sabato 27 febbraio 2010
venerdì 26 febbraio 2010
Il pallone è al fischio finale
giovedì 25 febbraio 2010
mercoledì 24 febbraio 2010
Leggere il Secolo: la destra legalista balla in maschera, ma di Quaresima
A corte i missini hanno trovato Silvio Berlusconi, una durevole coda di cometa craxiana sulla cui scia è stato possibile improvvisarsi nuova classe dirigente per quindici anni, e diventarlo perfino in non rari casi. Oggi l’astro del berlusconismo, come ogni fenomeno soggetto alle leggi della natura, sembra emanare una luce tremula simile a quella delle stelle lontane il cui spegnimento si può percepire soltanto a una certa distanza temporale dal processo di consunzione. Nel frattempo il presidente della Camera ha preso a brillare di luce politica propria, come testimoniano la baldanza dei suoi seguaci e il nervosismo dei suoi avversari. In condizioni di normalità, ci si dovrebbe predisporre all’ineluttabilità di un avvicendamento controllato.
Ma oggi – ecco il punto – il ceto dirigente patisce un malanno simile a quello del 1992, non può negare che il malcostume e il malaffare hanno messo nuove radici e sono saldamente avviticchiati al tronco della cosa pubblica. Lo stato d’emergenza è ingigantito dalla guerriglia psicologica dei mezzi d’informazione che tornano a evocare la parola totemica di tutte le rivolte senza rivoluzioni: corruzione. Il flusso di coscienza giustizialista è già in moto e, come un magnete attivo, attrae il consenso subliminale del cittadino-elettore. Il risultato, salvo clamorosi rivolgimenti giudiziari, è che per la destra legalista di Fini si aprono larghi spazi di azione e si accorciano le distanze che la separavano dall’assunzione di più alte responsabilità istituzionali. Ma insieme con questa consapevolezza si riaccende la memoria biologica di Tangentopoli, si riaffacciano certe pulsioni sopravvissute alla rottamazione dell’Msi e di Alleanza nazionale. Le stesse pulsioni che ispirarono a suo tempo il lancio delle monetine contro Bettino Craxi e il girotondo intorno a Montecitorio al grido: “Arrendetevi, siete circondati”.
Questa ansia moralizzatrice dirige inevitabilmente anche contro i colleghi berlusconiani, più esposti nel tiro al bersaglio delle procure, macilenti e disordinati nel cozzar d’armi. Il Cav. per primo ha aperto la propria cittadella all’urgenza di misure correttive. Così i finiani ora in groppa a questa urgenza scorazzano, dal capo in giù, reclamando una pulizia etica interna al Pdl, maggior rigore nella selezione della nomenclatura, ostracismi per i rinviati a giudizio, addirittura un codice dettato dall’antimafia. Il Secolo d’Italia, quotidiano di Fini, ieri conteneva appunto questo sillabario da casa circondariale sussunto ai piedi d’un titolo d’apertura che richiamava vagamente l’operosità leninista: “Corruzione, che fare?”. Anche qui: in condizioni di normalità l’autodisciplina e l’autocensura imposte per decreto sono benedette. Ma nell’attuale circostanza, in mancanza di un disegno armonico concordato con i berlusconiani, suonano come l’ammissione che ci sarà bagarre domestica, che ci si sta piegando alla voluttà di affondare un colpo di grazia.
Non tutti i finiani ragionano così. I riflessivi come Alessandro Campi si pongono il problema di conciliare l’esigenza di moralità con il bisogno di evitare la convergenza delle linee di frattura politico-giudiziarie ed economiche altrimenti destinata a scatenare una sincope di sistema. Quanto a Fini, dovrebbe sapere che anche alla più credibile delle maschere non basta un canovaccio di fama internazionale, se poi intorno gli crolla il teatro.
(di Alessandro Giuli)
lunedì 22 febbraio 2010
Questi cristiani che vengono uccisi
Lo straordinario pamphlet del giornalista francese Guitton, “Cristianofobia”, che in Italia esce per Lindau, in Francia ha avuto il grande merito di porre il tema della nuova persecuzione dei cristiani come “uno dei drammi del XXI secolo”. A Parigi, presso una delle case editrici più in vista, Flammarion, il libro è stato pubblicato col titolo di “Ces chrétiens qu’on assassine”, ovvero “Questi cristiani che vengono uccisi”. Duecento milioni di persone, secondo le stime di International christian concern, una ong americana tra le più impegnate nella difesa della libertà religiosa dei cristiani, perseguitati per la propria fede. Questo pamphlettista laico ha saputo spezzare la cappa di silenzio che regna sull’eccidio dei cristiani. Le Figaro ha definito il suo saggio “un libro che farà storia”.
In Francia René Guitton è una vera e propria autorità in ambito culturale. Per anni è stato corrispondente della televisione France 2 dal Marocco, produttore delegato al Grand Prix Eurovision, direttore generale delle dizioni Hachette e della prestigiosa casa editrice Calmann-Levy. Nel libro si lancia un richiamo alla coscienza ipocrita dell’occidente dei “mai più”: “Il nostro silenzio in proposito ricorda altri silenzi di sinistra memoria, e nel giro di due o tre decenni provocherà forse nuovi imbarazzati appelli al pentimento e dichiarazioni di rimpianto per non aver voluto far affiorare una verità che doveva essere resa nota a tutti”.
Guitton non è tacciabile di clericalismo quando pone il tema rovente del nuovo martirio cristiano. Se la prende infatti tanto con una certa omertà cattolica, che implica “una svalutazione implicita e sistematica del cristianesimo”, quanto con “i nuovi professionisti dell’anticristianesimo, intolleranti e irrispettosi delle credenze di coloro che hanno la sfortuna di non pensarla come loro”. Il libro non infinge sull’islam e già questa è una felice rarità nella saggistica europea.
Da parecchi decenni, e in misura crescente oggi, i cristiani mediorientali sono obbligati al silenzio, vittime di uccisioni e persecuzioni e fughe di massa, è loro impedito di esprimersi e di praticare la propria fede; inoltre, i loro luoghi di culto e i loro cimiteri sono oggetto di profanazioni. Per esempio, un musulmano non può sposare un non musulmano a meno che questi non si converta all’islam; la moglie di musulmano, se resta cristiana, perde ogni diritto all’eredità del marito e la custodia dei figli in caso di separazione o di vedovanza. La vendita di bibbie in lingua araba è proibita. Guitton questa nuova persecuzione la chiama eloquentemente “tragedia non alla moda”, spiega perché “l’occidente non vuole sentir parlare di quei paria, sforzandosi di espiare il proprio passato coloniale”. Soltanto nella settimana di uscita del libro quattro cristiani sono stati assassinati in Iraq. Il libro di Guitton è il luttuoso, disperante tentativo di dare voce ai “dimenticati”. Prima che il medio oriente si svuoti del tutto dei suoi aborigeni in questa guerra combattuta a fari spenti dall’internazionale islamista. Vittime di una persecuzione globale, quotidiana, amorfa. Mostruosa.
(di Giulio Meotti)
Pazienza (quasi) finita
Come è successo al festival di Sanremo e agli emanueli filiberti, anche il livello di attenzione alla politica è alto, ma il livello di consenso alla politica è ai minimi storici. Nella migliore delle ipotesi, che coincide poi con la peggiore, i grandi ascolti vogliono dire che questo Paese si rispecchia e si ]riconosce perfettamente nel degrado dei partiti e dei poteri. Ma questo non consola, semmai aggrava la situazione; e impone a chi ha qualche possibilità di incidere sulla realtà una responsabilità in più. Se il Paese degrada come la sua classe dirigente, è dalla classe dirigente che si deve ricominciare per reagire e rimediare. Perché una classe dirigente non deve solo rispecchiare il Paese ma deve anche guidarlo.
Altrimenti non dirige ma domina, esercita un potere ma si sottrae alle sue responsabilità. Le elezioni regionali stanno aggravando la situazione, offrendo uno spettacolo avvilente: si narra di candidature comprate e pagate il doppio, il triplo dell’indennità che gli eletti riscuoteranno lungo tutto il mandato; giri di affari e malaffari paurosi all’ombra dei cartelli elettorali, conflitti interni feroci, guerre tra bande, conditi di boicottaggi e colpi bassi. Dei partiti resta solo un residuo associativo di stampo mafioso.
È stato facile in questi anni esaurire la questione politica al caso Berlusconi, scaricarsi delle responsabilità di un’intera classe dirigente adducendo l’alibi che c’è lui, la sua personalità forte e pervasiva, l’impronta monarchica del suo comando. In realtà appena lo sguardo si sposta da lui al resto, o meglio ai poco amabili resti della politica e dei poteri, ti accorgi che la china è tremenda. Degrada la qualità della classe dirigente, il ricambio è prevalentemente in basso, una selezione a rovescio premia sempre il peggio e un darwinismo perverso promuove la sopravvivenza del più losco o del più inetto. Berlusconi è stato il generoso ombrello, l’alibi comodo dietro cui rifugiarsi per osannarlo o attribuirgli tutti i mali del Paese. Ma un Paese non si può ridurre a una persona, un complesso intreccio di poteri politici e giudiziari, locali e culturali, civili e amministrativi, non può essere nascosto all’ombra di Re Silvio, dei suoi processi e del gossip su di lui.
Questa è una chiamata alle armi e per la prima volta dopo tanto tempo non è rivolta a uno schieramento contro un altro, e nemmeno moralisticamente agli onesti contro i disonesti perché ci sono troppe zone grigie: ma più realisticamente a chi si accorge che di questo passo il Paese si sfascia e chi invece nello sfascio ci guazza e pensa di trarre ancora giovamento.
Non si tratta nemmeno, come avrete capito, di ingaggiare una guerra pro o contro i magistrati, perché il conflitto attraversa pure i tribunali e divide i magistrati non in rossi o bianchi, non in corrotti e integerrimi, ma tra chi si accorge che questo ciclone spazzerà via anche la loro credibilità e chi invece vive nell’occhio del ciclone e gode dei suoi immediati benefici. Ma la visibilità e il potere di oggi rischiano di ribaltarsi in condanna e vituperio domani.
Pensateci voi che avete qualche possibilità di reagire al degrado. Reagite in tempo. Ognuno faccia la sua parte secondo le sue possibilità e il suo ruolo. Noi che scriviamo abbiamo il dovere di denunciarlo a chiare lettere, di sospendere per un momento conflitti e schieramenti per concentrare l’attenzione pubblica e di ciascuno sulla Priorità Assoluta, la Svolta.
Fermate la discesa verso il collasso, selezionate contenuti, persone e programmi sulla base della qualità, del merito e dell’efficacia, invertite la tendenza all’imbarbarimento e all’involgarimento, non barricatevi nei vostri clan e nelle rendite di posizione, assumetevi le vostre responsabilità rispetto al domani. Questo è un Paese già povero di futuro, senza figli, pieno di vecchi e gonfio d’immigrati; date una scossa, non aspettate la mazzata finale.
(di Marcello Veneziani)
domenica 21 febbraio 2010
Bestemmie vietate? Ma il calcio è lo sfogo dell’aggressività
Ciò porrà all’arbitro difficili problemi esegetici se non addirittura epistemologici. In Veneto, per esempio, si usa molto spesso la formula "Porco Zio!". È da considerarsi una bestemmia o no? E nel dubbio ("in dubio pro reo") l’arbitro si limiterà ad estrarre un meno drastico cartellino giallo? Saranno particolarmente penalizzati i giocatori toscani perché in Toscana la bestemmia, che assume le forme più fantasiose, è un intercalare così comune da perdere, di fatto, ogni significato blasfemo. C’è poi il problema di Cristo. Se grido al mio compagno "Cristo, passami un po’ quella palla!" va considerata bestemmia o derubricata a un "non nominare il nome di Dio invano" punibile con un’ammenda?
Da domenica saranno punibili, per coerenza, anche i plateali ringraziamenti a Dio dopo un gol segnato (mentre credo che tutta la difesa avversaria sarà espulsa in blocco), per esempio inginocchiarsi e alzare le braccia al cielo. Proibite anche le scritte sotto la maglia di contenuto "personale, politico e religioso". Vada per il politico, ma così se ne vanno i saluti al figlio appena avuto, al papà morto da poco, le dichiarazioni d’amore.
Per quanto riguarda la bestemmia saranno favoriti i giocatori stranieri, in particolare scandinavi o i neri del Ghana e del Mali perché è molto difficile che l’arbitro, per quanto preparato, conosca lo swaili. Si potrebbe ovviare ingaggiando una batteria di traduttori, in campo e in moviola, contribuendo a lenire il problema della disoccupazione. E se a un giocatore, che ha preso un terribile pestone, scappa un’istintiva, umanissima bestemmia lo puniremo lo stesso o gli concederemo le attenuanti generiche? Infine, la Figc ha deciso di punire anche gli sfottò fra avversari. Insomma, si vuole fare del terreno di gioco un luogo da educande o per ragazzi educati a Oxford. Ma il calcio non è un club per distinti signori inglesi che giocano a whist o al bridge dove, al massimo, si dice "due picche". È una metafora della guerra. I giocatori sono in "trance agonistica" e non si può pretendere da loro un simile autocontrollo.
Così come sono contrario alla repressione delle intemperanze dei tifosi quando si limitino, come per i giocatori, al piano verbale. Il campo di calcio, la partita, è anche un luogo dove poter sfogare la propria naturale, e vitale, aggressività. Non si può pretendere di eliminare del tutto la violenza. Si può cercare di canalizzarla in modo da poterla controllare e tenere sotto una soglia accettabile. Come sapevano bene le culture preilluministe, che si erano inventate la festa orgiastica, il Carnevale, la guerra ritualizzata (chiamata "rotana" fra i neri africani in contrapposizione alla "diembi", la guerra vera) o, nella Grecia antica, l’istituto del "capro espiatorio" che non per nulla porta il significativo nome di "pharmakos", medicina. Nella modernità il calcio ha anche questa funzione. A comprimere troppo l’aggressività naturale che è in noi, finisce che poi esplode di colpo, nel modo più mostruoso, come nei delitti delle villette a schiera per una lite di condominio.
(di Massimo Fini)
sabato 20 febbraio 2010
Se amare diventa aiutare a morire
Il caso Crisafulli, il caso Gosling, il caso Purdy, il caso Ewert, perfino l’anniversario del caso Englaro, del caso Welby e centinaia di altri casi. Più partecipi si fanno poi i racconti se i morenti e i loro aiutanti sono omosessuali, come se l’amore più puro fosse quello che non può procreare, cioè dar vita. L’atto supremo d’amore è considerato dar la morte al proprio partner malato.
Non leggo mai elogi a chi decide di vivere nonostante le condizioni estreme di vita o a chi procrea pur con una gravidanza a rischio mortale; solo elogi e comprensione a chi decide per la morte. Vedo poi una serie di film e interi scaffali in libreria dedicati al libero morire, al testamento biologico, al suicidio. Quasi tutti orientati in favore dell’eutanasia. È impressionante notare come il tabù della morte su cui è fondata la nostra epoca, ovvero la scomparsa del morire dai nostri orizzonti, il tacere, eludere, rimuovere la sua rappresentazione e perfino la parola, si sia d’un tratto rovesciato in un diffuso accanimento mortuario.
A ben vedere, però, si tratta di uno slittamento di senso perché il nodo naturale e soprannaturale del morire cade in secondo piano rispetto alla nostra libertà di decidere e di recidere il legame con la vita. Non dunque una cogitatio mortis, un pensare la morte, ma una rivendicazione della nostra sovranità sul morire. Sul tema non riesco ad avere opinioni nette e chiare, e non invidio coloro che le nutrono perché in quell’incertezza colgo il segno della condizione umana. Riesco solo a distinguere tra la sfera pubblica, comunitaria, e la sfera, non dirò privata, ma interiore, intima, personale.
Per la prima continuo a pensare che compito di un medico, di un ospedale, della legge e dell’autorità, della società e delle sue agenzie civili e religiose, sia quello di essere dalla parte della vita. E dunque di proporsi comunque di salvaguardarla, di scommettere sulla vita fino in fondo; evitando certo lo strazio dell’accanimento terapeutico ma tutelando quel fil di vita fino a che è possibile. E dunque reputo l’eutanasia a norma di legge un pericoloso cedimento allo spirito di morte che aleggia nella nostra società e fa il paio con la denatalità, gli amori sterili e la disperata opulenza.
Il suicidio dell’occidente di cui scriveva James Burnham mezzo secolo fa diventa orizzonte comune ad altezza di singolo. I confini dell’eutanasia sono poi incerti e insidiosi; a volte si citano casi estremi per far passare gradualmente l’idea che sia possibile liberarsi di vite malate o semplicemente stanche, di rami secchi e di pesi morti, che magari possono essere utili magazzini di ricambi per trapianti d’organi vitali. Un po’ quel che avviene nel girone inverso con l’aborto. Insomma, forme larvate di suicidio.
Invece è bene ricordare, prima della cristianità, la concezione pagana della vita come milizia, che fu di Cicerone; cioè l’idea che non si possa disertare, perché la vita non è solo nostra e ai suoi confini estremi non ci appartiene: ci fu data, ci sarà tolta. Amor fati, amate il vostro destino. Ai giovani tentati dal suicidio esorto all’avventura, al rischio in proprio, non a spese altrui, s’intende: giocatevi la vita più che buttarla via. Però se passo dal piano pubblico della civiltà al piano personale e interiore, allora il discorso assume altre prospettive.
È in gioco la dignità del vivere e del morire, il nostro umanissimo desiderio di non trascinarci come ombre di noi stessi e larve d’uomini, di non soffrire e di non far soffrire. Ti risalgono nella memoria e negli occhi il gesto o le ultime parole di una Cara Morente che ti chiedeva di essere portata a casa e poi fa il segno con l’indice e il medio di una forbice, come a tagliar la spina. Ti risalgono le parole di un Vecchio malato che si chiama la morte ogni giorno, pur avendone terrore, e ripete: che senso ha vivere ancora così malandato e vecchio. E tu ti vergogni nel primo caso se non hai il coraggio di assecondarla e ti attacchi invece a quel fil di vita; o nel secondo ti vergogni quasi a sperare, anche se lo ami quasi più di te stesso, che il vento se lo porti via e assecondi il suo desiderio di partire. Perché quello è il desiderio che coltivi anche per te stesso, di non trascinarti quando la vita diventa solo l’ombra del morire.
E allora, nei casi estremi, è possibile assumere sul piano personale una decisione tragica, ma senza pretendere il conforto della legge e della religione e il consenso della società e delle istituzioni. Ti assumi tutte le responsabilità della scelta e le conseguenze; un giudice rigoroso e misericordioso ti condannerà anche simbolicamente, sancirà un verdetto e un principio ma non pretenderà di aggiungere pena a dolore. Sul piano personale arrivi perfino a capire l’uso antico in certe popolazioni dei vecchi che si allontanavano dalla comunità per lasciarsi morire in disparte e riprendi un’idea fatalista che allarga a dismisura i confini dell’accanimento terapeutico. Poi però torni nella sfera pubblica, leggi tutti quei discorsi in favore del morire e ricordi quel piccolo, forse indecifrato, episodio accaduto giorni fa a Salvatore Crisafulli, da sette anni ridotto in condizioni quasi vegetative, ma con residua lucidità. Gli avevano chiesto di chiudere le palpebre se desiderava vivere e di tenerli aperti se invece, come sembrava, desiderava morire.
Mi era parsa un’inversione rituale, quella richiesta: sarebbe più giusto che chi vuol vivere tenga gli occhi aperti, chi vuol morire li chiuda. Poi però mi sono ricordato dell’Imperatore Adriano che voleva entrare nella morte ad occhi aperti e allora ho capito che forse era più giusto il contrario, chiudere gli occhi per continuare a vivere. E lui, Salvatore, li ha chiusi, come a offrirsi ciecamente alla sorte e alla vita.
Che volete, provo più tenerezza e trovo più amore in quel battito di ciglia in favore della vita, piuttosto che in quel cuscino con cui Gosling ha soffocato il suo compagno malato per non farlo più soffrire. Umani entrambi, per carità, e meritevoli di pietas ambedue; ma nel primo c’è forse una piccola traccia di divino, nascosta in un alito di vita ulteriore.
(di Marcello Veneziani)
giovedì 18 febbraio 2010
Wall Street aiutò la Grecia a nascondere il debito
martedì 16 febbraio 2010
Francia, sotto la bandiera niente
Il primo ministro François Fillon ha annunciato che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, definita «esemplare», sarà affissa in ogni aula scolastica, che gli allievi riceveranno il «taccuino del giovane cittadino» e intoneranno la Marsigliese «almeno una volta l’anno», che d’ora in poi nei municipi ci sarà una cerimonia di naturalizzazione «all’americana» e che all’esercizio della cittadinanza s’applicherà una «logica simile a quella del codice stradale: formazione, prevenzione, sanzione».
Chi voleva risposta alla domanda «Che cosa significa essere francese?», che pure era stata posta, è rimasto deluso. Nessuna risposta, per la semplicissima ragione che non ci poteva essere.
Però il dibattito era atteso. Secondo una recente inchiesta, per il 76% dei francesi l’identità nazionale francese esiste. Per definirla - varie risposte erano possibili -, il 30% degli interpellati citava dati culturali, il 28% criteri geografici, il 24% elementi storici, il 21% fattori istituzionali e politici, il 20% «valori umanistici» e solo il 3% fattori religiosi.
Non è per caso che Sarkozy ha lanciato il dibattito a pochi mesi dalle elezioni regionali di fine marzo. Nel 2007 la campagna presidenziale gli aveva mostrato che i francesi erano sensibili al tema dell’«identità nazionale», quindi la possibilità di sfruttarlo per sottrarre voti al Front national. Ha così replicato la manovra, dando di nuovo un segnale agli elettori di destra. Ma invano. Mentre la sinistra affermava che il dibattito avrebbe avuto come sola conseguenza «stigmatizzare» un po’ di più i cinque-sei milioni di musulmani oggi residenti in Francia, la destra s’è vista escludere sistematicamente dal dibattito, sia su Internet, sia in occasione delle 350 riunioni organizzate nelle prefetture e nelle sotto-prefetture. Ogni critica all’immigrazione è stata subito censurata, mentre era stato annunciato che il dibattito si sarebbe svolto «nel rispetto della libertà di parola di ognuno».
Preso fra esigenze contraddittorie, il governo ha soprattutto voluto dare compensi a chi contestava il principio stesso del dibattito. Perciò s’è costantemente dedicato a ridurre l’«identità nazionale» ai «valori repubblicani» (laicità, difesa dei diritti dell’uomo, ecc.), legati solo a un momento della storia francese e che propriamente nemmeno le appartengono più. Valori sconnessi da ogni filiazione che non sia ideologica, dove per la parola «patria» non c’è più spazio.
La manovra è fallita. L’opposizione di sinistra è rimasta sulle sue posizioni. L’opinione pubblica, all’inizio favorevole al dibattito, è stata profondamente delusa. E il Front national, esce rafforzato, anziché indebolito, dalla flagrante incapacità dei poteri pubblici di dare un minimo di sostanza al concetto d’identità nazionale.
Invitato anche lui a rispondere alla domanda, il ministro dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale, l’ex-socialista Eric Besson, ha finito per fornire questa storica dichiarazione il 5 gennaio alla Courneuve, nella regione parigina: «La Francia non è né un popolo, né una lingua, né un territorio, né una religione. È un agglomerato di popoli (sic) che vogliono vivere insieme. Non ci sono francesi di stirpe, c’è solo la Francia del meticciato». Frasi che confondono. Che contraddicono, fra l’altro, le prime parole della Costituzione della V Repubblica, dove si cita esplicitamente il «popolo francese», e che dimenticano che in Francia la giustizia è amministrata «in nome del popolo francese». Eric Besson ha poi dovuto smentire ufficialmente l’intenzione di convertirsi all’Islam per sposare l’attuale compagna, la studentessa tunisina Yasmin Tordjman, bisnipote di Wassila Burghiba, moglie dello scomparso presidente e padre dell’indipendenza tunisina Habib Burghiba.
Sarkozy - che ha recentemente detto a Poligny, nel Giura, d’essere stato «eletto per difendere l’identità nazionale francese» - scriveva nel suo libro-programma del luglio 2006: «Penso che i francesi aspettino una Francia nuova Una Francia dove l’espressione “francese di stirpe” sia estinta». Nel 1999 aveva confidato a Philippe de Villiers: «Beato te, Philippe, ami la Francia, la sua storia, i suoi paesaggi. Che invece mi lasciano freddo. È l’avvenire a interessarmi». L’esito più chiaro del «dibattito sull’identità nazionale» è dunque che la Francia «non è né un popolo, né una lingua, né un territorio, né una religione». Che cos’è allora? Luogo di transito? Società anonima? Supermercato? A quanto pare, il futuro della Francia è il Brasile.(di Alain de Benoist)
lunedì 15 febbraio 2010
E' Teheran ad avere ragione e la cosidetta comunità internazionale torto
Cosa che l’Iran ha sempre fatto. Quando, un paio di anni fa, riaprì i suoi siti nucleari fu alla presenza degli ispettori Onu. C’è un via vai continuo fra Vienna, dove ha sede l’Aiea, e Teheran di questi ispettori che c’erano anche tre giorni fa quando gli iraniani hanno inaugurato l’impianto di Natanz. L’arricchimento dell’uranio è il passaggio necessario per ottenere il nucleare civile ad usi energetici ma anche medici. Per questi usi è sufficiente un arricchimento al 20%, per l’atomica bisogna arrivare al 90%. Gli ispettori Aiea hanno accertato che, finora, gli iraniani non hanno superato il limite del 20%.
E allora? Gli americani sospettano, senza lo straccio di una prova, che vi siano dei siti segreti sfuggiti agli ispettori. Ma con questa storia del sospetto allora tutti possono essere messi sotto scacco, è una specie di prolungamento della teoria della “guerra preventiva” di George W. Bush. Noi italiani stiamo riaprendo i nostri siti nucleari (se sia giusto o sbagliato non è argomento da affrontare qui) ed è come se una potenza ostile ci intimasse di non farlo perché da lì, in teoria, potremmo arrivare all’atomica. Gli americani obiettano anche che l’Iran ha il petrolio e quindi non ha bisogno del nucleare. A parte il fatto che uno Stato avrà ben il diritto di diversificare le sue fonti di energia senza dover chiedere il permesso agli americani, la BP ha calcolato che entro il 2049 il petrolio sarà esaurito.
Gli iraniani considerano quindi il nucleare civile un loro diritto indiscutibile e su questo non sono disposti a trattare. Sarebbe già una gran concessione, perché lede la loro sovranità, che accettassero di far arricchire il loro uranio in Russia o in Turchia (bei soggettini anche questi, rispettosi dei “diritti umani”). Dice: Ahmadinejad ha affermato che Israele deve “scomparire dalle mappe geografiche”. Affermazioni gravi e inaccettabili, ma sono pur sempre parole. Non sono invece parole i missili atomici israeliani puntati su Teheran e i piani di attacco, anche nucleare, all’Iran di Stati Uniti e Israele svelati dalla stampa americana. E, devo dire, fa una certa impressione vedere paesi seduti su enormi arsenali atomici (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna) far la voce grossa, e indignarsi, con uno che la Bomba non ce l’ha. C’è molta prevenzione e “disinformatia” nei confronti dell’Iran.
Qualche mese fa gli iraniani misero in orbita un satellite per le comunicazioni, un normalissimo satellite come abbiamo anche noi. Subito la “comunità internazionale” gridò all’“allarme” e alla “provocazione”. Idem quando testarono dei missili, missili che abbiamo anche noi. Anche la repressione dell’opposizione , almeno quella dell’11 febbraio, dove, secondo i siti antiregime, la polizia ha sparato in aria, usato spray al peperoncino, catene, manganelli, proiettili di gomma e operato decine di arresti, non mi sembra poi tanto diversa da quanto fece il governo Berlusconi al G8 di Genova.
(di Massimo Fini)
La politica è un poker con le carte truccate
Sarà pure così, ma l’avventura di Dario Lo Gatto, avellinese trapiantato a Torino dove è diventato uno dei maggiori amministratori di condominio della città, e di tutte le figure politiche del centrodestra e del centrosinistra che lo circondano è emblematica di un modo corrente di vedere questo ambiente, sia piemontese che di ogni altra regione italiana. Emblematico quanto il titolo, perché Razz è il nome del poker californiano che si vince con il punteggio più basso. Siamo lì: la genìa rappresentata da Lo Gatto & soci esprime una politica in cui vince chi scende sempre più in basso moralmente, pur se in apparenza abita ai piani alti: dai capigruppo in Comune ai segretari politici locali, ai vicesegretari nazionali, dai sindaci ai prefetti, ai procuratori generali. È tutto un turbinoso incrociarsi di lotte intestine, spesso complicatissime, che servono a fare le scarpe non tanto ai nemici quanto agli amici, con l’unico scopo della carriera politica, costi quel che costi, anche vendendo e prostituendo (sapendo benissimo di farlo) corpi, menti e anime, maschili e femminili. Unico vero nemico è la cultura perché «con la filosofia non si mangia»...
Razz è la storia dell’ignorante ma saccente Dario, coinvolto in una partita di poker più grande di lui che vede dall’altro lato del tavolo massoneria, mafia russa, politica internazionale sotto forma di speculazione edilizia. La bolla si gonfierà, poi esploderà, ma alla fine, grazie a compromessi insospettabili fra politica, magistratura e stampa, si affloscerà. Passata la grande paura ogni cosa ricomincerà come prima. Gli unici a rimetterci saranno Dario, alle prese con un figlio insospettabilmente drogato, e la povera signora Gina, brava a vincere a poker, ma non a sfuggire a una morte che poteva servire a qualcuno e invece non servirà a nulla.
Chiari i bersagli di Grandi: la cosiddetta società civile, arrogante e incolta; la sfrenata corsa al potere a ogni livello; l’assoluta mancanza di onestà, dignità e idealità: l’amicizia è bandita, e l’accordo sotterraneo fra apparenti avversari politici per il bene di ognuno è quasi la prassi; soprattutto il disprezzo per la cultura che si manifesta attraverso un linguaggio sboccato e da trivio. Insomma, un affresco terribilmente impietoso, ma purtroppo veritiero quello di Augusto Grandi che evidentemente certi ambienti li conosce bene.
(di Gianfranco de Turris)
domenica 14 febbraio 2010
Quel ridicolo tentativo di comprare il fanatismo dei talebani afgani
Un piano grottesco. Si può pensare che gente che combatte da otto anni, pagando tributi di sangue altissimi, che ha dimostrato un coraggio straordinario, che controlla, grazie all'appoggio della maggioranza della popolazione, i tre quarti del territorio, che è vicina alla vittoria, rinunci a tutto per "reintegrarsi" in uno Stato inesistente, sottomettersi a un governo fantoccio qual'è quello di Karzai, di cui tutti sanno che non resisterebbe più di 24 ore se le truppe Nato se ne andassero e accettare ciò che più ordiano e contro il quale si stanno battendo: il modello di vita occidentale? Anche il progetto di comprarli, oltre che ignobile, è ridicolo.
Scrive Sartori: "Um fanatismo religioso non è mai comprabile". A parte che c'è da chiedersi se siano più fanatici e integralisti i Talebani e coloro che pretendono di omologare il mondo intero al proprio modello, è vero: i Talebani non sono comprabili. Ci sono infiniti esempi, il più clamoroso riguarda il Mullah Omar. Vinta la guerra nel 2001 gli americani si misero in caccia del Mullah sui cui pendeva una taglia di 50 milioni di dollari. L'individuarono presso certe tribù pashtun e ne chiesero la consegna in cambio della taglia. Con quella cifra da quelle parti, si compra tutto l'Afghanistan e anche un pò di Pakistan. Ma i capi tribù finsero di trattare, per un paio di giorni, per permettere a Omar di guadagnare tempo mentre fuggiva in motocicletta.
Queste conferenze sono del tutto inutili, se non faresche, quando dalle trattative è esclusa la controparte. Una trattativa più seria si è svolta mesi fa in Arabia Saudita, con il patrocinio del re Abdullah; fra emissari di Karzai e del Mullah. Ma è stato Omar a porre le condizioni: 1) Nessuna trattativa può cominciare se prima non se ne vanno gli occupanti stranieri. 2) A Karzai ha promesso solo salva la vita, a lui e al suo clan di corrotti.
In ogni caso, comunque la si voglia rigirare, noi in Afghanistan siamo degli occupanti. Odiati dalla popolazione, checchè ne dicano obbligatoriamente i nostri comandi militari, che non ha mai tollerato dominazioni straniere, e comunque, dopo otto anni di invasione, si rende conto che "stava meglio quando stava peggio", cioè con i Talebani. Tutte queste "exit strategy" o "surge" o altre diavolerie sono solo penosi espedienti per tentare di "salvare la faccia", di non ammettere un errore che è anche un crimine. Lasciamola in pace quella gente. "Lasciamo" come ha detto quel generale russo "che gli afgani sbagliano da soli". Non pretendiamo, con una protervia che non si può definire altrimenti che totalitaria, di sostituire la storia afgana con la nostra storia.
(di Massimo Fini)
E Pisanu organizza la fronda sarda contro Berlusconi
È passato soltanto un anno dalla batosta rifilata a Renato Soru, ma ormai sembra un secolo. E a rischiare l’implosione, a sorpresa, è il Pdl, vittima di uno dei tanti colpi di coda di quel progetto centrista che ha tenuto banco tutta l’estate, arenatosi il giorno dell’aggressione a Berlusconi in piazza Duomo. Da mesi, infatti, l’equilibrio nel partito è saltato, tanto che un terzo dei 31 consiglieri regionali pidiellini, il 13 gennaio, mette a punto un documento ad hoc. Per contestare innanzitutto la gestione romanocentrica di Cappellacci, a scapito della «peculiarità della Questione sarda» e di un’iniziativa all’altezza della gravissima crisi economica che si vive nell’isola. Nel mirino finisce pure la conduzione del gruppo consiliare (affidata a Mario Diana) e la gestione del coordinamento regionale: ovvero, Mariano Delogu - ex An e vicino a Gianfranco Fini, che non nasconde però le sue perplessità nei confronti dei dissidenti - e Claudia Lombardo, vicecoordinatrice vicaria e presidente del Consiglio regionale. Un doppio incarico contestato da Nanni Campus, pronto a porre l’undicesima firma al manifesto frondista, in ritardo però di quasi due settimane. Una scelta che i maligni associano alla mancata nomina ad assessore alla Sanità e al commissariamento dell’Azienda universitaria di Sassari.
Ma chi sono gli altri dieci «ribelli»? E chi c’è dietro la loro alzata di testa, che si traduce pure in un attacco al Cavaliere? I nomi pesanti sono due: Mauro Pili e Beppe Pisanu. Già, l’ex ministro dell’Interno berlusconiano che da mesi suona la «sveglia» e che in più occasioni è stato associato dai rumors al progetto centrista di Casini-Fini-Montezemolo. E che ieri mattina ha riunito i frondisti, portandoli poi a pranzo al ristorante «Da Renzo», nei pressi di Oristano. A tavola pure il sindaco di Cagliari, Emilio Floris, quello di Alghero, Marco Tedde, e alcuni parlamentari.
Fallito il grande sogno del governissimo, che per mesi ha scosso il Palazzo, facendo immaginare un progetto trasversale per disarcionare il premier - vuoi perché Luca Cordero di Montezemolo nega di continuo un suo interessamento alla politica, vuoi perché Fini vive una fase di piena sintonia con il Cavaliere, vuoi perché Pier Ferdinando Casini ha le sue gatte da pelare con la politica dei due forni - a Pisanu non resta dunque che giocare da solo, recuperando quanto più potere possibile in Sardegna. Un tentativo di rivalsa, spiegano diverse fonti isolane, neppure tanto nascosto. Lo testimonia il testo del documento firmato dai contestatori, dove non si cita mai Berlusconi, nonostante sia stato proprio lui il fautore della vittoria di Cappellacci. Con un’aggravante. Quando si prende in esame «la questione meridionale», gli undici consiglieri Pdl sottoscrivono che «sta finalmente tornando all’attenzione del Paese, come attestano le recenti autorevoli dichiarazioni del presidente della Reppubblica e del governatore della Banca d’Italia». Cioè, Giorgio Napolitano e Mario Draghi.
Bene, anzi male. Non stupisca quindi il malumore del Cavaliere - nel weekend forse solo casualmente in Costa Smeralda - cosciente che a maggio in Sardegna si voterà nelle otto Province (una sola è in mano al centrodestra). Ma non finisce qui, è ovvio. Se ne vedranno delle belle già domani, alla riunione del coordinamento Pdl. Convocati anche Cappellacci, Delogu e Lombardo, insieme ai vicecoordinatori (tra cui i deputati Salvatore Cicu e Piero Testoni). E i frondisti? Forse siederanno al tavolo. Ma a quel punto, è difficile che il Mirto faccia la sua comparsa.
(di Adalberto Signore)
venerdì 12 febbraio 2010
Dal nazismo a Buddha: storia dello studioso che ha fatto scandalo
giovedì 11 febbraio 2010
Gad Lerner in tv fa il processo ai cattolici
Inutilmente Messori e Amicone hanno cercato di sostenere la verità, e cioè che in duemila anni di storia non pochi mascalzoncelli e anime fragili hanno attraversato curie e sacrestie ma che la Chiesa è altro e che proprio per questo ha resistito sia all’usura umana che a quella del tempo. Quisquilie. Lerner ha continuato a girare il coltello nella piaga con malcelata soddisfazione. Il tema della serata era un presunto complotto sul caso Boffo, ma una buona parte della trasmissione è stata dedicata a «Vaticano Spa», il libro del giornalista Gianluigi Nuzzi che ricostruisce affari e malaffari dello Ior, la banca del Vaticano guidata per vent’anni dal discusso vescovo Paul Marcinkus.
Cosa c’entra Vittorio Feltri con le finanze cattoliche lo sa solo Gad Lerner. Che Marcinkus abbia combinato più di un pasticcio è storia nota da vent’anni. Che il libro di Nuzzi sia interessante è fuori dubbio. Ma da questo a imbastire un teorema in base al quale le finanze cattoliche sono marce e quindi è marcio anche buona parte del cattolicesimo, direi che ce ne corre. E comunque è una equazione pericolosa che quantomeno il giornalista Gad Lerner dovrebbe avere il coraggio di applicare con uguale energia sempre e comunque.
Il giornalista, come noto, non è cattolico. È di religione ebraica e non si è mai sognato di imbastire una puntata simile a quella di lunedì sera sul più grande scandalo finanziario degli ultimi anni, quello che ha visto come protagonista Bernard L. Madoff, ebreo, recentemente condannato a 150 anni di carcere negli Stati Uniti per aver truffato 500 miliardi di dollari a investitori di tutto il mondo. Madoff era ritenuto la punta di diamante della finanza ebraica e proprio all’interno della sua comunità, anche quella italiana, ha mietuto il maggior numero di vittime, tra le quali anche il premio Nobel della letteratura Elie Wiesel e il regista e produttore cinematografico Steven Spielberg. Seguendo il teorema Lerner, non solo la finanza ebraica sarebbe marcia, ma anche i suoi riferimenti civili e religiosi sarebbero assai furbetti.
Perché, sia pure con i distinguo dovuti alla non paragonabile organizzazione delle gerarchie delle due religioni, Madoff è stato il Marcinkus degli ebrei. Non potendo sospettare chi si nascondesse dietro quella maschera, in epoca non sospetta, persino il nostro autorevole commentatore R. A. Segre lo aveva definito, «il prototipo della onestà e della generosità della finanza ebraica nel mondo, soprattutto religiosa». Ovvio, visto che l’uomo era stato anche tesoriere della Yeshiva University di New York e presidente della Business School, considerata la più prestigiosa istituzione accademica religiosa ebraica d’America.
Gli esempi potrebbero essere anche altri. Nelle non poche puntate che l’Infedele ha dedicato alle attenzioni per le donne del nostro presidente del Consiglio, Gad Lerner non si è mai soffermato, per analogia giornalistica, sullo scandalo che ha travolto il presidente dello Stato d’Israele, Moshe Katsav, che si è autosospeso dalla carica dopo essere stato accusato dalla polizia di violenze sessuali su una dipendente oltre che di intercettazioni legali e di frodi. Né si è mai sognato di mettere in discussione, per questo episodio, la moralità pubblica e privata dell’intera classe dirigente di Israele.
Ora, essendo La7 una televisione privata può mandare in onda ciò che meglio crede e i cattolici sono altrettanto liberi di cadere nel trappolone e andare a farsi massacrare e spernacchiare in diretta tv. Basta avere sempre presente che non solo la cronaca, ma a volte anche la storia, non è come Gad Lerner ce la vuole raccontare.
(di Alessandro Sallusti)
I pensieri proibiti dal conformismo
In primis, è proibito pensare l’identità, ovvero la coerenza di un volto, una storia e una dignità alla prova del tempo, seppure esposta alle intemperie della vita e ai mutamenti del mondo. L’identità è considerata in sé un male, una chiusura, un carcere, quando invece è una ricchezza se sa aprirsi alla vita e incontrare la differenza. All’identità e alle radici è negato l’accesso alla libertà e alla democrazia contemporanea; anzi l’identità e le radici vengono connotate di razzismo, e perciò negate e interdette. È proibito poi pensare la comunità se non in forma di umanità e filantropia universale, comunismo dolce, perché la comunità è considerata una gabbia popolata di fantasmi furiosi del passato. Si può essere individualisti o cosmopoliti, ma guai a esporre un pensiero che dia senso e valore ad una comunità di origine e di sorte, che passi attraverso legami reali, naturali ed elettivi. Dalla famiglia alla propria città, dalla terra alla nazione e alla civiltà. Anche le identità dei popoli sono considerate oscene.
È proibito poi pensare la tradizione fuori dai circuiti turistico-commerciali in cui serve per vendere un prodotto, o una location. La tradizione è liquidata e confusa con il vecchiume, quando invece è l’unica premessa/promessa di continuità perché comporta un legame con un passato e un futuro. È consentito connettersi in senso orizzontale tramite il web, la tv e la tecnica, ma è vietato connettersi in senso verticale tramite la cultura, alle origini e ai frutti. Puoi connetterti ai contemporanei, non al pensiero dell’eredità e della gravidanza, al pensiero paterno e filiale. L’uso stesso di parole del lessico famigliare è sconveniente. Al più puoi vivere la famiglia, ma è osceno pensarla.
Sul piano politico, è vietato pensare la rivoluzione conservatrice, ovvero un pensiero radicato e anche radicale, quando occorre, esposto alle fratture e ai mutamenti del nostro tempo. La rivoluzione fu sostituita dall’innovazione, che non implica la volontà dei soggetti ma la forza automatica dei cambiamenti, indotti dalla tecnica e dalle mode. E l’aggettivo conservatrice è squalificato, connota un’offesa, è vietato il suo uso positivo in politica e in società.
Eppure quel che ho descritto è un pensiero positivo, un pensiero che si apre alla nascita e alla continuità; un pensiero d’amore, senza violenza, che collega alla vita e connette le persone. Un pensiero che si fonda sulla realtà e tra l’essere e il non essere scommette sull’essere; vuole dar senso alla vita. Ma piovono libri, articoli e dichiarazioni che lo irridono, lo cancellano, lo dichiarano inesistente. Non lo discutono, lo seppelliscono. Per restare nel piccolo mondo del quotidiano, ne ho letti svariati negli ultimi giorni, con una sincronia impressionante. Lividi verso il pensiero proibito, pieni di elogi agli attacchini del nulla, pompati e inconsistenti ma utili per denigrare l’osceno pensare.
Sinistra e destra morirono insieme dopo una lunga agonia. Ma agli orfani della sinistra fu riconosciuta la pensione, la riconvertibilità e il credito culturale; agli orfani della destra fu dato invece il vituperio e lo sfratto esecutivo dalla casa paterna, dichiarata inagibile. Salvo abiura e integrazione nel nichilismo. Ai primi si rimprovera il lutto e la nostalgia ma si riconoscono le opere, il pensiero e la presenza. Ai secondi si nega il pensiero e la sua consistenza, anzi la loro esistenza. Non è questione di destra o cultura di destra, sono classificazioni insensate ormai. Ma c’è chi vuole cancellare sotto quel nome decotto ogni traccia del pensiero osceno. E si premia chi abbandona quell’identità, se mai l’ha veramente avuta, sostenendo che non si è perso niente perché quell’identità non c’era e non valeva niente. Tra i profughi del pensiero proibito taluni sopravvivono passando alla clandestinità, altri alla dissimulazione; c’è chi si rifugia in ambiti narrativi o in storie remote, chi nelle accademie e chi nel folclore, accettando di farsi caricatura di quel pensiero. Magari con qualche polizza: provvedersi di patente antiberlusconiana, genuflettersi ai santuari del presente o accattivarsi la società letteraria.
Al più sopravvive, spenta o sedata, qualche crosta di pensiero proibito separata dal suo contesto, senza più radici né frutti e organica tessitura. Eppure è diffuso nella vita reale dei popoli e nell’animo delle persone. Il pensiero vietato è la nuova oscenità del presente; sperando che scivoli nei tabù indicibili e perseguibili a norma di legge, di tipo razzista, sessista e revisionista. Chi coltiva il pensiero proibito è condannato all’anello di Gige, che rende invisibili. E al certificato di morte in vita. Scusate l’interruzione, riprendete a suonare il Silenzio.
(di Marcello Veneziani)