sabato 27 febbraio 2010

Ciao Enzo


Beati i perseguitati a causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.

(Matteo 5,3-12)

venerdì 26 febbraio 2010

Il pallone è al fischio finale


Non c'è bisogno di essere delle Cassandre per vaticinare il prossimo crac del sistema del calcio europeo. Da anni i ricavi non coprono i costi e le spese sostenute per il parco-giocatori hanno una peso determinante sul segno finale dei conti societari. I club passano di mano da un patron all'altro, ma i soldi in circolazione non sono più quelli degli anni d'oro. Il sistema del pallone non ha trovato - e non sembra nemmeno cercare - una nuova sostenibilità, che deve passare necessariamente per il fair play finanziario: vale a dire regole uguali per tutti gli operatori, il mercato dei calciatori ridimensionato su valori più in linea con l'attuale situazione economica, e soprattutto parametri finanziari più rigidi, pena l'esclusione da campionati e trofei internazionali.

Un messaggio che, più volte, il presidente della Uefa, Michel Platini, ha inviato ai numeri uno dei grandi club, senza mai ricevere un cenno di adesione. Negli ultimi anni tutti i top team hanno continuato a crescere in termini di fatturato, grazie a sponsorizzazioni sempre più importanti, alla partecipazione a tornei di lusso in terre esotiche e alla diffusione dei diritti media sia in ambito domestico che internazionale. Ma, a fronte di questo incremento nei ricavi, i debiti hanno continuato a crescere, per una gestione poco lucida del cash flow e anche perché si è ritenuto che il sistema finanziario potesse venire incontro a chi è capace, comunque, di produrre reddito. Peccato, però, che le società che generano utili hanno utilizzato questi soldi per ripagare il costo dei tassi d'interesse su un debito in continua crescita.

Il sistema del calcio europeo insomma è a un passo dal collasso e molti patron sono stanchi di depauperare i propri patrimoni personali o familiari. Il Manchester United di Malcolm Glazer, il club più ricco al mondo per valore economico complessivo, ha tirato un sospiro di sollievo solo dopo essere riuscito, nelle ultime settimane, a ristrutturare il proprio debito con un'operazione finanziaria di tutto rispetto, mai tentata prima da un club di calcio. Grazie infatti all'emissione di un bond da 500 milioni di sterline della durata di sette anni (progetto curato dalla banca d'affari JP Morgan e da Deutsche Bank) i campioni d'Inghilterra pagheranno, nelle prossime stagioni, meno interessi sul totale dei debiti. Un maquillage finanziario che potrebbe non essere sufficiente, costringendo alla fine l'attuale proprietà a passare la mano al migliore offerente. Nell'ultima stagione i Red Devils hanno messo a segno un risultato positivo di bilancio solo grazie alla cessione dell'asso Cristiano Ronaldo, venduto per 90 milioni di euro al Real Madrid, altrimenti altri 38 milioni di euro di perdite si sarebbero aggiunti allo stock già pesantissimo di 800 milioni di debiti. Altri club inglesi hanno pensato di utilizzare un sistema più semplice, ovvero convertire il proprio indebitamento in azioni. Il Chelsea ha trasformato l'esposizione finanziaria che aveva nei confronti del suo stesso proprietario, il magnate russo Roman Abramovich (pari ad oltre 900 milioni di euro di debiti), in nuove azioni. In pratica Abramovich ha azzerato quasi un miliardo di debiti rimettendoceli dal suo patrimonio personale. Il Chelsea è una società che perde, ogni anno, decine di milioni di euro e, senza un freno alle spese, nell'arco di poche stagioni si ritroverà di nuovo con un'esposizione finanziaria elevatissima. Una situazione insostenibile anche per un tycoon del calibro di Abramovich.

Situazione simile l'ha vissuta più recentemente il Manchester City, acquistato dalla famiglia reale di Abu Dhabi, che ha quasi azzerato l'indebitamento trasformandolo in azioni, sulla scia dell'operazione del Chelsea: ma, ogni anno, il secondo club di Manchester continua a produrre perdite ingenti. L'Arsenal, altro storico team della Premier league inglese, ha emesso obbligazioni garantite dagli incassi dell'impianto sportivo (l'Emirates stadium) per finanziare i propri debiti.

In Italia le due corazzate Inter e Milan producono perdite per centinaia di milioni al termine di ogni stagione, conti negativi che devono poi essere ripianati da aumenti di capitale sottoscritti dai presidenti-proprietari. E se Moratti finora ha aperto il portafogli generosamente, si sa che invece Berlusconi è sempre più frenato dai figli, poco entusiasti di gettare soldi nel pallone. In serie A tra i top club solo la Roma e la Juventus (entrambe quotate in Borsa), tentano di seguire una strada di contenimento dei costi, non potendosi permettere di investire ulteriori soldi e non essendoci, al momento, alcuna cordata pronta a rilevarle.

Nell'ultimo anno, poi, in Germania è esploso il caso Schalke04. La società tedesca apparentemente solida, nonostante la sponsorizzazione ricchissima di Gazprom (25 milioni di euro per i prossimi quattro anni), è riuscita ad arrivare a un'esposizione debitoria di 280 milioni di euro, il 45 per cento di tutto il rosso della Bundesliga (pari a inizio stagione a 610 milioni di euro). Cifre elevate, ma inferiori, per esempio, ai 3,5 miliardi della Premiership britannica o ai 2 miliardi circa della serie A tricolore. Se il calcio tedesco è al momento il più virtuoso, in termini di esposizione finanziaria, lo si deve al forte contenimento dei costi praticato nelle ultime stagioni. Una politica che ha relegato la Bundesliga, a livello internazionale, un gradino più in basso, ma che consente ai club (nella stragrande maggioranza dei casi) di sopravvivere. Nel 2004-2005 il Borussia Dortmund, uno dei più amati in Germania, è arrivato a un passo dal fallimento, con un debito di poco superiore ai 150 milioni di euro. Oggi, il Manchester United ne ha uno di 800 milioni. Un dato che rappresenta oltre due volte il fatturato annuo (fermo a 365 milioni). Se uno Stato sovrano avesse un rapporto tra debito e Pil superiore al 200 per cento, la comunità finanziaria toglierebbe ogni fiducia, portando lo stesso, inevitabilmente, al default dei conti.

Se la Premier League inglese naviga, tra mille difficoltà, con piccoli club che passano la mano o vengono venduti per una sterlina (è il caso del Portsmouth, che rischia di essere dichiarato fallito il prossimo primo marzo), nel calcio spagnolo la situazione non è certo migliore. Ai grandi club come Real Madrid e Barcellona, i cui debiti per ora sono garantiti dalle banche, si affiancano altre piccole e medie strutture che hanno raggiunto livelli di criticità senza precedenti. Come per esempio il Valencia o l'Atletico di Madrid, rispettivamente con un indebitamento pari a 3,5 volte e a 3,8 volte il fatturato. In più i valenciani rischiano di rimanere schiacciati dagli impegni assunti per la costruzione del nuovo stadio, il Mestalla, che non costerà meno di 240 milioni di euro. Un investimento previsto molti anni fa, quando la recessione era lontana.

Sempre a proposito di debiti, molte società sono esposte verso il sistema bancario non per gli investimenti effettuati, che in prospettiva potranno portare maggiori ricavi (come l'ampliamento di stadi o la costruzione di nuovi centri polifunzionali), ma per una scorretta gestione della spesa corrente. Un comportamento, quest'ultimo, che in prospettiva non lascia spazio ad altra soluzione che il fallimento o, finché regge il giochino, al passaggio di mano di una squadra da un patron all'altro. Praticamente l'unica figura che oggi garantisce, quale che sia il mercato di appartenenza, la sopravvivenza all'interno di un sistema sempre più colpito dalla perdurante crisi economica.

giovedì 25 febbraio 2010

mercoledì 24 febbraio 2010

Leggere il Secolo: la destra legalista balla in maschera, ma di Quaresima


Come già nel 1992, la congiuntura attuale sembra decisamente propizia per la destra finiana. Allora per il partito di Gianfranco Fini fu possibile uscire dalle catacombe del neofascismo grazie al crollo della Prima Repubblica, irrancidita nel sistema di finanziamento illecito ai partiti e delegittimata nel proprio arco costituzionale dalla caduta del Muro di Berlino. L’Msi entrò così a corte, intestandosi la bandiera della legalità troppo a lungo conculcata da un sistema di relazioni e di spartizione del potere dal quale, come la Lega di Umberto Bossi, era stato programmaticamente escluso. Un’esclusione sofferta ma, giudicata, a posteriori, anche provvidenziale: nulla si poteva rimproverare a chi del potere non aveva amministrato nemmeno il riverbero periferico.

A corte i missini hanno trovato Silvio Berlusconi, una durevole coda di cometa craxiana sulla cui scia è stato possibile improvvisarsi nuova classe dirigente per quindici anni, e diventarlo perfino in non rari casi. Oggi l’astro del berlusconismo, come ogni fenomeno soggetto alle leggi della natura, sembra emanare una luce tremula simile a quella delle stelle lontane il cui spegnimento si può percepire soltanto a una certa distanza temporale dal processo di consunzione. Nel frattempo il presidente della Camera ha preso a brillare di luce politica propria, come testimoniano la baldanza dei suoi seguaci e il nervosismo dei suoi avversari. In condizioni di normalità, ci si dovrebbe predisporre all’ineluttabilità di un avvicendamento controllato.

Ma oggi – ecco il punto – il ceto dirigente patisce un malanno simile a quello del 1992, non può negare che il malcostume e il malaffare hanno messo nuove radici e sono saldamente avviticchiati al tronco della cosa pubblica. Lo stato d’emergenza è ingigantito dalla guerriglia psicologica dei mezzi d’informazione che tornano a evocare la parola totemica di tutte le rivolte senza rivoluzioni: corruzione. Il flusso di coscienza giustizialista è già in moto e, come un magnete attivo, attrae il consenso subliminale del cittadino-elettore. Il risultato, salvo clamorosi rivolgimenti giudiziari, è che per la destra legalista di Fini si aprono larghi spazi di azione e si accorciano le distanze che la separavano dall’assunzione di più alte responsabilità istituzionali. Ma insieme con questa consapevolezza si riaccende la memoria biologica di Tangentopoli, si riaffacciano certe pulsioni sopravvissute alla rottamazione dell’Msi e di Alleanza nazionale. Le stesse pulsioni che ispirarono a suo tempo il lancio delle monetine contro Bettino Craxi e il girotondo intorno a Montecitorio al grido: “Arrendetevi, siete circondati”.

Questa ansia moralizzatrice dirige inevitabilmente anche contro i colleghi berlusconiani, più esposti nel tiro al bersaglio delle procure, macilenti e disordinati nel cozzar d’armi. Il Cav. per primo ha aperto la propria cittadella all’urgenza di misure correttive. Così i finiani ora in groppa a questa urgenza scorazzano, dal capo in giù, reclamando una pulizia etica interna al Pdl, maggior rigore nella selezione della nomenclatura, ostracismi per i rinviati a giudizio, addirittura un codice dettato dall’antimafia. Il Secolo d’Italia, quotidiano di Fini, ieri conteneva appunto questo sillabario da casa circondariale sussunto ai piedi d’un titolo d’apertura che richiamava vagamente l’operosità leninista: “Corruzione, che fare?”. Anche qui: in condizioni di normalità l’autodisciplina e l’autocensura imposte per decreto sono benedette. Ma nell’attuale circostanza, in mancanza di un disegno armonico concordato con i berlusconiani, suonano come l’ammissione che ci sarà bagarre domestica, che ci si sta piegando alla voluttà di affondare un colpo di grazia.

Non tutti i finiani ragionano così. I riflessivi come Alessandro Campi si pongono il problema di conciliare l’esigenza di moralità con il bisogno di evitare la convergenza delle linee di frattura politico-giudiziarie ed economiche altrimenti destinata a scatenare una sincope di sistema. Quanto a Fini, dovrebbe sapere che anche alla più credibile delle maschere non basta un canovaccio di fama internazionale, se poi intorno gli crolla il teatro.

(di Alessandro Giuli)

lunedì 22 febbraio 2010

Questi cristiani che vengono uccisi


Ieri artefici del progresso e costruttori di civiltà in tutto il mondo arabo islamico, oggi povere masse scacciate, depredate e decimate. Dei popoli cristiani sopravvivono ormai soltanto sparute minoranze, vestigia delle moltitudini che un tempo popolavano l’oriente e l’islam. Soltanto i cimiteri e le rovine evocano il loro passato. Il libro di René Guitton è soprattutto un generoso omaggio a questi volti pieni di sangue e lacrime, millenario magma umano svanito nel nulla. “Mentre qui si parla, altrove si uccide. I cristiani del Maghreb, dell’Africa subsahariana, del medio e dell’estremo oriente sono perseguitati, muoiono o scompaiono in una lenta emorragia, vittime del crescente anticristianesimo”.

Lo straordinario pamphlet del giornalista francese Guitton, “Cristianofobia”, che in Italia esce per Lindau, in Francia ha avuto il grande merito di porre il tema della nuova persecuzione dei cristiani come “uno dei drammi del XXI secolo”. A Parigi, presso una delle case editrici più in vista, Flammarion, il libro è stato pubblicato col titolo di “Ces chrétiens qu’on assassine”, ovvero “Questi cristiani che vengono uccisi”. Duecento milioni di persone, secondo le stime di International christian concern, una ong americana tra le più impegnate nella difesa della libertà religiosa dei cristiani, perseguitati per la propria fede. Questo pamphlettista laico ha saputo spezzare la cappa di silenzio che regna sull’eccidio dei cristiani. Le Figaro ha definito il suo saggio “un libro che farà storia”.

In Francia René Guitton è una vera e propria autorità in ambito culturale. Per anni è stato corrispondente della televisione France 2 dal Marocco, produttore delegato al Grand Prix Eurovision, direttore generale delle dizioni Hachette e della prestigiosa casa editrice Calmann-Levy. Nel libro si lancia un richiamo alla coscienza ipocrita dell’occidente dei “mai più”: “Il nostro silenzio in proposito ricorda altri silenzi di sinistra memoria, e nel giro di due o tre decenni provocherà forse nuovi imbarazzati appelli al pentimento e dichiarazioni di rimpianto per non aver voluto far affiorare una verità che doveva essere resa nota a tutti”.

Guitton non è tacciabile di clericalismo quando pone il tema rovente del nuovo martirio cristiano. Se la prende infatti tanto con una certa omertà cattolica, che implica “una svalutazione implicita e sistematica del cristianesimo”, quanto con “i nuovi professionisti dell’anticristianesimo, intolleranti e irrispettosi delle credenze di coloro che hanno la sfortuna di non pensarla come loro”. Il libro non infinge sull’islam e già questa è una felice rarità nella saggistica europea.

Da parecchi decenni, e in misura crescente oggi, i cristiani mediorientali sono obbligati al silenzio, vittime di uccisioni e persecuzioni e fughe di massa, è loro impedito di esprimersi e di praticare la propria fede; inoltre, i loro luoghi di culto e i loro cimiteri sono oggetto di profanazioni. Per esempio, un musulmano non può sposare un non musulmano a meno che questi non si converta all’islam; la moglie di musulmano, se resta cristiana, perde ogni diritto all’eredità del marito e la custodia dei figli in caso di separazione o di vedovanza. La vendita di bibbie in lingua araba è proibita. Guitton questa nuova persecuzione la chiama eloquentemente “tragedia non alla moda”, spiega perché “l’occidente non vuole sentir parlare di quei paria, sforzandosi di espiare il proprio passato coloniale”. Soltanto nella settimana di uscita del libro quattro cristiani sono stati assassinati in Iraq. Il libro di Guitton è il luttuoso, disperante tentativo di dare voce ai “dimenticati”. Prima che il medio oriente si svuoti del tutto dei suoi aborigeni in questa guerra combattuta a fari spenti dall’internazionale islamista. Vittime di una persecuzione globale, quotidiana, amorfa. Mostruosa.

(di Giulio Meotti)

Pazienza (quasi) finita

Ultima chiamata per l’Italia, i suoi Partiti e i suoi Palazzi. Stiamo superando la soglia di guardia del pericolo. Se non esplode la rivolta è solo perché la nausea ora prevale sul dissenso, il disgusto frena la ribellione. Ma non è detto che duri a lungo. Ha ragione Berlusconi a suonare l’allarme e a dirsi preoccupato: avrà pure letto sondaggi riservati, ma ha capito che siamo sull’orlo di un burrone e questo Paese sta raggiungendo uno dei suoi punti più bassi. Non dirò il più basso perché non bisogna mai esagerare, le vie dello squallore sono infinite e abbiamo un’esperienza storica assai ricca e varia del degrado. Non bastano gli ascolti per compensare il malessere. Lo dico alle antonelleclerici di destra e di sinistra che si accontentano dello share, dell’audience e del cono di luce e non si accorgono che ascoltare non vuol dire condividere: le vicende di sesso & corruzione che si spalmano su tutto il paesaggio politico italiano creano clamorosi indici di ascolto ma anche paurosi indici di disgusto.

Come è successo al festival di Sanremo e agli emanueli filiberti, anche il livello di attenzione alla politica è alto, ma il livello di consenso alla politica è ai minimi storici. Nella migliore delle ipotesi, che coincide poi con la peggiore, i grandi ascolti vogliono dire che questo Paese si rispecchia e si ]riconosce perfettamente nel degrado dei partiti e dei poteri. Ma questo non consola, semmai aggrava la situazione; e impone a chi ha qualche possibilità di incidere sulla realtà una responsabilità in più. Se il Paese degrada come la sua classe dirigente, è dalla classe dirigente che si deve ricominciare per reagire e rimediare. Perché una classe dirigente non deve solo rispecchiare il Paese ma deve anche guidarlo.

Altrimenti non dirige ma domina, esercita un potere ma si sottrae alle sue responsabilità. Le elezioni regionali stanno aggravando la situazione, offrendo uno spettacolo avvilente: si narra di candidature comprate e pagate il doppio, il triplo dell’indennità che gli eletti riscuoteranno lungo tutto il mandato; giri di affari e malaffari paurosi all’ombra dei cartelli elettorali, conflitti interni feroci, guerre tra bande, conditi di boicottaggi e colpi bassi. Dei partiti resta solo un residuo associativo di stampo mafioso.

È stato facile in questi anni esaurire la questione politica al caso Berlusconi, scaricarsi delle responsabilità di un’intera classe dirigente adducendo l’alibi che c’è lui, la sua personalità forte e pervasiva, l’impronta monarchica del suo comando. In realtà appena lo sguardo si sposta da lui al resto, o meglio ai poco amabili resti della politica e dei poteri, ti accorgi che la china è tremenda. Degrada la qualità della classe dirigente, il ricambio è prevalentemente in basso, una selezione a rovescio premia sempre il peggio e un darwinismo perverso promuove la sopravvivenza del più losco o del più inetto. Berlusconi è stato il generoso ombrello, l’alibi comodo dietro cui rifugiarsi per osannarlo o attribuirgli tutti i mali del Paese. Ma un Paese non si può ridurre a una persona, un complesso intreccio di poteri politici e giudiziari, locali e culturali, civili e amministrativi, non può essere nascosto all’ombra di Re Silvio, dei suoi processi e del gossip su di lui.

Questa è una chiamata alle armi e per la prima volta dopo tanto tempo non è rivolta a uno schieramento contro un altro, e nemmeno moralisticamente agli onesti contro i disonesti perché ci sono troppe zone grigie: ma più realisticamente a chi si accorge che di questo passo il Paese si sfascia e chi invece nello sfascio ci guazza e pensa di trarre ancora giovamento.

Non si tratta nemmeno, come avrete capito, di ingaggiare una guerra pro o contro i magistrati, perché il conflitto attraversa pure i tribunali e divide i magistrati non in rossi o bianchi, non in corrotti e integerrimi, ma tra chi si accorge che questo ciclone spazzerà via anche la loro credibilità e chi invece vive nell’occhio del ciclone e gode dei suoi immediati benefici. Ma la visibilità e il potere di oggi rischiano di ribaltarsi in condanna e vituperio domani.

Pensateci voi che avete qualche possibilità di reagire al degrado. Reagite in tempo. Ognuno faccia la sua parte secondo le sue possibilità e il suo ruolo. Noi che scriviamo abbiamo il dovere di denunciarlo a chiare lettere, di sospendere per un momento conflitti e schieramenti per concentrare l’attenzione pubblica e di ciascuno sulla Priorità Assoluta, la Svolta.

Fermate la discesa verso il collasso, selezionate contenuti, persone e programmi sulla base della qualità, del merito e dell’efficacia, invertite la tendenza all’imbarbarimento e all’involgarimento, non barricatevi nei vostri clan e nelle rendite di posizione, assumetevi le vostre responsabilità rispetto al domani. Questo è un Paese già povero di futuro, senza figli, pieno di vecchi e gonfio d’immigrati; date una scossa, non aspettate la mazzata finale.

(di Marcello Veneziani)

domenica 21 febbraio 2010

Bestemmie vietate? Ma il calcio è lo sfogo dell’aggressività


E ora non si potrà più bestemmiare in campo. Il reo di blasfemia potrà essere espulso dall'arbitro che alzerà il sacramentale cartellino rosso. Se poi il bestemmiatore sarà sfuggito all'arbitro, al guardalinee e al quarto uomo potrà essere beccato dalla moviola, "Il Grande Fratello" del calcio, e, in questo caso, squalificato. La drastica decisione è stata presa dal presidente della Figc, Giancarlo Abete.

Ciò porrà all’arbitro difficili problemi esegetici se non addirittura epistemologici. In Veneto, per esempio, si usa molto spesso la formula "Porco Zio!". È da considerarsi una bestemmia o no? E nel dubbio ("in dubio pro reo") l’arbitro si limiterà ad estrarre un meno drastico cartellino giallo? Saranno particolarmente penalizzati i giocatori toscani perché in Toscana la bestemmia, che assume le forme più fantasiose, è un intercalare così comune da perdere, di fatto, ogni significato blasfemo. C’è poi il problema di Cristo. Se grido al mio compagno "Cristo, passami un po’ quella palla!" va considerata bestemmia o derubricata a un "non nominare il nome di Dio invano" punibile con un’ammenda?

Da domenica saranno punibili, per coerenza, anche i plateali ringraziamenti a Dio dopo un gol segnato (mentre credo che tutta la difesa avversaria sarà espulsa in blocco), per esempio inginocchiarsi e alzare le braccia al cielo. Proibite anche le scritte sotto la maglia di contenuto "personale, politico e religioso". Vada per il politico, ma così se ne vanno i saluti al figlio appena avuto, al papà morto da poco, le dichiarazioni d’amore.

Per quanto riguarda la bestemmia saranno favoriti i giocatori stranieri, in particolare scandinavi o i neri del Ghana e del Mali perché è molto difficile che l’arbitro, per quanto preparato, conosca lo swaili. Si potrebbe ovviare ingaggiando una batteria di traduttori, in campo e in moviola, contribuendo a lenire il problema della disoccupazione. E se a un giocatore, che ha preso un terribile pestone, scappa un’istintiva, umanissima bestemmia lo puniremo lo stesso o gli concederemo le attenuanti generiche? Infine, la Figc ha deciso di punire anche gli sfottò fra avversari. Insomma, si vuole fare del terreno di gioco un luogo da educande o per ragazzi educati a Oxford. Ma il calcio non è un club per distinti signori inglesi che giocano a whist o al bridge dove, al massimo, si dice "due picche". È una metafora della guerra. I giocatori sono in "trance agonistica" e non si può pretendere da loro un simile autocontrollo.

Così come sono contrario alla repressione delle intemperanze dei tifosi quando si limitino, come per i giocatori, al piano verbale. Il campo di calcio, la partita, è anche un luogo dove poter sfogare la propria naturale, e vitale, aggressività. Non si può pretendere di eliminare del tutto la violenza. Si può cercare di canalizzarla in modo da poterla controllare e tenere sotto una soglia accettabile. Come sapevano bene le culture preilluministe, che si erano inventate la festa orgiastica, il Carnevale, la guerra ritualizzata (chiamata "rotana" fra i neri africani in contrapposizione alla "diembi", la guerra vera) o, nella Grecia antica, l’istituto del "capro espiatorio" che non per nulla porta il significativo nome di "pharmakos", medicina. Nella modernità il calcio ha anche questa funzione. A comprimere troppo l’aggressività naturale che è in noi, finisce che poi esplode di colpo, nel modo più mostruoso, come nei delitti delle villette a schiera per una lite di condominio.

(di Massimo Fini)

sabato 20 febbraio 2010

Se amare diventa aiutare a morire

Ma è possibile che l’umanità e la dignità della persona, e persino l’amore, si siano rifugiati nell’eutanasia? Leggo ogni giorno dichiarazioni e articoli pieni di umanità e d’amore dedicati a persone che decidono di morire o aiutano a morire.

Il caso Crisafulli, il caso Gosling, il caso Purdy, il caso Ewert, perfino l’anniversario del caso Englaro, del caso Welby e centinaia di altri casi. Più partecipi si fanno poi i racconti se i morenti e i loro aiutanti sono omosessuali, come se l’amore più puro fosse quello che non può procreare, cioè dar vita. L’atto supremo d’amore è considerato dar la morte al proprio partner malato.

Non leggo mai elogi a chi decide di vivere nonostante le condizioni estreme di vita o a chi procrea pur con una gravidanza a rischio mortale; solo elogi e comprensione a chi decide per la morte. Vedo poi una serie di film e interi scaffali in libreria dedicati al libero morire, al testamento biologico, al suicidio. Quasi tutti orientati in favore dell’eutanasia. È impressionante notare come il tabù della morte su cui è fondata la nostra epoca, ovvero la scomparsa del morire dai nostri orizzonti, il tacere, eludere, rimuovere la sua rappresentazione e perfino la parola, si sia d’un tratto rovesciato in un diffuso accanimento mortuario.

A ben vedere, però, si tratta di uno slittamento di senso perché il nodo naturale e soprannaturale del morire cade in secondo piano rispetto alla nostra libertà di decidere e di recidere il legame con la vita. Non dunque una cogitatio mortis, un pensare la morte, ma una rivendicazione della nostra sovranità sul morire. Sul tema non riesco ad avere opinioni nette e chiare, e non invidio coloro che le nutrono perché in quell’incertezza colgo il segno della condizione umana. Riesco solo a distinguere tra la sfera pubblica, comunitaria, e la sfera, non dirò privata, ma interiore, intima, personale.

Per la prima continuo a pensare che compito di un medico, di un ospedale, della legge e dell’autorità, della società e delle sue agenzie civili e religiose, sia quello di essere dalla parte della vita. E dunque di proporsi comunque di salvaguardarla, di scommettere sulla vita fino in fondo; evitando certo lo strazio dell’accanimento terapeutico ma tutelando quel fil di vita fino a che è possibile. E dunque reputo l’eutanasia a norma di legge un pericoloso cedimento allo spirito di morte che aleggia nella nostra società e fa il paio con la denatalità, gli amori sterili e la disperata opulenza.

Il suicidio dell’occidente di cui scriveva James Burnham mezzo secolo fa diventa orizzonte comune ad altezza di singolo. I confini dell’eutanasia sono poi incerti e insidiosi; a volte si citano casi estremi per far passare gradualmente l’idea che sia possibile liberarsi di vite malate o semplicemente stanche, di rami secchi e di pesi morti, che magari possono essere utili magazzini di ricambi per trapianti d’organi vitali. Un po’ quel che avviene nel girone inverso con l’aborto. Insomma, forme larvate di suicidio.

Invece è bene ricordare, prima della cristianità, la concezione pagana della vita come milizia, che fu di Cicerone; cioè l’idea che non si possa disertare, perché la vita non è solo nostra e ai suoi confini estremi non ci appartiene: ci fu data, ci sarà tolta. Amor fati, amate il vostro destino. Ai giovani tentati dal suicidio esorto all’avventura, al rischio in proprio, non a spese altrui, s’intende: giocatevi la vita più che buttarla via. Però se passo dal piano pubblico della civiltà al piano personale e interiore, allora il discorso assume altre prospettive.

È in gioco la dignità del vivere e del morire, il nostro umanissimo desiderio di non trascinarci come ombre di noi stessi e larve d’uomini, di non soffrire e di non far soffrire. Ti risalgono nella memoria e negli occhi il gesto o le ultime parole di una Cara Morente che ti chiedeva di essere portata a casa e poi fa il segno con l’indice e il medio di una forbice, come a tagliar la spina. Ti risalgono le parole di un Vecchio malato che si chiama la morte ogni giorno, pur avendone terrore, e ripete: che senso ha vivere ancora così malandato e vecchio. E tu ti vergogni nel primo caso se non hai il coraggio di assecondarla e ti attacchi invece a quel fil di vita; o nel secondo ti vergogni quasi a sperare, anche se lo ami quasi più di te stesso, che il vento se lo porti via e assecondi il suo desiderio di partire. Perché quello è il desiderio che coltivi anche per te stesso, di non trascinarti quando la vita diventa solo l’ombra del morire.

E allora, nei casi estremi, è possibile assumere sul piano personale una decisione tragica, ma senza pretendere il conforto della legge e della religione e il consenso della società e delle istituzioni. Ti assumi tutte le responsabilità della scelta e le conseguenze; un giudice rigoroso e misericordioso ti condannerà anche simbolicamente, sancirà un verdetto e un principio ma non pretenderà di aggiungere pena a dolore. Sul piano personale arrivi perfino a capire l’uso antico in certe popolazioni dei vecchi che si allontanavano dalla comunità per lasciarsi morire in disparte e riprendi un’idea fatalista che allarga a dismisura i confini dell’accanimento terapeutico. Poi però torni nella sfera pubblica, leggi tutti quei discorsi in favore del morire e ricordi quel piccolo, forse indecifrato, episodio accaduto giorni fa a Salvatore Crisafulli, da sette anni ridotto in condizioni quasi vegetative, ma con residua lucidità. Gli avevano chiesto di chiudere le palpebre se desiderava vivere e di tenerli aperti se invece, come sembrava, desiderava morire.

Mi era parsa un’inversione rituale, quella richiesta: sarebbe più giusto che chi vuol vivere tenga gli occhi aperti, chi vuol morire li chiuda. Poi però mi sono ricordato dell’Imperatore Adriano che voleva entrare nella morte ad occhi aperti e allora ho capito che forse era più giusto il contrario, chiudere gli occhi per continuare a vivere. E lui, Salvatore, li ha chiusi, come a offrirsi ciecamente alla sorte e alla vita.

Che volete, provo più tenerezza e trovo più amore in quel battito di ciglia in favore della vita, piuttosto che in quel cuscino con cui Gosling ha soffocato il suo compagno malato per non farlo più soffrire. Umani entrambi, per carità, e meritevoli di pietas ambedue; ma nel primo c’è forse una piccola traccia di divino, nascosta in un alito di vita ulteriore.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 18 febbraio 2010

Wall Street aiutò la Grecia a nascondere il debito


La finanza creativa di Wall Street, e in particolare due grandi banche come Goldman Sachs e JP Morgan Chase, utilizzando ingegneria finanziaria simile a quella dei subprime negli Stati Uniti e cessione di diritti come vendite e non come garanzie su prestiti hanno aiutato la Grecia a mascherare l'entità del suo debito pubblico superiore ai 300 miliardi di euro, mettendo il paese a rischio default.

Lo scrive nell'edizione domenicale con ampio rilievo il New York Times, secondo cui una serie di meccanismi swap messi a punto dalle due banche hanno permesso alla Grecia di ipotecare alcuni settori della propria economia mascherando parte del debito alle autorità comunitarie di Bruxelles, perché le operazioni in questione, perfettamente legali, non appaiono come prestiti bancari ma come vendite con pagamenti differiti. In particolare, la Grecia avrebbe finanziato parte del suo deficit sulla sanità pubblica impegnando i futuri introiti sulle tasse aeroportuali, i pedaggi autostradali e gli incassi legati alle lotterie di stato.

Anche quando la crisi era ormai vicina le banche americane di investimento erano alla ricerca di modi per aiutare la Grecia a procrastinare il giorno della resa dei conti. All'inizio di novembre - tre mesi prima che Atene diventasse l'epicentro del terremoto del debito sovrano nell'Eurozona - un'equipe di banchieri di Goldman Sachs arrivò ad Atene, secondo il New York Times, con una proposta per il nuovo governo che lottava per far fronte ai debiti e al deficit ormai al 12,7% del Pil.

I banchieri, guidati dal presidente di Goldman, Gary D. Cohn (nella foto n.d.r.), proposero uno strumento di finanziamento che avrebbe ridotto il debito per l'assistenza sanitaria, utilizzando un metodo finanziario simile a chi garantisce i pagamenti della sua la carta di credito con dei mutui ipotecari. Atene non accettò la proposta che avrebbe consentito di occultare il debito ancora per qualche tempo.

La Goldman Sachs nel 2001 costituì dei veicoli particolari uno dei quali denominato Eolo, come il dio dei venti, che assumeva le passività in cambio di impegni su introiti futuri del governo greco e consentiva di non farli contabilizzare nel bilancio pubblico. L'ex ministro delle Finanze George Alogoskoufis, criticò l'affare Goldman in Parlamento nel 2005 affermando che avrebbe pesato sui conti greci fino al 2019. La rivelazione del NYTimes apre un capitolo nuovo sugli effetti dei derivati sulla contabilità pubblica in Eurolandia.

C'è un appendice anche italiana. Con l'aiuto di JP Morgan, scrive il Times, «nonostate elevati deficit persistenti nel 1996 un derivato ha aiutato l'Italia a mettere il bilancio in linea: cambiando valuta con la banca a un tasso favorevole, e portando più disponibilità finanziarie nelle mani del governo. In cambio, l'Italia si era impegnata a rimborsi futuri che non sarebbero stati inseriti come passività».

La vicenda italiana aveva provocato accese polemiche fino al 2001. L'operazione, come dichiararono ufficialmente sia il Tesoro italiano sia le autorità di Bruxelles, aveva superato l'esame di Eurostat, a cui compete la valutazione dei criteri per il calcolo del debito pubblico dei paesi europei e che ne aveva certificato la regolarità.

UN TRICOLORE LUNGO 50 ANNI

martedì 16 febbraio 2010

Francia, sotto la bandiera niente

«Waterloo», «funerale di prima classe», «capitolazione in campo aperto», «sconfitta politica e ideologica di prim’ordine»: quasi unanimi i commenti alla fine del «grande dibattito sull’identità nazionale» lanciato in ottobre per volontà del presidente Nicolas Sarkozy. Dibattito concluso con un nulla di fatto, salvo misure che fanno sorridere. Sorridere tristemente.

Il primo ministro François Fillon ha annunciato che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, definita «esemplare», sarà affissa in ogni aula scolastica, che gli allievi riceveranno il «taccuino del giovane cittadino» e intoneranno la Marsigliese «almeno una volta l’anno», che d’ora in poi nei municipi ci sarà una cerimonia di naturalizzazione «all’americana» e che all’esercizio della cittadinanza s’applicherà una «logica simile a quella del codice stradale: formazione, prevenzione, sanzione».

Chi voleva risposta alla domanda «Che cosa significa essere francese?», che pure era stata posta, è rimasto deluso. Nessuna risposta, per la semplicissima ragione che non ci poteva essere.
Però il dibattito era atteso. Secondo una recente inchiesta, per il 76% dei francesi l’identità nazionale francese esiste. Per definirla - varie risposte erano possibili -, il 30% degli interpellati citava dati culturali, il 28% criteri geografici, il 24% elementi storici, il 21% fattori istituzionali e politici, il 20% «valori umanistici» e solo il 3% fattori religiosi.

Non è per caso che Sarkozy ha lanciato il dibattito a pochi mesi dalle elezioni regionali di fine marzo. Nel 2007 la campagna presidenziale gli aveva mostrato che i francesi erano sensibili al tema dell’«identità nazionale», quindi la possibilità di sfruttarlo per sottrarre voti al Front national. Ha così replicato la manovra, dando di nuovo un segnale agli elettori di destra. Ma invano. Mentre la sinistra affermava che il dibattito avrebbe avuto come sola conseguenza «stigmatizzare» un po’ di più i cinque-sei milioni di musulmani oggi residenti in Francia, la destra s’è vista escludere sistematicamente dal dibattito, sia su Internet, sia in occasione delle 350 riunioni organizzate nelle prefetture e nelle sotto-prefetture. Ogni critica all’immigrazione è stata subito censurata, mentre era stato annunciato che il dibattito si sarebbe svolto «nel rispetto della libertà di parola di ognuno».

Preso fra esigenze contraddittorie, il governo ha soprattutto voluto dare compensi a chi contestava il principio stesso del dibattito. Perciò s’è costantemente dedicato a ridurre l’«identità nazionale» ai «valori repubblicani» (laicità, difesa dei diritti dell’uomo, ecc.), legati solo a un momento della storia francese e che propriamente nemmeno le appartengono più. Valori sconnessi da ogni filiazione che non sia ideologica, dove per la parola «patria» non c’è più spazio.
La manovra è fallita. L’opposizione di sinistra è rimasta sulle sue posizioni. L’opinione pubblica, all’inizio favorevole al dibattito, è stata profondamente delusa. E il Front national, esce rafforzato, anziché indebolito, dalla flagrante incapacità dei poteri pubblici di dare un minimo di sostanza al concetto d’identità nazionale.

Invitato anche lui a rispondere alla domanda, il ministro dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale, l’ex-socialista Eric Besson, ha finito per fornire questa storica dichiarazione il 5 gennaio alla Courneuve, nella regione parigina: «La Francia non è né un popolo, né una lingua, né un territorio, né una religione. È un agglomerato di popoli (sic) che vogliono vivere insieme. Non ci sono francesi di stirpe, c’è solo la Francia del meticciato». Frasi che confondono. Che contraddicono, fra l’altro, le prime parole della Costituzione della V Repubblica, dove si cita esplicitamente il «popolo francese», e che dimenticano che in Francia la giustizia è amministrata «in nome del popolo francese». Eric Besson ha poi dovuto smentire ufficialmente l’intenzione di convertirsi all’Islam per sposare l’attuale compagna, la studentessa tunisina Yasmin Tordjman, bisnipote di Wassila Burghiba, moglie dello scomparso presidente e padre dell’indipendenza tunisina Habib Burghiba.

Sarkozy - che ha recentemente detto a Poligny, nel Giura, d’essere stato «eletto per difendere l’identità nazionale francese» - scriveva nel suo libro-programma del luglio 2006: «Penso che i francesi aspettino una Francia nuova Una Francia dove l’espressione “francese di stirpe” sia estinta». Nel 1999 aveva confidato a Philippe de Villiers: «Beato te, Philippe, ami la Francia, la sua storia, i suoi paesaggi. Che invece mi lasciano freddo. È l’avvenire a interessarmi». L’esito più chiaro del «dibattito sull’identità nazionale» è dunque che la Francia «non è né un popolo, né una lingua, né un territorio, né una religione». Che cos’è allora? Luogo di transito? Società anonima? Supermercato? A quanto pare, il futuro della Francia è il Brasile.

(di Alain de Benoist)

lunedì 15 febbraio 2010

E' Teheran ad avere ragione e la cosidetta comunità internazionale torto

Sulla questione del nucleare iraniano è Teheran ad avere ragione la cosidetta "comunità internazionale" (in realtà sono gli Stati Uniti e Israele a trascinare tutti gli altri) torto. L'Iran ha firmato, a differenza, per esempio, di Israele, che la bomba ce l'ha (basta attraversare il deserto del Negev per vedere la sua centrale atomica), ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare. Cosa può accettare e deve chiedergli la "comunità internazionale"? Di accettare le ispezione dell'Aiea, l'agenzia Onu per il controllo nucleare.

Cosa che l’Iran ha sempre fatto. Quando, un paio di anni fa, riaprì i suoi siti nucleari fu alla presenza degli ispettori Onu. C’è un via vai continuo fra Vienna, dove ha sede l’Aiea, e Teheran di questi ispettori che c’erano anche tre giorni fa quando gli iraniani hanno inaugurato l’impianto di Natanz. L’arricchimento dell’uranio è il passaggio necessario per ottenere il nucleare civile ad usi energetici ma anche medici. Per questi usi è sufficiente un arricchimento al 20%, per l’atomica bisogna arrivare al 90%. Gli ispettori Aiea hanno accertato che, finora, gli iraniani non hanno superato il limite del 20%.

E allora? Gli americani sospettano, senza lo straccio di una prova, che vi siano dei siti segreti sfuggiti agli ispettori. Ma con questa storia del sospetto allora tutti possono essere messi sotto scacco, è una specie di prolungamento della teoria della “guerra preventiva” di George W. Bush. Noi italiani stiamo riaprendo i nostri siti nucleari (se sia giusto o sbagliato non è argomento da affrontare qui) ed è come se una potenza ostile ci intimasse di non farlo perché da lì, in teoria, potremmo arrivare all’atomica. Gli americani obiettano anche che l’Iran ha il petrolio e quindi non ha bisogno del nucleare. A parte il fatto che uno Stato avrà ben il diritto di diversificare le sue fonti di energia senza dover chiedere il permesso agli americani, la BP ha calcolato che entro il 2049 il petrolio sarà esaurito.

Gli iraniani considerano quindi il nucleare civile un loro diritto indiscutibile e su questo non sono disposti a trattare. Sarebbe già una gran concessione, perché lede la loro sovranità, che accettassero di far arricchire il loro uranio in Russia o in Turchia (bei soggettini anche questi, rispettosi dei “diritti umani”). Dice: Ahmadinejad ha affermato che Israele deve “scomparire dalle mappe geografiche”. Affermazioni gravi e inaccettabili, ma sono pur sempre parole. Non sono invece parole i missili atomici israeliani puntati su Teheran e i piani di attacco, anche nucleare, all’Iran di Stati Uniti e Israele svelati dalla stampa americana. E, devo dire, fa una certa impressione vedere paesi seduti su enormi arsenali atomici (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna) far la voce grossa, e indignarsi, con uno che la Bomba non ce l’ha. C’è molta prevenzione e “disinformatia” nei confronti dell’Iran.

Qualche mese fa gli iraniani misero in orbita un satellite per le comunicazioni, un normalissimo satellite come abbiamo anche noi. Subito la “comunità internazionale” gridò all’“allarme” e alla “provocazione”. Idem quando testarono dei missili, missili che abbiamo anche noi. Anche la repressione dell’opposizione , almeno quella dell’11 febbraio, dove, secondo i siti antiregime, la polizia ha sparato in aria, usato spray al peperoncino, catene, manganelli, proiettili di gomma e operato decine di arresti, non mi sembra poi tanto diversa da quanto fece il governo Berlusconi al G8 di Genova.

Infine l’Italia è il primo partner commerciale europeo dell’Iran (retrocesso al secondo posto dopo le imprudenti affermazioni di Berlusconi alla Knesset, perché a nessun premier fa piacere essere paragonato a Hitler, nemmeno a Berlusconi). Certo, non si possono barattare principi contro quattrini. Ma finché l’Iran resta dentro le regole internazionali, ha l’ambasciatore a Roma come noi a Teheran, non è il caso che ci appecoroniamo “in toto” agli interessi degli Stati Uniti. O nemmeno noi abbiamo il diritto di tutelare i nostri interessi nazionali?

(di Massimo Fini)

La politica è un poker con le carte truccate


Chi scende in politica deve preventivare di sporcarsi le mani. I protagonisti di Razz (Daniela Piazza Editore, pagg. 228, euro 17) se le sporcano come non mai. Uomini e donne, di sinistra e di destra, non se ne salva nessuno. La Torino descritta da Augusto Grandi, giornalista del Sole 24 Ore, non è quella della Fiat, delle tradizioni occulte, dell’immigrazione selvaggia. È invece quella del sottobosco della politica-politicante che l’autore narra quasi in presa diretta, senza far sconti a nessuno. Un mondo che conosce molto bene e che ammanta del velo, in alcuni casi trasparente, in altri assai meno, dell’«opera di totale fantasia» sicché «ogni riferimento a persone e avvenimenti è del tutto casuale».
Sarà pure così, ma l’avventura di Dario Lo Gatto, avellinese trapiantato a Torino dove è diventato uno dei maggiori amministratori di condominio della città, e di tutte le figure politiche del centrodestra e del centrosinistra che lo circondano è emblematica di un modo corrente di vedere questo ambiente, sia piemontese che di ogni altra regione italiana. Emblematico quanto il titolo, perché Razz è il nome del poker californiano che si vince con il punteggio più basso. Siamo lì: la genìa rappresentata da Lo Gatto & soci esprime una politica in cui vince chi scende sempre più in basso moralmente, pur se in apparenza abita ai piani alti: dai capigruppo in Comune ai segretari politici locali, ai vicesegretari nazionali, dai sindaci ai prefetti, ai procuratori generali. È tutto un turbinoso incrociarsi di lotte intestine, spesso complicatissime, che servono a fare le scarpe non tanto ai nemici quanto agli amici, con l’unico scopo della carriera politica, costi quel che costi, anche vendendo e prostituendo (sapendo benissimo di farlo) corpi, menti e anime, maschili e femminili. Unico vero nemico è la cultura perché «con la filosofia non si mangia»...
Razz è la storia dell’ignorante ma saccente Dario, coinvolto in una partita di poker più grande di lui che vede dall’altro lato del tavolo massoneria, mafia russa, politica internazionale sotto forma di speculazione edilizia. La bolla si gonfierà, poi esploderà, ma alla fine, grazie a compromessi insospettabili fra politica, magistratura e stampa, si affloscerà. Passata la grande paura ogni cosa ricomincerà come prima. Gli unici a rimetterci saranno Dario, alle prese con un figlio insospettabilmente drogato, e la povera signora Gina, brava a vincere a poker, ma non a sfuggire a una morte che poteva servire a qualcuno e invece non servirà a nulla.
Chiari i bersagli di Grandi: la cosiddetta società civile, arrogante e incolta; la sfrenata corsa al potere a ogni livello; l’assoluta mancanza di onestà, dignità e idealità: l’amicizia è bandita, e l’accordo sotterraneo fra apparenti avversari politici per il bene di ognuno è quasi la prassi; soprattutto il disprezzo per la cultura che si manifesta attraverso un linguaggio sboccato e da trivio. Insomma, un affresco terribilmente impietoso, ma purtroppo veritiero quello di Augusto Grandi che evidentemente certi ambienti li conosce bene.

(di Gianfranco de Turris)

domenica 14 febbraio 2010

Quel ridicolo tentativo di comprare il fanatismo dei talebani afgani


Il 29 si è svolta a Londra una conferenza dei rappresentanti di settanta Paesi per discutere della situazione afgana. I "cervelloni", come li chiama sarcasticamente sul Corriere della Sera, Giovanni Sartori che non può essere certo sospettato di simpatia talebane, hanno partorito un piano di "rinconciliazione nazionale" basato su questi punti: 1) I Talebani devono deporre preventivamente le armi. 2) L'accettazione dell'economia di tipo occidentale. 3) Il riconoscimento del diritto occidentale in particolar modo per quello che riguarda il rispetto del ruolo delle donne. In cambio, per favorire la "riconciliazione", viene aperto un fondo di 500 milioni di dollari in cui parteciperà anche l'Italia con dieci. In altre parole si intende, con questi soldi, comprare i Talebani.

Un piano grottesco. Si può pensare che gente che combatte da otto anni, pagando tributi di sangue altissimi, che ha dimostrato un coraggio straordinario, che controlla, grazie all'appoggio della maggioranza della popolazione, i tre quarti del territorio, che è vicina alla vittoria, rinunci a tutto per "reintegrarsi" in uno Stato inesistente, sottomettersi a un governo fantoccio qual'è quello di Karzai, di cui tutti sanno che non resisterebbe più di 24 ore se le truppe Nato se ne andassero e accettare ciò che più ordiano e contro il quale si stanno battendo: il modello di vita occidentale? Anche il progetto di comprarli, oltre che ignobile, è ridicolo.

Scrive Sartori: "Um fanatismo religioso non è mai comprabile". A parte che c'è da chiedersi se siano più fanatici e integralisti i Talebani e coloro che pretendono di omologare il mondo intero al proprio modello, è vero: i Talebani non sono comprabili. Ci sono infiniti esempi, il più clamoroso riguarda il Mullah Omar. Vinta la guerra nel 2001 gli americani si misero in caccia del Mullah sui cui pendeva una taglia di 50 milioni di dollari. L'individuarono presso certe tribù pashtun e ne chiesero la consegna in cambio della taglia. Con quella cifra da quelle parti, si compra tutto l'Afghanistan e anche un pò di Pakistan. Ma i capi tribù finsero di trattare, per un paio di giorni, per permettere a Omar di guadagnare tempo mentre fuggiva in motocicletta.

Queste conferenze sono del tutto inutili, se non faresche, quando dalle trattative è esclusa la controparte. Una trattativa più seria si è svolta mesi fa in Arabia Saudita, con il patrocinio del re Abdullah; fra emissari di Karzai e del Mullah. Ma è stato Omar a porre le condizioni: 1) Nessuna trattativa può cominciare se prima non se ne vanno gli occupanti stranieri. 2) A Karzai ha promesso solo salva la vita, a lui e al suo clan di corrotti.

In ogni caso, comunque la si voglia rigirare, noi in Afghanistan siamo degli occupanti. Odiati dalla popolazione, checchè ne dicano obbligatoriamente i nostri comandi militari, che non ha mai tollerato dominazioni straniere, e comunque, dopo otto anni di invasione, si rende conto che "stava meglio quando stava peggio", cioè con i Talebani. Tutte queste "exit strategy" o "surge" o altre diavolerie sono solo penosi espedienti per tentare di "salvare la faccia", di non ammettere un errore che è anche un crimine. Lasciamola in pace quella gente. "Lasciamo" come ha detto quel generale russo "che gli afgani sbagliano da soli". Non pretendiamo, con una protervia che non si può definire altrimenti che totalitaria, di sostituire la storia afgana con la nostra storia.

(di Massimo Fini)

E Pisanu organizza la fronda sarda contro Berlusconi


Roma-Bruxelles, giovedì pomeriggio. Ugo Cappellacci incassa la riconferma nell’ufficio di presidenza del Comitato delle Regioni europee. Saluta e ringrazia Antonio Tajani, con cui discute di una possibile delega all’Energia da portare a casa, poi si dirige verso l’aeroporto. A poca distanza, Silvio Berlusconi difende a spada tratta Guido Bertolaso, con i cronisti che lo accerchiano all’uscita del solito negozio d’antiquariato. Poi anche lui si muove. Si ritrovano insieme in aereo, diretti a Roma. Parlano a lungo del caso Alcoa, finché il governatore sbotta: «Presidente, devo aggiornarti su cosa sta succedendo in Sardegna». Il briefing è dettagliato, mette a fuoco la «fronda» ostile e il Cavaliere si fa scuro in volto. «Va bene, ho capito. Fatemi sapere se c’è necessità che intervenga io di persona...».

È passato soltanto un anno dalla batosta rifilata a Renato Soru, ma ormai sembra un secolo. E a rischiare l’implosione, a sorpresa, è il Pdl, vittima di uno dei tanti colpi di coda di quel progetto centrista che ha tenuto banco tutta l’estate, arenatosi il giorno dell’aggressione a Berlusconi in piazza Duomo. Da mesi, infatti, l’equilibrio nel partito è saltato, tanto che un terzo dei 31 consiglieri regionali pidiellini, il 13 gennaio, mette a punto un documento ad hoc. Per contestare innanzitutto la gestione romanocentrica di Cappellacci, a scapito della «peculiarità della Questione sarda» e di un’iniziativa all’altezza della gravissima crisi economica che si vive nell’isola. Nel mirino finisce pure la conduzione del gruppo consiliare (affidata a Mario Diana) e la gestione del coordinamento regionale: ovvero, Mariano Delogu - ex An e vicino a Gianfranco Fini, che non nasconde però le sue perplessità nei confronti dei dissidenti - e Claudia Lombardo, vicecoordinatrice vicaria e presidente del Consiglio regionale. Un doppio incarico contestato da Nanni Campus, pronto a porre l’undicesima firma al manifesto frondista, in ritardo però di quasi due settimane. Una scelta che i maligni associano alla mancata nomina ad assessore alla Sanità e al commissariamento dell’Azienda universitaria di Sassari.

Ma chi sono gli altri dieci «ribelli»? E chi c’è dietro la loro alzata di testa, che si traduce pure in un attacco al Cavaliere? I nomi pesanti sono due: Mauro Pili e Beppe Pisanu. Già, l’ex ministro dell’Interno berlusconiano che da mesi suona la «sveglia» e che in più occasioni è stato associato dai rumors al progetto centrista di Casini-Fini-Montezemolo. E che ieri mattina ha riunito i frondisti, portandoli poi a pranzo al ristorante «Da Renzo», nei pressi di Oristano. A tavola pure il sindaco di Cagliari, Emilio Floris, quello di Alghero, Marco Tedde, e alcuni parlamentari.

Fallito il grande sogno del governissimo, che per mesi ha scosso il Palazzo, facendo immaginare un progetto trasversale per disarcionare il premier - vuoi perché Luca Cordero di Montezemolo nega di continuo un suo interessamento alla politica, vuoi perché Fini vive una fase di piena sintonia con il Cavaliere, vuoi perché Pier Ferdinando Casini ha le sue gatte da pelare con la politica dei due forni - a Pisanu non resta dunque che giocare da solo, recuperando quanto più potere possibile in Sardegna. Un tentativo di rivalsa, spiegano diverse fonti isolane, neppure tanto nascosto. Lo testimonia il testo del documento firmato dai contestatori, dove non si cita mai Berlusconi, nonostante sia stato proprio lui il fautore della vittoria di Cappellacci. Con un’aggravante. Quando si prende in esame «la questione meridionale», gli undici consiglieri Pdl sottoscrivono che «sta finalmente tornando all’attenzione del Paese, come attestano le recenti autorevoli dichiarazioni del presidente della Reppubblica e del governatore della Banca d’Italia». Cioè, Giorgio Napolitano e Mario Draghi.

Bene, anzi male. Non stupisca quindi il malumore del Cavaliere - nel weekend forse solo casualmente in Costa Smeralda - cosciente che a maggio in Sardegna si voterà nelle otto Province (una sola è in mano al centrodestra). Ma non finisce qui, è ovvio. Se ne vedranno delle belle già domani, alla riunione del coordinamento Pdl. Convocati anche Cappellacci, Delogu e Lombardo, insieme ai vicecoordinatori (tra cui i deputati Salvatore Cicu e Piero Testoni). E i frondisti? Forse siederanno al tavolo. Ma a quel punto, è difficile che il Mirto faccia la sua comparsa.

(di Adalberto Signore)

venerdì 12 febbraio 2010

Dal nazismo a Buddha: storia dello studioso che ha fatto scandalo

La sua vita fu avvolta dalle leggende, e così lo è oggi la sua morte. Tra le tante che aleggiavano attorno alla sua figura di guerriero mistico, si tramandava quella che avesse già scelto la liturgia del proprio funerale. Voleva che la bara fosse avvolta nella bandiera del Terzo Reich. È morto Pio Filippani Ronconi: l’ultimo nazista.Probabilmente si tratta soltanto di una leggenda nera. Ma quella bandiera, se anche non ne avvolgerà la morte, avvolse buona parte della sua vita, e la memoria del suo nome da qui fino a quando sarà ricordato.
Pio Filippani Ronconi, nato a Madrid nel 1920, un «italiano all’estero» come si definiva, era un orientalista e storico delle religioni, uno dei più grandi del nostro Novecento. Un maestro che conosceva una quarantina di lingue, un accademico di rango, uno studioso che pubblicò una ventina di libri sulle culture e filosofie orientali, un «iniziato» che tradusse dal sanscrito le Upanishad. Ma era ricordato, e lo sarà sempre, perché da giovane indossò la divisa delle SS. Una scelta che non può essere cancellata da alcun percorso culturale successivo. Seppur brillantissimo. Sono scelte estreme, che si pagano, magari anche mezzo secolo dopo, come pagò Filippani Ronconi.
Anzi, il conte Pio Filippani Ronconi, nato da famiglia aristocratica, patrizi romani e conti del Sacro Romano Impero. Il padre passò la vita tra l’Italia, l’Inghilterra, i Caraibi fino in Patagonia. La madre fu fucilata dai repubblicani, in Spagna, durante la guerra civile, finita la quale il giovane caballero che in quel momento conosceva già lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il turco... tornò in Italia. Nella Seconda guerra mondiale, a vent’anni, volontario negli Arditi, è già a combattere in Africa. Durante il conflitto si copre di gloria e di almeno un paio di ferite. La più grave subito dopo l’otto settembre 1943. «Il nove settembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso ed entusiasta; quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo», ricordò in un’intervista. Ossia? «Lavare l’onta del tradimento».
Pio Filippani Ronconi per lavare l’onta si arruola con il grado di Obersturmführer - «comandante superiore assaltatore» - nelle Waffen SS italiane. Durante lo sbarco Alleato è a Nettuno, «serve» nel Battaglione degli Oddi, sotto il comando del conte Carlo Federico degli Oddi, già ufficiale delle camicie nere. Andavano a tagliare i reticolati, ci passavano sotto, sgozzavano il nemico col coltello, arma nella quale Filippani Ronconi eccelle. «Era un compito duro, non pensavamo alla gloria... era la gioia di vivere davvero, malgrado rischiassimo la morte». Per il suo eroismo nella difesa del fronte a Nettuno riceve dal comando tedesco la Croce di Ferro. Il Léon Degrelle italiano.
E finita la guerra - durante la quale continua a studiare e (così si sussurra) avvicina anche le mitiche SS tibetane - le leggende continuano. Si interessa all’antroposofia e agli antichi paganesimi indoeuropei, approfondisce la storia delle religioni. Negli anni arriverà a conoscere anche il persiano, il pali, il cinese, lo svedese, il norreno, l’aramaico. Pratica boxe, judo, aikido. Nel 1959 inizia una carriera accademica che lo porta all’Istituto orientale di Napoli. Insegnerà Lingua e letteratura sanscrita, Dialettologia iranica, Filosofie dell’estremo oriente. Scrive e traduce testi ancora oggi fondamentali, tra i quali il volume sul canone buddhista.
Intanto, è impiegato come traduttore all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del Consiglio. E collabora come crittografo con il ministero della Difesa. Ufficialmente. Ma si dice - tutta la sua vita è un «si dice» - in realtà lavori per i Servizi segreti. Non è fascista, né neofascista. Lui si è sempre chiamato «guerriero». Però nel ’65 partecipa all’Hotel Parco dei Principi di Roma al famigerato convegno sulla «guerra rivoluzionaria» organizzato dall’Istituto Pollio, centro di studi strategici dietro cui si celavano i servizi di sicurezza dello Stato. È per via del suo intervento sulla controrivoluzione che Pio Filippani Ronconi negli anni Novanta viene interrogato dalla magistratura per la strage di piazza Fontana. Le indagini ne escludono qualsiasi coinvolgimento. Ma lo spettro dell’eversione nera (e delle mai fino in fondo chiarite finalità del circolo «Urri», l’Unione rinnovamento ragazzi d’Italia, da lui fondato per occuparsi di «archeologia e controguerriglia») non lo abbandonerà mai.
Intanto, è impiegato come traduttore all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del Consiglio. E collabora come crittografo con il ministero della Difesa. Ufficialmente. Ma si dice - tutta la sua vita è un «si dice» - in realtà lavori per i Servizi segreti. Non è fascista, né neofascista. Lui si è sempre chiamato «guerriero». Però nel ’65 partecipa all’Hotel Parco dei Principi di Roma al famigerato convegno sulla «guerra rivoluzionaria» organizzato dall’Istituto Pollio, centro di studi strategici dietro cui si celavano i servizi di sicurezza dello Stato. È per via del suo intervento sulla controrivoluzione che Pio Filippani Ronconi negli anni Novanta viene interrogato dalla magistratura per la strage di piazza Fontana. Le indagini ne escludono qualsiasi coinvolgimento. Ma lo spettro dell’eversione nera (e delle mai fino in fondo chiarite finalità del circolo «Urri», l’Unione rinnovamento ragazzi d’Italia, da lui fondato per occuparsi di «archeologia e controguerriglia») non lo abbandonerà mai.
Il passato, soprattutto certo passato, non passa mai. E quando Pio Filippani Ronconi, ormai riconosciuto orientalista, nel 2000 inizia a collaborare con il Corriere della sera, i fantasmi nazisti riappaiono sulla sua strada: un lettore (è la versione ufficiale, ma forse si tratta di un giornalista interno) riporta alla luce via e-mail i trascorsi SS della celebre firma. È il gennaio 2001. Sotto la direzione di Ferruccio de Bortoli, il komintern di redazione chiede la testa del «nazista» e del responsabile delle pagine culturali, Armando Torno (che già lo aveva chiamato a collaborare al Sole 24Ore insieme a Geymonat, Fortini, Cases... senza alcun problema).
Pochi mesi prima Pio Filippani Ronconi aveva ricevuto una laurea honoris causa a Trieste controfirmata dal ministro dell’Istruzione del governo Prodi, Luigi Berlinguer. Così ricorderà Pio Filippani Ronconi la polemica che per giorni tenne banco sui giornali: «L’acqua bagna, il fuoco brucia: è il dharma, come lo chiamano gli indiani... sarebbe a dire che ognuno fa le cose con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che inzaccherarti».
(di Luigi Mascheroni)

giovedì 11 febbraio 2010

Gad Lerner in tv fa il processo ai cattolici


Gad Lerner l’altra sera, all’Infedele, con la scusa di parlare del caso Boffo, ha mandato in onda un processo al cattolicesimo italiano mixando furbescamente e a vanvera fatti completamente slegati tra loro. Un dentro fuori tra le vicende di Avvenire, quelle di Marcinkus, con sullo sfondo papi e secoli di storia e di fede. Il tutto, ovviamente, condito con una spruzzatina di Berlusconi e di moralità pubblica e privata. Spalleggiato da due editorialisti di la Repubblica, il teologo Vito Mancuso e lo storico Adriano Prosperi, non ha dovuto faticare per tenere a bada, abile conduttore qual è, Vittorio Messori e Luigi Amicone. Minuto dopo minuto, allusione dopo allusione, Lerner ha composto il quadro di una Chiesa cattolica intrallazzona e corrotta, divorata da lotte intestine, insomma una banda di truffatori immorali dediti agli affari loro.

Inutilmente Messori e Amicone hanno cercato di sostenere la verità, e cioè che in duemila anni di storia non pochi mascalzoncelli e anime fragili hanno attraversato curie e sacrestie ma che la Chiesa è altro e che proprio per questo ha resistito sia all’usura umana che a quella del tempo. Quisquilie. Lerner ha continuato a girare il coltello nella piaga con malcelata soddisfazione. Il tema della serata era un presunto complotto sul caso Boffo, ma una buona parte della trasmissione è stata dedicata a «Vaticano Spa», il libro del giornalista Gianluigi Nuzzi che ricostruisce affari e malaffari dello Ior, la banca del Vaticano guidata per vent’anni dal discusso vescovo Paul Marcinkus.

Cosa c’entra Vittorio Feltri con le finanze cattoliche lo sa solo Gad Lerner. Che Marcinkus abbia combinato più di un pasticcio è storia nota da vent’anni. Che il libro di Nuzzi sia interessante è fuori dubbio. Ma da questo a imbastire un teorema in base al quale le finanze cattoliche sono marce e quindi è marcio anche buona parte del cattolicesimo, direi che ce ne corre. E comunque è una equazione pericolosa che quantomeno il giornalista Gad Lerner dovrebbe avere il coraggio di applicare con uguale energia sempre e comunque.

Il giornalista, come noto, non è cattolico. È di religione ebraica e non si è mai sognato di imbastire una puntata simile a quella di lunedì sera sul più grande scandalo finanziario degli ultimi anni, quello che ha visto come protagonista Bernard L. Madoff, ebreo, recentemente condannato a 150 anni di carcere negli Stati Uniti per aver truffato 500 miliardi di dollari a investitori di tutto il mondo. Madoff era ritenuto la punta di diamante della finanza ebraica e proprio all’interno della sua comunità, anche quella italiana, ha mietuto il maggior numero di vittime, tra le quali anche il premio Nobel della letteratura Elie Wiesel e il regista e produttore cinematografico Steven Spielberg. Seguendo il teorema Lerner, non solo la finanza ebraica sarebbe marcia, ma anche i suoi riferimenti civili e religiosi sarebbero assai furbetti.

Perché, sia pure con i distinguo dovuti alla non paragonabile organizzazione delle gerarchie delle due religioni, Madoff è stato il Marcinkus degli ebrei. Non potendo sospettare chi si nascondesse dietro quella maschera, in epoca non sospetta, persino il nostro autorevole commentatore R. A. Segre lo aveva definito, «il prototipo della onestà e della generosità della finanza ebraica nel mondo, soprattutto religiosa». Ovvio, visto che l’uomo era stato anche tesoriere della Yeshiva University di New York e presidente della Business School, considerata la più prestigiosa istituzione accademica religiosa ebraica d’America.

Gli esempi potrebbero essere anche altri. Nelle non poche puntate che l’Infedele ha dedicato alle attenzioni per le donne del nostro presidente del Consiglio, Gad Lerner non si è mai soffermato, per analogia giornalistica, sullo scandalo che ha travolto il presidente dello Stato d’Israele, Moshe Katsav, che si è autosospeso dalla carica dopo essere stato accusato dalla polizia di violenze sessuali su una dipendente oltre che di intercettazioni legali e di frodi. Né si è mai sognato di mettere in discussione, per questo episodio, la moralità pubblica e privata dell’intera classe dirigente di Israele.

Ora, essendo La7 una televisione privata può mandare in onda ciò che meglio crede e i cattolici sono altrettanto liberi di cadere nel trappolone e andare a farsi massacrare e spernacchiare in diretta tv. Basta avere sempre presente che non solo la cronaca, ma a volte anche la storia, non è come Gad Lerner ce la vuole raccontare.

(di Alessandro Sallusti)

I pensieri proibiti dal conformismo

C’è un pensiero proibito che non ha diritto di cittadinanza, di parola e di visibilità, in Italia e non solo. C’è un divieto che attraversa e congiunge giornali, media, politica e cultura. C’è un tabù perfino più grande del marchio d’infamia che investe Berlusconi. Ma di quest’altro tabù non ce ne accorgiamo nemmeno. Non è un complotto, anche se nel suo seno serpeggiano campagne orchestrate con fini palesi. È piuttosto un automatico sintonizzarsi al programma dominante da parte di un gregge di funzionari intellettuali e politici. Qual è il pensiero proibito? Proverò a dirlo in breve, ma sarà difficile, vi avverto.

In primis, è proibito pensare l’identità, ovvero la coerenza di un volto, una storia e una dignità alla prova del tempo, seppure esposta alle intemperie della vita e ai mutamenti del mondo. L’identità è considerata in sé un male, una chiusura, un carcere, quando invece è una ricchezza se sa aprirsi alla vita e incontrare la differenza. All’identità e alle radici è negato l’accesso alla libertà e alla democrazia contemporanea; anzi l’identità e le radici vengono connotate di razzismo, e perciò negate e interdette. È proibito poi pensare la comunità se non in forma di umanità e filantropia universale, comunismo dolce, perché la comunità è considerata una gabbia popolata di fantasmi furiosi del passato. Si può essere individualisti o cosmopoliti, ma guai a esporre un pensiero che dia senso e valore ad una comunità di origine e di sorte, che passi attraverso legami reali, naturali ed elettivi. Dalla famiglia alla propria città, dalla terra alla nazione e alla civiltà. Anche le identità dei popoli sono considerate oscene.

È proibito poi pensare la tradizione fuori dai circuiti turistico-commerciali in cui serve per vendere un prodotto, o una location. La tradizione è liquidata e confusa con il vecchiume, quando invece è l’unica premessa/promessa di continuità perché comporta un legame con un passato e un futuro. È consentito connettersi in senso orizzontale tramite il web, la tv e la tecnica, ma è vietato connettersi in senso verticale tramite la cultura, alle origini e ai frutti. Puoi connetterti ai contemporanei, non al pensiero dell’eredità e della gravidanza, al pensiero paterno e filiale. L’uso stesso di parole del lessico famigliare è sconveniente. Al più puoi vivere la famiglia, ma è osceno pensarla.

Sul piano politico, è vietato pensare la rivoluzione conservatrice, ovvero un pensiero radicato e anche radicale, quando occorre, esposto alle fratture e ai mutamenti del nostro tempo. La rivoluzione fu sostituita dall’innovazione, che non implica la volontà dei soggetti ma la forza automatica dei cambiamenti, indotti dalla tecnica e dalle mode. E l’aggettivo conservatrice è squalificato, connota un’offesa, è vietato il suo uso positivo in politica e in società.

È poi proibito pensare l’invisibile, che evoca la vita ulteriore, la trascendenza, la memoria dei morti. Si possono vivere mondi virtuali, uscire dalla realtà tramite tecnica, fiction o fumo, polvere e pasticche, ma è osceno pensare qualcosa che evochi il sacro e superi l’orizzonte tecnico ed economico, materiale o fittizio. Non c’è spazio pubblico nemmeno per Dio; solo accesso privato, e remoto, fra le grate dell’interiorità. È proibito pensare il destino, ovvero un disegno intelligente di vita che ci accompagna dalla nascita, e anche prima, alla morte, e anche dopo. È osceno pensare che l’importante della vita non sia diventare più liberi o più uguali, ma avere un destino, cioè avere un senso, una direzione, un ordito, e di ogni cosa resti traccia. È proibito pensare il ritorno perché l’ideologia del progresso si è rifugiata nella tecnica e nel suo procedere automatico; non è possibile ripensare e riscoprire le origini. È vietato pensare che ci possa essere un altro modo di vivere oltre il presente e oltre quest’ultimo, venale occidente. È proibito avere un pensiero libero, fondato e divergente ed è grottesco pensare che questo divieto sia sorto con l’egemonia dei liberatori, sessantottardi e non solo.

Eppure quel che ho descritto è un pensiero positivo, un pensiero che si apre alla nascita e alla continuità; un pensiero d’amore, senza violenza, che collega alla vita e connette le persone. Un pensiero che si fonda sulla realtà e tra l’essere e il non essere scommette sull’essere; vuole dar senso alla vita. Ma piovono libri, articoli e dichiarazioni che lo irridono, lo cancellano, lo dichiarano inesistente. Non lo discutono, lo seppelliscono. Per restare nel piccolo mondo del quotidiano, ne ho letti svariati negli ultimi giorni, con una sincronia impressionante. Lividi verso il pensiero proibito, pieni di elogi agli attacchini del nulla, pompati e inconsistenti ma utili per denigrare l’osceno pensare.

Sinistra e destra morirono insieme dopo una lunga agonia. Ma agli orfani della sinistra fu riconosciuta la pensione, la riconvertibilità e il credito culturale; agli orfani della destra fu dato invece il vituperio e lo sfratto esecutivo dalla casa paterna, dichiarata inagibile. Salvo abiura e integrazione nel nichilismo. Ai primi si rimprovera il lutto e la nostalgia ma si riconoscono le opere, il pensiero e la presenza. Ai secondi si nega il pensiero e la sua consistenza, anzi la loro esistenza. Non è questione di destra o cultura di destra, sono classificazioni insensate ormai. Ma c’è chi vuole cancellare sotto quel nome decotto ogni traccia del pensiero osceno. E si premia chi abbandona quell’identità, se mai l’ha veramente avuta, sostenendo che non si è perso niente perché quell’identità non c’era e non valeva niente. Tra i profughi del pensiero proibito taluni sopravvivono passando alla clandestinità, altri alla dissimulazione; c’è chi si rifugia in ambiti narrativi o in storie remote, chi nelle accademie e chi nel folclore, accettando di farsi caricatura di quel pensiero. Magari con qualche polizza: provvedersi di patente antiberlusconiana, genuflettersi ai santuari del presente o accattivarsi la società letteraria.

Al più sopravvive, spenta o sedata, qualche crosta di pensiero proibito separata dal suo contesto, senza più radici né frutti e organica tessitura. Eppure è diffuso nella vita reale dei popoli e nell’animo delle persone. Il pensiero vietato è la nuova oscenità del presente; sperando che scivoli nei tabù indicibili e perseguibili a norma di legge, di tipo razzista, sessista e revisionista. Chi coltiva il pensiero proibito è condannato all’anello di Gige, che rende invisibili. E al certificato di morte in vita. Scusate l’interruzione, riprendete a suonare il Silenzio.

(di Marcello Veneziani)

mercoledì 10 febbraio 2010

«Gli slavi giocarono a palla con la testa di mio padre»

«Gli slavi torturarono a morte mio padre. Non contenti, lo decapitarono per estrargli due denti d’oro. E poi, per sfregio, con la sua testa ci giocarono a palla, sui binari del treno. La sua “colpa”? Era italiano». A parlare è Nidia Cernecca, esule istriana, vedova e madre di tre figli. Oggi vive a Verona. Nacque a Gimino d’Istria nel 1936. Nel 1943 suo padre Giuseppe, semplice impiegato comunale, venne arrestato e, dopo un processo-farsa, fu torturato e ucciso dai miliziani comunisti italiani e slavi. L’uomo venne decapitato e con la sua testa fu giocata una macabra partita di pallone. In quel maledetto settembre 1943, mese fatale per le sorti dell’Italia, vigeva il machiavellico disegno espansionista di Tito, che identificava tutto ciò che era italiano con il Fascismo, riuscendo così ad unire i comunisti slavi con quelli italiani. Allora Nidia Cernecca aveva solo sette anni. Eppure il ricordo di quelle atrocità inferte a suo padre è scolpito nella sua mente, come un chiodo che le trafigge il cuore, ogni attimo. In questi giorni, in coincidenza delle celebrazioni del Ricordo dei martiri delle foibe e del dramma degli esuli, Cernecca sta girando in lungo e in largo l’Italia, con Gigi D’Agostini, ricercatore storico ed esule da Capodistria, tra convegni e incontri nelle scuole, «per la verità storica e contro la mistificazione», spiega lei. Che aggiunge: «Mi sento una combattente, ma vorrei tanto diventare una reduce. Vorrebbe dire che la mia guerra contro la falsificazione storica sarebbe finita. Lo volesse il Cielo. Io, intanto, non mi arrendo». Quella di Nidia Cernecca è una missione di verità. È presidente dell'associazione nazionale dei congiunti dei deportati italiani in Jugoslavia infoibati, scomparsi e uccisi. Un nome lunghissimo, che ci tiene però a specificare, integralmente. Per maggiori informazioni, anche sui tre libri da lei scritti, basta visitare il sito http://www.nidiacernecca.it/.
Ha avuto un risarcimento dallo Stato Italiano?
«L’elemosina, come tutti. Non saprei quantificarlo. Ad esempio, per le tre attività dei miei nonni materni, morti esuli, io e mia sorella abbiamo avuto 750mila lire a testa».
Prospettive future?
«Scusi, ma lei così mi provoca. Proprio in questi giorni si parla di far entrare la Croazia in Europa. Davvero un “bel” regalo per far celebrare a noi esuli la Giornata della Memoria, fissata per il 10 febbraio. Ma, dico, non si poteva almeno avere la delicatezza di scegliere un altro periodo? È un affronto far entrare in Europa la Croazia senza che abbia risarcito gli enormi debiti morali ed economici a noi italiani. Non dimentichiamoci che ci hanno massacrato anche dopo la fine della guerra. Per anni».
Se la sente di raccontare cosa accadde a suo padre?
«Mia madre lo vide passare sotto casa trascinato da una catena per buoi. Aveva sulle spalle la croce del suo calvario: un pesante sacco di pietre col quale lo avrebbero lapidato. Tra calci, insulti e percosse lo hanno fatto camminare per cinque chilometri, fino al bosco di Monte Croce. Qui lo hanno finito di massacrare, legato ad un ciliegio, per poi decapitarlo e portare la sua testa da un orologiaio per estrargli due denti d’oro. E pensare che mio padre, che a quel tempo lavorava in Municipio, non voleva credere a queste condanne senza colpa. Era stimato e amato da tutti. Una volta arrestato, non lo vedemmo più. Il capobanda Ivan Motika venne in casa nostra ad annunciare con fierezza la sua morte. Ricordo le sue minacce di morte se avessimo tentato di recuperare il corpo».

«Si moriva per una mela» Memorie dal lager di Tito

Lionello Rossi Kobau, classe 1926, abita in una bella casa milanese vicina ai navigli. Nello sguardo intenso, ma con un guizzo di ironia, gli resta l’aria del giovane che fu, del soldato ragazzino che si arruolò a diciassette anni nel battaglione Benito Mussolini dei Bersaglieri della Rsi.
Sì, Lionello Rossi Kobau ha scelto di combattere dalla parte sbagliata, lo ha fatto in un’età che per definizione non è ancora quella della ragione ma quella del cuore, della rabbia, a volte dell’orgoglio. A tanti anni di distanza, seduto nel suo salotto dove lo costringono le sue anche malandate, quella decisione la racconta così: «Quando si parla dell’8 settembre e delle scelte che hanno fatto le persone non si ragiona mai a partire dai luoghi. Io ero nato e vissuto a Monfalcone. E in Venezia Giulia più che scegliere tra un’ideologia o l’altra si trattava di scegliere se restare italiani o accettare l’idea di un’occupazione slava. Io ho scelto di essere italiano, il resto è stata una conseguenza... Questo lo scoprirono, dolorosamente, anche coloro che scelsero di essere partigiani ma non vollero piegarsi alla volontà di occupazione dei titini». E proprio questa scelta di italianità ha portato Lionello Rossi Kobau a essere uno dei pochi testimoni superstiti degli atroci campi di concentramento jugoslavi tra cui quello di Borovnica. Campi in cui finirono non solo i «fascisti» della Rsi, non solo i poliziotti o i carabinieri, ma anche civili, partigiani, chiunque avesse un cognome italiano.
«Quello che è capitato a me e tanti altri - spiega Rossi Kobau - io l’ho messo subito per iscritto. Ogni volta che trovavo un pezzo di carta prendevo appunti. Ma poi per anni non ho avuto nemmeno il coraggio di pensarci. Ho trasformato tutto in un libro solo nel 2001 (Prigioniero di Tito 1945-1946, Mursia, euro 12,40, ndr). Prima in pochi avrebbero avuto voglia di ascoltare la mia storia. E del resto tornare a pensarci mi ha prodotto una grande sofferenza, anch’io per anni ho preferito non guardare indietro...».
E ascoltando il suo racconto questo desiderio appare più che comprensibile. «Il mio battaglione si è arreso ai titini il 30 aprile del 1945. Ci avevano promesso l’onore delle armi e un rapido rientro in patria. Noi ci abbiamo creduto: avevamo operato nella valle del Baccia, dove con la popolazione slovena avevamo stabilito rapporti più che cordiali nonostante la necessità di scontrarci con i partigiani che spesso erano loro parenti. Ma già il 3 maggio abbiamo capito di esserci sbagliati. Ci hanno portato a Tolmino, dove sono iniziati degli interrogatori brutali. Quello che potevi fare era solo cercare di scegliere la fila che portava alla stanza da cui sentivi urlare di meno... Cercavano di farci confessare qualcosa, qualsiasi cosa... Ma non erano gli sloveni con cui avevamo avuto a che fare a comportarsi così. Anzi, molte persone vennero dalla Valle del Baccia a portarci da mangiare. Mancando delle accuse di qualsiasi tipo i partigiani venuti da fuori dovettero inventarsi qualcosa, qualsiasi cosa. E così uccisero a caso, portarono via 89 di noi. In parte li impiccarono, in parte li buttarono in una foiba, la fecero saltare con loro dentro...». Ma anche per i superstiti iniziò un’odissea tremenda. «Fummo portati al campo di Borovnica e lasciati morire di fame. In pochi giorni mangiammo tutta l’erba... Quando nel campo non ci fu più niente di verde qualcuno iniziò ad allungare le mani fuori dal recinto, i ragazzini che stavano sulle torrette gli sparavano addosso... E a noi toccava prendere i cadaveri e buttarli nelle latrine o nei canali vicini al campo...». E se gli abitanti di Borovnica, impietositi, cercavano di aiutare gli italiani, questo a volte era più un male che un bene: «Ci sono miei compagni di prigionia che sono stati appesi al palo con il filo spinato perché sono stati trovati con una mela. E dopo ore di tortura sono stati fucilati. Di alcuni ricordo i nomi: Fernando Ricchetti, Giuseppe Spanò... Di altri no, come un civile a cui venne spezzata la schiena...». Questa feroce macelleria con alti e bassi dura, per chi sopravvive e non viene rimpatriato prima, sino al 1946. «E lo ribadisco: per finire in questi campi bastava essere italiani, ho incontrato lì anche un ragazzo ebreo che si chiamava Davide e che aveva la sfortuna di parlare italiano. Ho incrociato anche partigiani della Garibaldi buttati lì con noi, uno che si chiamava Mario mi diceva: “Ma ti pare giusto che sia qui con te che la guerra l’hai persa?”. Io non sapevo cosa dirgli, a quel punto eravamo tutti solo poveri italiani. Spero si sia salvato».
E la cosa più grave, secondo Lionello Rossi Kobau, è che di quei prigionieri non importava nulla a nessuno: «In Italia si sapeva, sia per le testimonianze di alcuni dei primi che tornarono sia per le denunce del vescovo di Trieste... Sarebbe bastato mandare del cibo per maiali e un po’ di pressione diplomatica degli alleati per salvare molti dalla morte per fame... Gli jugoslavi non avevano quasi più nulla e quel poco non lo davano certo a noi... Tutti però erano troppo impegnati a suonare il violino a Tito per staccarlo da Stalin. Devo anche dire che a Borovnica c’era un commissario politico che si chiamava Anton Markovic e veniva da Dobrovo. Contestò molti dei soprusi che subivamo, litigò furiosamente con i comandanti del campo ma venne ignorato sistematicamente. Fu comunque uno dei pochi che cercò di far qualcosa...».
Ma ci sono anche eventi più recenti che fanno soffrire questo reduce da un’esperienza così terribile. «Ritrovare i corpi dei morti nel campo do Borovnica è quasi impossibile. I bersaglieri che invece vennero uccisi e infoibati vicino a Tolmino quelli sarebbe possibile ritrovarli. Ci provo dal 2006 anche grazie all’aiuto di alcuni abitanti. Ma le autorità slovene danno un aiuto formale e molto poco sostanziale. Si limitano a dire: voi diteci dove scavare e noi scaviamo. Quanto al Commissariato generale italiano per le onoranze ai caduti di guerra, i suoi vertici cambiano spesso e questo rende il lavoro discontinuo e sino a ora infruttuoso. E io divento sempre più vecchio e più stanco... Nel 2008 mi sono fatto accompagnare a Tolmino da mio figlio (il noto comico Paolo Rossi, ndr). Abbiamo idee politiche diverse, ma in questa vicenda mi ha sempre aiutato. Quando ha visto il paese mi ha detto: “Qui è pieno di turisti che vanno a pesca, sembra la Svizzera, non credo vogliano ricordare quel passato, non lo vogliono un cippo. Forse nemmeno per i loro...”. Temo avesse ragione, anche se io non voglio arrendermi».