché è un bilancio «a guerra finita».

(di Mario Cervi