venerdì 31 agosto 2012

Socialismo antiprogressista


Come osserva Serge Salimi, «la sinistra riformista si distingue dai conservatori per il tempo di una campagna elettorale grazie a un effetto ottico. Poi, quando le è data l’occasione, si adopera a governare come i suoi avversari, a non disturbare l’ordine economico, a proteggere l’argenteria della gente del castello» .

La domanda che si pone è: perché? Quali sono le cause di questa deriva? La si può spiegare unicamente con l’opportunismo dei singoli, ex rivoluzionari divenuti notabili? Bisogna vedervi una lontana conseguenza dell’avvento del sistema fordista? Un effetto della congiuntura storica, cioè del crollo del blocco sovietico che ha annientato l’idea di una credibile alternativa al sistema di mercato?

Ne Le complexe d’Orphée, il suo ultimo libro pubblicato, Jean-Claude Michéa dà una risposta più originale e anche più profonda: la sinistra si è separata dal popolo perché ha aderito molto presto all’ideologia del progresso, che contraddice nettamente tutti i valori popolari .

Fondamentalmente orientata verso l’avvenire, la filosofia dei Lumi, come si sa, demonizza le nozioni di «tradizione», «consuetudine», «radicamento», vedendovi solo superstizioni superate e ostacoli alla trionfale marcia in avanti del progresso. Tendendo all’unificazione del genere umano e contemporaneamente all’avvento di un universo «liquido» (Zygmunt Bauman), la teoria del progresso implica il ripudio di ogni forma di appartenenza «arcaica», ossia anteriore, e la distruzione sistematica della base organica e simbolica delle solidarietà tradizionali (come fece in Inghilterra il celebre movimento delle enclosures, che costrinse all’esodo migliaia di contadini privati dei loro diritti consuetudinari, per convertirli in manodopera proletaria sradicata e dunque sfruttabile a volontà nelle manifatture e nelle fabbriche). In un’ottica «progressista», ogni giudizio positivo sul mondo così com’era una volta rientra dunque necessariamente nell’ambito di un passatismo «nostalgico»: «Tutti coloro i quali – ontologicamente incapaci di ammettere che i tempi cambiano – manifesteranno, in qualunque campo, un qualsiasi attaccamento (o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esisteva ancora ieri tradiranno così un inquietante “conservatorismo” o addirittura, per i più empi tra loro, una natura irrimediabilmente “reazionaria”» . Il mondo nuovo deve essere necessariamente edificato sulle rovine del mondo di prima. Poiché la liquidazione delle radici forma la base del programma, se ne deduce che «solo gli sradicati possono accedere alla libertà intellettuale e politica» (Christopher Lasch).

Questa è la rappresentazione del mondo che, nel XVIII secolo, ha accompagnato l’ascesa sociale della borghesia e, con essa, la diffusione dei valori mercantili. Atteggiamento moderno corrispondente a un universalismo astratto nel quale Friedrich Engels vedeva, a giusta ragione, il «regno idealizzato della borghesia». (Anche Sorel, a suo tempo, aveva sottolineato il carattere profondamente borghese dell’ideologia del progresso). Ma anche antico comportamento monoteista che scaglia l’anatema contro le realtà particolari in nome dell’iconoclastia del concetto, vecchio atteggiamento platonico che discredita il mondo sensibile in nome delle idee pure.

La teoria del progresso è direttamente associata all’ideologia liberale. Il progetto liberale nasce, nel XVII secolo, dal desiderio di farla finita con le guerre civili e di religione, rifiutando al contempo l’assolutismo, ritenuto incompatibile con la libertà individuale. Dopo le guerre di religione, i liberali hanno creduto che si potesse evitare la guerra civile solo smettendo di appellarsi a valori morali condivisi. Erano favorevoli a uno Stato che, per quanto riguardava la «vita buona», fosse neutro.

Poiché la società non poteva più essere fondata sulla virtù, il buon senso o il bene comune, la morale doveva restare un affare privato (principio di neutralità assiologia). L’idea generale era che si poteva fondare la società civile solo sull’esclusione di principio di ogni riferimento a valori comuni – il che equivaleva, in compenso, a legittimare qualunque desiderio o capriccio che fosse oggetto di una scelta «privata».

Il progetto liberale, spiega Jean-Claude Michéa, ha prodotto due cose: «Da un lato, lo Stato di diritto, ufficialmente neutro sul piano dei valori morali e “ideologici”, e la cui unica funzione è di badare che la libertà degli uni non nuoccia a quella degli altri (una Costituzione liberale ha la stessa struttura metafisica del codice della strada). Dall’altro, il mercato auto-regolatore, che si presume permetta a ciascuno di accordarsi pacificamente con i suoi simili sull’unica base dell’interesse ben compreso delle parti interessate» .

Durante tutta la prima parte del XIX secolo, sono appunto i liberali a formare il cuore della «sinistra» parlamentare dell’epoca (il che spiega il senso che ha conservato oggi negli Stati Uniti la parola liberal). I liberali riprendono quell’idea fondamentalmente moderna consistente nel vedere nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto emancipatore per eccellenza e l’unica via d’accesso a una società “universale” e “cosmopolita». Benjamin Constant, per citare solo lui, è il primo a celebrare quella disposizione della «natura umana» che induce a «immolare il presente all’avvenire».

Mentre la III Repubblica vede la borghesia assumere a poco a poco l’eredità della rivoluzione del 1789, il movimento socialista si struttura in associazioni e partiti. Ricordiamo che la parola «socialismo» appare solo verso il 1830, in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen, nel momento in cui il capitalismo si afferma come forza dominante. Il diritto di sciopero è riconosciuto nel 1864, lo stesso anno della fondazione della I Internazionale. Orbene, i primi socialisti, la cui base sociale si torva soprattutto tra gli operai di mestiere, non si presentano affatto come uomini «di sinistra». Michéa ricorda, d’altronde, che «il socialismo non era, in origine, né di sinistra né di destra»  e che non sarebbe mai venuto in mente a Sorel o a Proudhon, a Marx o a Bakunin di definirsi come uomini «di sinistra». A parte i «radicali», la «sinistra», all’epoca, non designa niente.
In origine, il movimento socialista si pone, in effetti, come forza indipendente, sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei «reazionari» che dei «repubblicani» e di altre forze di «sinistra». Ovviamente, si oppone ai privilegi di caste legate alle gerarchie dell’Ancien Régime – privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – ma si oppone ugualmente all’individualismo dei Lumi, ereditato dall’economia politica inglese, con la sua apologia dei valori mercantili, già così ben criticati da Rousseau. Esso, dunque, non abbraccia le idee della sinistra «progressista» e comprende bene che i valori di «progresso» esaltati dalla sinistra sono anche quelli cui si richiama la borghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In realtà, lotta, al contempo, contro la destra monarchica e clericale, contro il capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro vivo, e contro la «sinistra» progressista erede dei Lumi. Si è così in un gioco a tre, molto differente dallo spartiacque destra-sinistra che si imporrà all’indomani della Prima Guerra mondiale.

È, d’altronde, contro il riformismo e il parlamentarismo della «sinistra» che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano oppongono allora l’ideale del mutualismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all’opera nell’«azione diretta» - ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT.

I primi socialisti non erano nemmeno avversari del passato. Più esattamente, distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rientrava nell’ambito del principio di dominazione gerarchica, da essi rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio «comunitario» (la Gemeinwesen di Marx) e dai valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano. «Per i primi socialisti, era chiaro che una società nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non poteva costituire una comunità degna di questo nome» . Proprio per questo, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici socialisti, affermava non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».

In Francia, l’alleanza storica tra il socialismo (influenzato prima dalla socialdemocrazia tedesca e poi dal marxismo) e la «sinistra» progressista si instaura all’epoca dell’affare Dreyfus (1894). Svolta profondamente negativa. Nato dalla preoccupazione di una «difesa repubblicana» contro la destra monarchica, clericale o nazionalista, si delinea un compromesso che partorirà in primo luogo i cosiddetti «repubblicani progressisti». Si crea allora una confusione tra ciò che è emancipatore e ciò che è moderno, i due termini essendo a torto ritenuti sinonimi.

È in questo momento, scrive Michéa, che il movimento socialista è stato «progressivamente indotto a sostituire alla lotta iniziale dei lavoratori contro il dominio borghese e capitalista quella che avrebbe presto opposto – in nome del “progresso” e della “modernità – un “popolo di sinistra” e un “popolo di destra” (e, in questa nuova ottica, era evidentemente scontato che un operaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infinitamente più vicino a un banchiere di sinistra o a un dirigente di sinistra del FMI che a un operaio, a un contadino o a un impiegato che dava i suoi voti alla destra)» . Allora – e soltanto allora – la causa del popolo ha cominciato a divenire sinonimo di quella di progresso, all’insegna di una «sinistra» che voleva essere anzitutto il «partito dell’avvenire» (contro il passato) e l’annunciatrice dei «domani che cantano», ossia della modernità in marcia. Soltanto allora si è reso necessario, quando ci si voleva situare «a sinistra», ostentare un «disprezzo di principio per tutto ciò che aveva ancora il marchio infamante di “ieri” (il mondo tenebroso del paese d’origine, delle tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiegamento su se stessi” o degli attaccamenti “irrazionali” a esseri e luoghi)» . Il movimento socialista, e poi comunista, riprenderà dunque per proprio conto l’ideale «progressista» del produttivismo ad oltranza, di quel progetto industriale e iperurbano che ha completato lo sradicamento delle classi popolari, rendendole ancora più vulnerabili all’influenza della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell’ideale abbia ricevuto una migliore accoglienza tra gli operai già sradicati che tra i contadini).

D’ora innanzi, per difendere il socialismo, bisognava credere alla promessa di una marcia in avanti dell’umanità verso un universo radicalmente nuovo, governato soltanto dalle leggi universali della ragione. Per essere «di sinistra», bisognava classificarsi tra coloro che, per principio, rifiutano di guardare indietro, così come fu intimato a Orfeo. Separato dalle sue radici, il movimento operaio è stato nello stesso tempo privato delle condizioni e dei mezzi della sua autonomia. Come aveva ben visto George Orwell, la religione del progresso priva infatti l’uomo della sua autonomia nel momento stesso in cui pretende di garantirla emancipandolo dal passato. Orbene, sottolinea Michéa, «dal momento in cui un individuo (o una collettività) è stato spossessato dei mezzi della sua autonomia, non può più perseverare nel suo essere se non ricorrendo a protesi artificiali. Ed è appunto questa vita artificiale (o “alienata”) che il consumo, la moda e lo spettacolo hanno il compito di offrire a titolo di compensazione illusoria a tutti coloro la cui esistenza è stata così mutilata» .

Poiché la sinistra si considera innovatrice, il capitalismo sarà nello stesso tempo denunciato come «conservatore». Altra deriva fatale, perché la Forma-Capitale è tutto tranne che conservatrice! Marx aveva già mostrato bene il carattere intrinsecamente «progressista» del capitalismo, cui riconosceva il merito di aver soppresso il feudalesimo e annegato tutti gli antichi valori nelle «gelide acque del calcolo egoistico». A questo tratto fondante se ne aggiunge un altro, tipico delle forme moderne di questo stesso capitalismo. «Una economia di mercato integrale», spiega Michéa, «può funzionare durevolmente solo se la maggior parte degli individui ha interiorizzato una cultura della moda, del consumo e della crescita illimitata, cultura necessariamente fondata sulla perpetua celebrazione della giovinezza, del capriccio individuale e del godimento immediato.  Dunque, è proprio il liberalismo culturale (e non il rigorismo morale o l’austerità religiosa) a costituire il complemento psicologico e morale più efficace di un capitalismo di consumo» . Ora, diventando «di sinistra», il socialismo ha fatto suoi anche i principi del liberalismo culturale. La sinistra «permissiva» è così divenuta il naturale humus di espansione della Forma-Capitale. È il capitalismo che permette meglio di «godere senza ostacoli»!

Per decenni, sotto l’etichetta di «sinistra», si troveranno dunque associate, in una permanente ambiguità, due cose totalmente differenti: da una parte, la giusta protesta morale della classe operaia contro la borghesia capitalista, e, dall’altra, la credenza liberale borghese in una teoria del progresso la quale afferma, in linea di massima, che «prima» non ha potuto che essere peggiore e che «domani» sarà necessariamente migliore. In effetti, il movimento socialista è veramente degenerato dal momento in cui è divenuto «progressista», ossia a partire dal momento in cui ha aderito alla teoria (o alla religione) del progresso – cioè alla metafisica dell’illimitato – che costituisce il cuore della filosofia dei Lumi, e dunque della filosofia liberale. Essendo la teoria del progresso intrinsecamente legata al liberalismo, la «sinistra», diventando «progressista», si condannava a confluire un giorno o l’altro nel campo liberale. Il verme era nel frutto. Il liberalismo culturale annunciava già il capovolgimento nel liberalismo economico. L’ultimo bastione a cedere è stato il partito comunista, che ha progressivamente smesso di svolgere il ruolo che in passato ne aveva decretato il successo: fornire «alla classe operaia e alle altre categorie popolari un linguaggio politico che permettesse loro di vivere la loro condizione con una certa fierezza e di dare un senso al mondo che avevano sotto gli occhi» .

Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe, beninteso, essere detto della destra, con una dimostrazione inversa: la sinistra ha aderito al liberalismo economico perché era già acquisita all’idea di progresso e al liberalismo «societale», mentre la destra ha aderito al liberalismo dei costumi perché ha prima adottato il liberalismo economico. Alla stupidità delle persone di sinistra che ritengono possibile combattere il capitalismo in nome del «progresso», corrisponde l’imbecillità delle persone di destra che ritengono possibile difendere al contempo i «valori tradizionali» e un’economia di mercato che non smette di distruggerli: «Il liberalismo economico integrale (ufficialmente difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come quest’ultima esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato» . Ciò spiega che destra e sinistra confluiscano oggi nell’ideologia dei diritti dell’uomo, il culto della crescita infinita, la venerazione dello scambio mercantile e il desiderio sfrenato di profitti. Il che ha almeno il merito di chiarire le cose.

La sinistra si è molto presto convinta che la globalizzazione del capitale rappresentava una evoluzione ineluttabile e un avvenire insuperabile, con la politica che, nello stesso tempo, si adattava alla globalizzazione economica e finanziaria. Il grande divorzio tra il popolo e la sinistra ne è stata la conseguenza più clamorosa.

Ormai, la sinistra celebra la crescita, ossia la produzione di merci all’infinito, negli stessi termini dei liberali, il nemico non è più il capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli uomini, ma il «reazionario» che ha il torto di rimpiangere il passato.

I «valori» della sinistra non sono più valori socialisti, ma valori «progressisti»: immigrazionismo, apertura o soppressione delle frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe droghe, ecc., tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo disaccordo o di cui si disinteressa totalmente.

Poiché l’obiettivo non è più lottare contro il capitalismo, ma combattere tutte le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente descritte come il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò spiega», constata Jean_Claude Michéa, «che il “migrante” sia progressivamente divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico proletario, sempre sospetto di non essere abbastanza indifferente alla sua comunità originaria o, a più forte ragione, il contadino, che il suo legame costitutivo con la terra destinava a diventare la figura più disprezzata – e più derisa – della cultura capitalistica».

Il popolo non si riconosce più in una sinistra che ha sostituito l’anticapitalismo con un simulacro di «antifascismo», il socialismo con l’individualismo radical chic e l’internazionalismo con il cosmopolitismo o l’«immigrazionismo», prova solo disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo celebrando al contempo il «meticciato» e la «diversità» , si sfinisce in pratiche «civiche» e in lotte «contro tutte le discriminazioni» (con la notevole eccezione, beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo vantaggio delle banche, del Lumpenproletariat e di tutta una serie di marginali.

Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso, si volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come «populisti» (uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe). Georges Sorel diceva che «il sublime è morto nella borghesia, che è dunque condannata a non avere più una morale». Anche Michéa parla di morale. Ma qui non si tratta del «sublime», bensì della decenza comune (common decency) tanto spesso celebrata da Orwell.

«È morale», diceva Emile Durkheim, «tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo». «Ciò spiega», aggiunge Michéa, «che la rivolta dei primi socialisti contro un mondo fondato sul solo calcolo egoistico sia stata così spesso sostenuta da una esperienza morale» . Si pensi alla «virtù» celebrata da Jaurès, alla «morale sociale» di cui parlava Benoît Malon. La «decenza comune», che è mille miglia lontana da ogni forma di ordine morale o di puritanesimo moralizzatore, è infatti uno dei tratti principali della «gente normale» ed è nel popolo che la si trova più comunemente diffusa. Essa implica la generosità, il senso dell’onore, la solidarietà ed è all’opera nella triplice obbligazione di «dare, ricevere e restituire» che per Marcel Mauss era il fondamento del dono e del controdono. A partire da essa, si è espressa in passato la protesta contro l’ingiustizia sociale, perché permetteva di percepire l’immoralità di un mondo fondato esclusivamente sul calcolo interessato e la trasgressione permanente di tutti i limiti. Ma è altresì essa che, oggi, protesta con tutta la sua forza contro quella sinistra «moderna» di cui un Dominique Strass-Kahn è il simbolo e nella quale non si riconosce più. «Da questo punto di vista», scrive Michéa, «il progetto socialista (o, se si preferisce l’altro termine utilizzato da Orwell, quello di una società decente) appare proprio come una continuazione della morale con altri mezzi» .

Come si è capito, Michéa non critica la sinistra da un punto di vista di destra – e ce ne rallegriamo – bensì in nome dei valori fondanti del socialismo delle origini e del movimento operaio. Tutta la sua opera si presenta, d’altronde, come uno sforzo per ritrovare lo spirito di questo socialismo delle origini e porre le basi del suo rinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo la difesa della «gente normale», egli rifiuta anzitutto che si screditino valori di radicamento e strutture organiche che, in passato, sono stati spesso l’unica protezione di cui disponevano i più poveri e i più sfruttati.

Non è un punto di vista isolato. Il percorso di Jean-Claude Michéa si inscrive piuttosto in una vasta galassia, dove troviamo, in primo luogo, ovviamente, il grande George Orwell, al quale Michéa ha dedicato un libro notevole (Orwell, anarchiste tory), come pure Christopher Lasch, teorico di un «populismo» socialista e comunitario, grande avversario dell’ideologia del progresso , di cui ha contribuito più di chiunque altro a far conoscere il pensiero in Francia. Vi troviamo anche, per citare solo pochi nomi, il giovane Marx critico dei «diritti dell’uomo», i primi socialisti francesi, William Morris, Charles Péguy e Chesterton, l’Antonio Gramsci che sottolinea l’importanza delle culture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari (colui che diceva: «Ciò che ci spinge a tornare indietro è umano e necessario tanto quanto ciò che ci spinge ad andare avanti»), Clouscard e la sua critica dei liberali-libertari, Jean Baudrillard e la sua denuncia della «sinistra divina», i films di Ken Loach e di Guédiguian, la canzoni di Brassens, senza dimenticare Walter Benjamin, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge Latouche[...]

(di Alain de Benoist)

mercoledì 29 agosto 2012

L'ultimo uomo sulla terra


Sì, è vero, l'abbiamo guardato tutti, in quella magica notte del 20 luglio 1969, l'approdo del primo uomo sulla Luna. Io avevo 25 anni e mi trovavo a Viareggio, a spendere i miei pochi giorni di ferie, morbosamente attratto dal “caso Lavorini” un ragazzino di dodici anni ucciso nella pineta di Vecchiano, un delitto omosessuale. Il principale imputato, Adolfo Meciani, massacrato dalla stampa, si era impiccato in carcere, con un lenzuolo, pochi mesi dopo, il 24 maggio del 1969 (in seguito sarebbe risultato innocente).

Per solidarietà, e per curiosità, frequentavo i Bagni Anna, tenuti da sua moglie. Seguii quindi l'avvicinamento dell'Apollo 11 alla Luna dal bar di questi Bagni, gremito fino all'inverosimile da uomini, donne, vecchi, ragazzi, da famiglie intere che tenevano i bambini addormentati in braccio.

La tv in Italia c’era da appena 15 anni e gli alberghi, almeno quelli che potevo permettermi io, non avevano, come oggi tutti, il televisore in camera. Eppoi quello era un avvenimento da vivere assieme agli altri. La Tv aveva ancora una funzione aggregante, non disgregante, una droga da assumere solipsisticamente ognuno chiuso nella propria camera.

Si, è vero, lo abbiamo seguito tutti quell'evento (un vero “evento”, non un concerto di Zucchero) con trepidazione e quell'eterna illusione che accompagna sempre l’uomo, indispensabile a nascondergli la tragicità dell'esistenza. Una prima incrinatura, quasi uno stridore, si avvertì quando Neil Armstrong, messo piede sulla Luna, pronunciò la famosa frase: "Questo è un piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l'umanità”. Ma come, tu sei sulla Luna, vedi la Terra da lì e le stelle e l'Universo come nessun uomo le ha mai viste, devi essere preda di un'emozione violentissima, e te ne esci con una simile stronzata?

Si sarebbe saputo in seguito che gliela aveva dettata l'Ufficio stampa della Nasa. E la cosa non era priva di significato.

Quella magica notte d'estate del 1969 non era un inizio, ma una fine. Non era un'entrata, ma un’uscita. Dai favolosi Sixties in cui noi ragazzi europei, grazie al vento che soffiava dall’Inghilterra, con Mary Quant, la minigonna, i Beatles, conoscevamo, per la prima volta, dopo un paio di secoli di pruderie borghese, la libertà sessuale. Ma con una curiosità ingenua, lontana dall'ossessione erotica dei nostri giorni. Per me c’è un'immagine che fotografa emblematicamente l’innocente malizia degli anni Sessanta: Laurent Terzieff (Peccatori in Blue jeans), in piedi, a torso nudo, glabro, con l'acqua del mare che gli arriva fino alle ginocchia dei jeans, mentre porta a cavalcioni, sul collo, come una bimba, una Brigitte Bardot solare, anch'essa in jeans e t-shirt bianca.

Noi ragazzi giravamo l'Europa in autostop, gli automobilisti ci caricavano senza problemi, la droga era di là da venire e non c'era il rischio di prendersi una coltellata a tradimento. La macchina stava diventando un mezzo di trasporto di massa ("c'ho giù la Giulia", "da casello a casello"), scoprivamo il benessere senza conoscerne ancora le insidie. Entravamo nei supermercati e, come a Pinocchio non ancora diventato Lucignolo, ci pareva di essere nel Paese di Bengodi. Sperimentavamo il benessere ma, adulti o ragazzi, eravamo ancora sufficientemente naïf per non viverlo in modo volgare, ma con l'occhio stupito dei bimbi.

In realtà quella magica notte dell'estate del 1969 significò, simbolicamente e concretamente, la perdita dell'innocenza e segnò la fine dell'individuo. Proprio mentre ne celebravamo il trionfo, l'avventura dell'Apollo 11 distruggeva la figura dell'individuo, dell'eroe solitario, di Lindberg che trasvolò da solo l'oceano, di Galileo che, solo con l'aiuto del suo cannocchiale, oltre che delle teorie dì Copernico, capovolse il mondo, di Cristoforo Colombo che con tre Caravelle, poco più che delle barche, partì per l'ignoto.

Dietro Neil Armstrong c'era un’organizzazione formidabile, una tecnologia sofisticatissima, un lavoro d'équipe che relegava l'uomo, il singolo, benché illuminato dai riflettori, a un ruolo marginale e lo rendeva, di fatto, sostituibile. Un automa. E di lì a poco, la tecnologia e l'economia ci avrebbero resi sudditi di processi su cui nulla possiamo e che nemmeno conosciamo. Ma in quella calda estate del 1969 non pensavo a queste cose. Avevo 25 anni e pensavo di avere, come Neil Armstrong, l'Universo ai miei piedi.

(di Massimo Fini)

venerdì 24 agosto 2012

Il conflitto siriano e l’ipocrisia occidentale


Quanta ipocrisia dietro il conflitto siriano. E quanta malafede nella disinformazione. In Siria è in atto una guerra civile, molto delicata e che travalica i confini nazionali. È una guerra tra interessi geostrategici e fazioni opposte, sostenute e foraggiate da grandi potenze per motivi contrapposti. Quella in Siria è una guerra per ridisegnare il Medio Oriente, per estendere i propri interessi e la propria egemonia, per controllare confini e risorse, per conquistare mercati e alleati. Basta con tutta questa ipocrisia occidentale dei diritti umani. Parliamoci chiaro senza prenderci in giro: alle potenze occidentali (non dico all’opinione pubblica, ma ai governi piegati agli interessi delle multinazionali) non interessa un fico secco dei diritti umani, così come non interessano alla Cina e alla Russia, ma sono solo un pretesto usato per coprire le reali ragioni che spingono gli stati ad entrare in guerra. Altrimenti non si capirebbe come si possa condannare la Siria e salvare l’Arabia Saudita (probabilmente una delle peggiori dittature al mondo), salvare la crudele repressione del Baharain, giustificare il Qatar e l’aver tollerato per 30 anni Mubarak. Non sto difendendo Assad e suoi crimini, ma sono nauseato dall’ipocrisia di chi parla di violazione dei diritti civili e della necessità di un “intervento umanitario” - vecchio slogan sempre buono nel mondo occidentale per giustificare le peggiori nefandezze - della comunità internazionale, intendo per essa l’Occidente e la Nato.

In Siria è in corso una guerra molto più delicata di quanto molto semplicisticamente ci viene raccontata. La Cina, la Russia e l’Iran sostengono Assad, ognuno per i propri motivi e non certo per questioni etiche e o umanitarie. Così come USA, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita e Turchia sostengono, armano e finanziano i ribelli e non di certo per ragioni umanitarie. Ma perché prenderci in giro allora e sostenere che noi occidentali buoni siamo là per proteggere i diritti umani? Diritti di chi? Smettiamola di sentirci i detentori dei diritti umani a livello globale e di poter decidere le sorti del mondo, sulla base della nostra idea di mondo. Smettiamola di crederci superiori, perché la restante parte del mondo, ovvero la stragrande maggioranza, non ci crede più. Vogliamo dire che in Vietnam gli Stati Uniti sono intervenuti per motivi etici? E in Kosovo? E in Afganistan? E in Iraq? E in Libia? E perché da decenni oramai salva Israele da tutte le condanne delle Nazioni Unite contro le sue violazioni? E perché allora sostiene l’Arabia Saudita o il Baharain dove oggi vi sono in carcere più di 1400 persone ree di aver protestato contro il regime?

Mi si scusi il tono, ma trovo offensivo per l’intelligenza umana credere che la Turchia (quella che reprime i curdi e che nega loro i più elementari diritti civili e che ha lasciato in carcere per 10 lunghi anni Leyla Zana, una parlamentare curda, solo per aver detto, durante il giuramento in parlamento, queste parole in curdo “faccio questo giuramento in nome della fratellanza tra il popolo curdo e turco”) stia intervenendo per ragioni umanitarie. Trovo offensivo per l’intelligenza umana credere che l’Arabia Saudita (quella che ha finanziato, sostenuto e sorretto i talebani in Afganistan e che esporta il peggior fondamentalismo religioso in Somalia e nello Yemen, in Nigeria e in buona parte del continente africano) sia in Siria con i suoi mercenari per difendere i diritti civili. Francesi, americani, inglesi sono operativi sul suolo siriano da altre un anno, aizzando la rivolta, armando e preparando militarmente l’esercito di ribelli ai quali è stato dato il nome di “Esercito Siriano libero”, come nelle migliori strategie di marketing, un brand da vendere tramite le proprie Tv. In Siria sono operativi molti mercenari fondamentalisti provenienti da diverse parti del mondo che combattono la loro guerra e non lo fanno di certo in nome dei diritti civili. Niente di nuovo sotto il sole se poteri e interessi contrapposti cercano di trarre i loro vantaggi aiutando ora l’uno, ora l’altro attore in guerra. In nome della Realpolitik tutti gli stati finanziano gruppi ribelli o truppe filogovernative. L’Occidente finanzia i ribelli in Siria e le truppe filo regime in Bahrain, perché esistono rivolte buone e rivolte cattive, rivolte utili e rivolte dannose per i propri interessi. Pensiamo a cosa succederebbe se la Cina e la Russia decidessero di fornire armi, soldi e tecnologia paramilitare ai ribelli del Bahrain. La rivolta si estenderebbe e intensificherebbe, vi sarebbero maggiori attacchi terroristici e maggiore repressione. Quello, insomma, che succede oggi in Siria.

Niente di nuovo, dicevamo. E allora smettiamola di prenderci in giro e far finta che vogliamo intervenire militarmente in Siria per i diritti umani: vogliamo intervenire in Siria perché ci conviene. Punto. Così come evitiamo che nel Bahrain la rivolta dilaghi. Evitiamo, perché ci conviene. Un altro punto. In Siria si combatte una guerra civile per tutelare gli interessi di altre grandi potenze, con morti e torture da entrambe le parti che vede contrapposto un gruppo di ribelli armati dall’Occidente e un esercito regolare che difende gli interessi del regime ed entrambi si stanno macchiando di crimini contro l’umanità. Nel bel mezzo la povera gente che, come sempre, paga il prezzo più alto.

(di Massimo Ragnedda)

mercoledì 22 agosto 2012

Lucette, la moglie discreta dell'infrequentabile Céline


Nel 1961, quando Louis-Ferdinand Céline morì all'età di 67 anni, Lucette, sua moglie, fu finalmente libera di vivere. Aveva quarantanove anni e fra la fuga dalla Francia attraversando un'Europa in fiamme, l'esilio forzoso in Danimarca, il rientro in patria grazie a un'amnistia, l'auto-esilio volontario sulle alture di Meudon, si era giocata quasi vent'anni della sua esistenza nel ruolo di moglie invisibile di un uomo impossibile. 

Céline non usciva mai di casa e, tranne rare occasioni, non riceveva, un «morto che cammina», artisticamente e fisicamente, il cui unico obiettivo era riprendersi quella gloria letteraria finita nella polvere per le sue scelte politico-ideologiche.

La decadenza fisica di lui prese via via le caratteristiche di una catastrofe, un corpo che sempre più si incurvava, un volto che sempre più si incavava, dei panni che sempre più coprivano, ma non vestivano, laceri, sporchi stracci senza forma… .

Al primo piano del villino di Meudon dove vivevano una vita da auto-reclusi per scelta di Louis, accettazione di Lucette, lei aveva ricavato la sua camera e organizzato una sala di danza. «Danza classica e di carattere» era l'insegna che aveva voluto mettere al cancello, sotto quella di «medico» scelta dal marito. Gli allievi, come i pazienti, erano rari. Per gli uni come per gli altri, era Madame Almanzor.

Nel decennio dell'«esilio volontario» di Meudon, Céline fece di Lucette la Lili e l'Arlette dei suoi ultimi romanzi, oggetto di ammirazione e di desiderio, «Ofelia nella vita, Giovanna d'Arco nella prova», ninfa pagana e gentile, «natura tutta armonia, danzatrice nell'animo e nel corpo, tutta nobiltà… Oh, lei ha i segni Arlette, felicemente! Le danzatrici, le vere, quelle che ci nascono, sono fatte di onde, diciamo! Non di carne… È utile nelle ore atroci… niente parole, allora! Basta parole! Solamente le mani! le dita… un gesto… una grazia… È tutto».

Dopo che Céline morì, Madame Almanzor, Lili, Arlette, divenne per tutti Madame Céline: la sua esistenza alimentava l'illusione che in qualche modo, in quella casa lui continuasse a esserci: si andava al 25 ter di route des Gardes, sulla strada che porta a Versailles, come si va in pellegrinaggio. Nel 1969, un incendio distrusse l'abitazione e Madame Céline la ricostruì tale e quale: gli morì il pappagallo del Gabon Toto, e lei si prese un Toto II, e così fece con i cani e con i gatti. Per certi versi, accadde la stessa cosa con gli amici fedeli dei tempi bui, le Arletty, i Marcel Aymé. Alla loro scomparsa, via via che le Parche ne tagliavano il filo della vita, Madame Céline li rimpiazzava con amici più giovani ma egualmente fedeli: il battagliero Dominique de Roux dei Cahiers de l'Herne, l'avvocato François Gibault, legale di Lucette e poi biografo di Louis, lo scrittore Frédéric Vitoux, futuro accademico di Francia…Il libro ora uscito in patria per festeggiare il traguardo raggiunto da Lucette dei cento anni (Madame Céline. Route des Gardes, Pgde, pagg. 139, euro 16,90) ne è per certi versi la più perfetta testimonianza. L'editore è Pierre Guillaume de Roux, il figlio di Dominique, fra i contributi, oltre i già citati Gibault e Vitoux, ci sono Sergine Le Bonnier e Serge Perrault, che Céline conobbero da vivo, Marc Laudelout e David Alliot, che all'opera di Céline hanno dedicato la loro esistenza, Véronique Robert-Chovin e Maroushka, che di Lucette furono allieve.

Nel mezzo secolo di Lucette senza Louis, per lei ci sono stati l'esame per prendere la patente e l'acquisto di una macchina, i viaggi in Asia, Giappone, India, Tailandia, in Africa, Kenya, Tanzania, nel Mediterraneo, Marocco e Grecia, Tunisia e Spagna, Italia, nel Nord-Europa, i fini settimana a Dieppe, le corse a Parigi per uno spettacolo di teatro o di danza, una serata al cinema, gli acquisti da Fauchon per le cene della domenica con amici, conoscenti, ammiratori: Charles Aznavour e Maurice Ronet, Claude Berri e Fabrice Luchini, Françoise Hardy e Philippe Sollers, Jacques Vergès e… Carla Bruni. Un universo completamente diverso rispetto al precedente, eppure non nuovo. Nel 1936, quando Louis e Lucette si misero insieme, lei appena tornata da una tournée negli Stati Uniti, lui fresco del nuovo scandalo di Mort à crédit, erano una ragazza curiosa e piena di vita di 24 anni e un quarantenne sensibile, colto e divertente. Alto più di un metro e ottanta, biondo e con gli occhi azzurri, abiti di buon taglio e stoffa inglese, di casa a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, già sposato e divorziato, quel Céline era un uomo di mondo… Poi il mondo non fu più lo stesso, e lui nemmeno.

Da più di un decennio ormai, Madame Céline non esce più: le gambe hanno smesso di funzionare, tre persone si occupano della sua salute, sotto la supervisione di Sergine Le Bonnier, ma i rendez-vous domenicali amicali e culinari, per quanto diminuiti continuano a esserci. Mesi fa Frédéric Vitoux mi ha detto che, dal punto di vista della verve e della testa, Lucette è sempre la stessa. Nel tempo, l'indirizzo di route des Gardes al numero 25 è divenuto lo spazio fuori moda eppure alla moda di un culto, il luogo intemporale dove soffia un certo spirito del tempo, un salotto da tè che sa dello zolfo dell'inferno umano e artistico proprio di Céline. Intelligentemente, Madame Céline ha messo la sordina sul Céline maledetto, dedicandosi al suo riscatto di scrittore puro e costruendo in alternativa l'immagine di un uomo sofferente, buono, travolto dagli eventi…. Fatalmente, la casa di Meudon è divenuto lo spazio dove la sovversione si è fatta istituzione, il sole nero dell'ignominia è andato sempre più tramontando, un cimitero di vivi che assomigliano a dei morti e dove l'unico veramente vivente è il morto periodicamente ricordato, difeso e amato, una sorta di Père Lachaise alla rovescia. Il più infrequentabile degli scrittori di Francia ha lasciato la più frequentata delle vedove.

(di Stenio Solinas)

venerdì 10 agosto 2012

Riprendiamoci la sovranità: sarà più facile battere la crisi


È possibile in questo fran­gente sospendere per un momento le cifre e gli indici, e tirar fuori un’idea politica? È possibile riporta­re al centro del discorso pubblico un linguaggio sconosciuto ai tecni­ci e agli eurocrati? Lo riassumo in una parola chiave che è cultura e prassi politica: sovranità. 

Una paro­la che è affermazione di principio, ri­vendicazione di competenza e di re­sponsabilità, assegnazione di com­piti e azione conseguente. Non è un concetto astratto ma si esprime in vari ambiti reali dove si esercita il po­tere e il consenso, la vita e lo spazio pubblico. La sovranità non è solo il potere sugli uomini e sulle cose, è il riconoscimento, o l’invocazione, di un principio e di un atto che non si inscrive dentro il fluire ordinario delle cose, ma che lo sovrasta, s’in­nalza sopra l’accadere e dunque lo modifica. Sovrano non è chi segue la realtà ma chi la cambia, decide un altro corso. Il male principale della nostra epoca è la riduzione dei processi storici e umani a puro auto­matismo: ovvero non si può fare che in questo modo, la tecnica o i bi­lanci hanno delle esigenze indero­gabili, matematiche, da cui non si può prescindere e tantomeno mo­dificare. Sovrano è colui che libera l’uomo dall’automa e lo restituisce alla responsabilità di decidere. Ca­liamo queste considerazioni nel­l’emergenza dei nostri giorni e nel­la convinzione ineluttabile che non si possa fare altro rispetto agli impe­rativi della finanza e della tecnica. La sovranità in questa fase si ribella al fatalismo della tecnica e della fi­nanza, non sottosta al suo diktat ma si pone appunto sopra e restituisce facoltà di decidere non solo le azio­ni ma anche le norme su cui fonda­re l’autonomia. Applichiamo così la sovranità ai diversi ambiti. Sovranità politica rispetto all’eco­nomia e ai mercati perché la politi­ca resta, nonostante tutto, il luogo in cui si rappresentano e si tutelano gli interessi generali e i principi con­divisi, il luogo in cui l’identità di un popolo si fa volontà di destino. La tecnica espleta le procedure, alla politica tocca però decidere l’orien­tamento, la direzione, le priorità.

Sovranità nazionale per afferma­re l’importanza decisiva dell’unità, della sua tradizione e della sua di­gnità che non può essere umiliata e svenduta da poteri anonimi e sovra­nazionali, che rispondono solo ai propri obbiettivi privati. Anche nel­la prospettiva europea non si può saltare, per esempio col fiscal com­pact, il gradino della sovranità na­zionale. È possibile integrare nel contesto europeo le sovranità nai­zonale, non dis-integrarle. Sovrani­tà pop­olare perché non si può calpe­stare la volontà di un popolo espres­sa dalla sua maggioranza subordi­nando un paese alle oligarchie fi­nanziarie e tecnocratiche, burocra­tiche e giudiziarie, ideologiche e mediatiche. Nessuna deificazione della democrazia e delle maggio­ranze, conosciamo bene i suoi limi­ti e le sue storture, ma resta prima­rio l’ancoraggio al sentire comune. Sovranità monetaria perché un paese resta sovrano se dispone del­la sua moneta, se è in grado di gover­narla e non di esserne succube, se non è strozzato dagli imperativi fi­nanziari o dalle ingiunzioni delle agenzie di rating. La moneta dev’es­sere al servizio dei cittadini, e non il contrario. Sovranità linguistica, nel senso che in Italia la lingua sovrana resta l’italiano. Va incoraggiato il bilin­guismo, ammirati i poliglotti, va dif­fuso l’inglese, tutelati i dialetti, ma l’italiano va difeso e promosso per­ché è il segno vivente e parlante del­la nostra identità e insieme è una delle lingue più nobili e gloriose al mondo.

Infine sovranità statuale perché uno Stato non può fallire ed elemo­sinare aiuti dalle banche, la nostra economia reale è solida, le nostre ri­serve aure­e sono rilevanti e le fami­glie italiane dispongono di beni rea­li come le case. Non può lo Stato ab­dicare in favore dei mercati, delle banche o di poteri per definizione irresponsabili nel senso che non ri­spondono a nessuno.

La sovranità infine ha bisogno di simboli di continuità e di identifica­zione. Per rendere vivente e non so­lo vigente la tradizione di un popo­lo, sorse la monarchia che dà un no­me, un volto e una storia regale alla sovranità. Incarnando la sovranità in una persona e non in un potere impersonale, si umanizza il potere e si stabilisce il principio che la so­vranità debba essere esercitata e fi­nalizzata all’umano e non ad altri paradigmi tecnici, normativi o fi­nanziari. Nella storia, la monarchia si espresse nella duplice versione di assoluta o costituzionale; oggi nelle due versioni di ereditaria ed eletti­va, ovvero dinastica o presidenzia­le. L’investitura ereditaria viene temperatadalruolo, percuiilsovra­no regna ma non governa; la regali­tà elettiva, invece, è a tempo, ma vie­ne rafforzata dalla possibilità di esercitare la sua sovranità pur bilan­ciata e vigilata da altri poteri. La decisione sovrana spetta a chi rappresenta la costellazione delle sovranità prima indicate, e ne ha la piena responsabilità di cosa fa e di come lo fa. La crisi si fronteggia con la sovranità, che implica la parteci­pazione del popolo sovrano e la de­cisione di chi è stato eletto per gui­darlo. Rispetto a questa domanda di sovranità, il governo dei tecnici è estraneo e la politica presente è ina­deguata. Sono buone ragioni per nutrire sfiducia ma non sono ragio­ni­ sufficienti per rimuoverel’urgen­za di ripristinare la sovranità. La ri­fondazione della polis riparte dalla sovranità.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 9 agosto 2012

Più di così non si può produrre


La finanza non è la causa della crisi che sta travolgendo il mondo occidentale, ne è solo l’aspetto più evidente contro cui è comodo e facile scagliarsi per evitare di dirsi la verità. Perché la crisi autentica è quella della cosiddetta ‘economia reale’, cioè di un modello di sviluppo basato sul meccanismo produzione-consumo (oggi addirittura ribaltatosi in un ‘consumare per produrre’) e sull’illusione delle crescite esponenziali che, come ho detto altre volte, esistono in matematica ma non in natura.

La locomotiva chiamata Rivoluzione Industriale, partita dall’Inghilterra a metà del Settecento, ha percorso a velocità sempre crescente, che con la maturazione della globalizzazione (che mosse i suoi primi passi proprio allora, essendo i due fenomeni strettamente collegati) è diventata folle, due secoli e mezzo, ma ora è arrivata al suo limite. Non si può più crescere. Non si può produrre di più di quanto abbiamo già prodotto.

Prendiamo, a mo’ di esempio, l’automobile. A chi si può vendere oggi un’automobile? A dei mercati marginali. Certo la si può vendere anche in India e in Cina, ma con una crescita a due cifre anche questi Paesi (che nel frattempo stanno saturando definitivamente i nostri mercati) arriveranno presto ai limiti cui siamo giunti noi. Certo si possono inventare ancora nuove tecnologie e loro applicazioni soprattutto nel campo del virtuale, ma dopo il computer, il cellulare, Internet, l’iPhone, l’iPad che altro ancora? Come c’è una bolla immobiliare c’è, su scala planetaria, una superbolla produttiva.

Sbaglia però chi predica, come mi pare facciano, sia pur con molte differenze, i firmatari del famoso Appello contro ‘il pensiero unico’, una riconversione al marxismo. Figli della Rivoluzione Industriale liberismo e marxismo sono in realtà facce della stessa medaglia: l’industrialismo appunto, che è il vero nocciolo della questione e che nessuno mette in discussione. Sono entrambi modernisti, illuministi, ottimisti, economicisti, produttivisti, hanno entrambi il mito del lavoro (che per Marx è ‘l’essenza del valore’ – non per nulla Stakanov è un eroe dell’Unione Sovietica – e per i liberisti quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso ‘plusvalore’), tutti e due pensano che industria e tecnologia produrranno una tal cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o, più realisticamente, la maggior parte di essi (i liberisti). Questa utopia bifronte ha fallito. Perché ha alle sue radici gli stessi ‘idola’: industrialismo, produzione, consumo, crescita, sviluppo.

I firmatari dell’Appello stanno quindi totalmente dentro il ‘pensiero unico’ che è quello di chi ritiene, a destra come a sinistra, che lo Sviluppo, in un modo o nell’altro, sia irrinunciabile. Chi ne sta fuori sono coloro che ritengono che invece di crescere sia necessario decrescere (produrre di meno, consumare di meno) sia pur in modo graduale, limitato e ragionato per ritrovare non solo una stabilità economica, che non ci renda schiavi della dittatura anonima dei ‘mercati’, ma una vita più semplice e più umana, senza stress, depressione, nevrosi, anomia, tumori psicosomatici, cardiopatie che, com’è noto, sono tutte malattie della Modernità. Sono quindi gli Antimodernisti i veri antagonisti del ‘pensiero unico’ ed è ai loro danni che si consuma un ‘furto di informazione’ perché sono costantemente ignorati, altro che i signori Gallino, Lunghini, Tronti, Asor Rosa e persino Guido Viale promosso a economista.

(di Massimo Fini)

Il Franco tiratore


Da guerrigliero. Impugnando ogni sorta di arma. E la penna può ben essere una spada. Che, colpendo, non lascia dietro di sé scie di sangue, ma fa a fette il conformismo e dissemina idee. Ecco: questo è il caso di Franco Cardini, fiorentino, docente di Storia Medioevale, saggista, polemista, narratore, guerriero «civile». Undici anni fa, Nino Aragno pubblicò una sua autobiografia con un titolo che era una bell'insegna identitaria: «L'intellettuale disorganico». Ora Il Cerchio fa quello che tanti da tempo auspicavano, proponendoci una ricca bibliografia di tutti gli scritti di Cardini, apparsi da quando era un ardimentoso liceale ai nostri giorni. Saggi, romanzi, articoli, introduzioni, prefazioni, postfazioni, traduzioni ecc.: centinaia di «voci». E anche qui un titolo che colpisce per la sua immediata forza suggestiva: «Il Franco Tiratore» (a cura di Antonio Musarra, postfazione di Franco Cardini, pp. 438, euro 40). Mai gioco di parole fu più azzeccato: ci sono dentro il nome del personaggio, il suo stile, la sua testimonianza. E c'è, nella sua pienezza, il senso dell'aggettivo «franco». Nessun eccesso di ammirazione amicale, infatti, da parte nostra, se diciamo che Cardini è «Franco» di nome e di fatto. Chi lo conosce, infatti, ne ha sempre ammirato la schiettezza e la generosità. Ma siccome, se legge quest'articolo, non vorremmo che pensasse che gli stiamo confezionando un santino, ecco, torniamo alla Bibliografia. 

Non stiamo qui ad esplicitare i criteri che ne hanno guidato l'elaborazione e non mettiamoci a far le pulci al bravissimo Musarra per questa o quella dimenticanza: quando si ha a che fare con tanto materiale, quando si debbono recuperare e inventariare un migliaio di scritti pubblicati in più di cinquant'anni, è evidente che qualche cosa può sfuggire (e il probo e consapevole curatore si augura gli vengano segnalati errori, sviste e lacune). In ogni caso, immergendoci negli elenchi, anno dopo anno, il Franco Tiratore lo si ritrova tutto. A partire dal 1957, quando, sedicenne, comincia a pubblicare i suoi articoli sulla «Balestra», mensile del Ginnasio Machiavelli. Alla «Balestra» tiene dietro «La Martinella», combattivo foglio della sezione fiorentina della Giovane Italia, organizzazione fiancheggiatrice del MSI. Segue la collaborazione al «Secolo d'Italia». Già: Cardini «il fascista». Una delle tante etichette che gli sono state appiccicate addosso (c'è anche chi lo ha definito «comunista» e «integralista islamico»), e che magari lui, a seconda dell'umore o del malumore del momento, provocatoriamente rivendica. 

In realtà, il Nostro, figlio del dopoguerra e partecipe con la testa e con il cuore, del Novecento «incendiario» e delle sue brucianti battaglie ideologiche, si è sempre sforzato di capire che cosa era successo, che cosa succedeva e perché. I contraddittori «perché» esplorati sempre con spirito libertario, in opposizione a tutte le «vulgate», al «pensiero unico», al «politicamente corretto». Disorganico, Cardini, franco tiratore, ribelle e scomodo. Irriverente e irritante. Punti fermi? Un cattolicesimo saldo, ma non da bigotto: per Cardini, «attenzione», «pietas» e «accoglienza» non sono parole, ma convinzioni ferme. E poi? E poi è davvero un reazionario, nel senso che reagisce a tutte le mistificazioni, le semplificazioni, le sommarie banalità, vengano esse da Destra o da Sinistra. Certo, è un vero Uomo d'Ordine. Uno che crede nei valori della Tradizione, nell'Impero, nello Stato, nella Comunità, nell'Europa. Uno che guarda all'Ebraismo e all'Islam come religioni sorelle del Cristianesimo, e lo dice, molto spesso rischiando l'incomprensione. Uno «smoderato» per cui il radicamento nella Terra dei Padri è sempre andato di pari passo con la vocazione alla giustizia sociale. Uno che non ha mai sventolato la bandiera dell'Occidente a stelle e strisce e che dopo l'11 settembre ha esternato dubbi e ipotesi sulle versioni ufficiali dell'attentato, beccandosi l'accusa di essere un nazi-islamico, «compagno di strada» degli estremisti di sinistra. Uno che dispiace e continuerà a dispiacere a chi non lo vuol conoscere perché alla libertà non ci crede. Noi, invece, ci crediamo. E quindi Cardini ci piace.

(di Mario Bernardi Guardi)

martedì 7 agosto 2012

Eco, cattivo maestro dai testi di piombo


L'Eco di quarant'anni fa torna a bussare in libreria. Lo ristampa Bompiani e viene riproposto col suo titolo anodino, Il costume di casa, e un sottotitolo allusivo: «Evidenze e misteri dell'ideologia italiana negli anni Sessanta» (pagg. 484, euro 10,90). Il libro è assai istruttivo, coincide con un'epoca cruciale che culmina nel '68 e poi si intristisce nei cupi anni seguenti. È un libro coevo, per capire il clima, alla firma di Umberto Eco apposta al manifesto di Lotta Continua contro il commissario Calabresi, poco dopo ucciso su mandato dei medesimi lottacontinuai.

Pagine interessanti, non c'è dubbio, a tratti acute, da cui traggo quattro o cinque spunti utili per capire il presente. Parto da quel tempo. Negli anni Sessanta c'era in Italia una vera borghesia, dignitosa e ipocrita, come è poi la borghesia, che aveva senso del decoro e della morale, un discreto amor patrio, un reverenziale rispetto per le tradizioni culturali e religiose, anche se talvolta fariseo o filisteo. Le sue basi erano i costumi di vita ereditati, la buona educazione e le lezioni impartite dalla scuola del tempo. Eco demolisce quei santuari a uno a uno: il senso della tradizione e dei buoni costumi, il senso religioso e il legame con la morale comune, la meritocrazia e «l'illusione della verità». Auspica una «guerriglia semiologica» (in quegli anni erano parole di piombo), nega il rispetto del latino - «L'ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando» - distrugge i buoni sentimenti e il suo alone retorico che promanavano dal libro Cuore, libro di formazione di più generazioni che servì a edificare un sentire comune dell'Italia postunitaria e che per Eco è invece «turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, paternalistica e sadicamente umbertina»; elogia Franti il cattivo e vede in lui il modello positivo dei contestatori, anzi di più, lo vede come ispiratore di Gaetano Bresci, l'anarchico che uccise all'alba del '900 Re Umberto a Monza.

Capite che benzina Umberto Eco abbia gettato sul fuoco di quegli anni feroci. Il cattivo maestro Eco poi contesta il filosofo Abbagnano che elogia la selezione e il merito, sostenendo che la selezione sia solo una legge di natura da correggere con la cultura e la solidarietà e auspica «che non ci sia più una società dove predomina la competitività». Declassa la religione a fiaba e suggerisce non di avversarla come facevano gli atei dichiarati ma più subdolamente di relativizzarla presentandola come fiaba tra le fiabe. Giudica impossibile un Picasso che dipinga l'Alcazar fascista come dipinse Guernica antifascista; dimenticando il filone futurista e fior d'artisti fascisti (a proposito dell'uso politicamente ambiguo della pittura, cito l'esempio di Renato Guttuso che riprodusse un suo manifesto fascista antiamericano degli anni Quaranta in un manifesto comunista antiamericano degli anni Sessanta in tema di Vietnam. Riciclaggio ideologico).

Umberto Eco poi si allarma, come Pasolini e altri, perché cresceva agli inizi degli anni Settanta la cultura di destra in Italia, con nuovi autori ed editori (Il Borghese, Volpe, la Rusconi diretta da Cattabiani). E le dedica uno sprezzante articolo, confondendo volutamente pensatori e picchiatori, «magistrati retrivi» (allora le toghe erano considerate protofasciste) e riviste culturali. Particolare l'acredine verso il suo concittadino alessandrino Armando Plebe, all'epoca approdato a destra ma di cui Eco nega perfino la provenienza marxista (Plebe fu invece l'unico filosofo italiano vivente a essere citato come marxista nell'Enciclopedia sovietica). Eco disprezza autori come Guareschi e Prezzolini, Evola e Zolla, Panfilo Gentile e «il risibile pensiero reazionario». E fa una notazione volgare: «la nuova destra rinasce soltanto perché un certo capitale editoriale sta offrendo occasioni contrattuali convenienti a studiosi e scrittori, alcuni dei quali rimanevano isolati per vocazione, e altri non sono che arrampicatori frustrati». Un'analisi così rozza e faziosa non l'abbiamo letta neanche nei volantini delle Brigate rosse. Fa torto al suo acume. È come se spiegassimo la cultura di sinistra con i soldi venuti dall'Urss o le firme de l'Espresso-La Repubblica con i soldi di Carlo De Benedetti... Sarebbe volgare, falso o almeno riduttivo.

Eco avverte i suoi lettori che «il capitalismo come entità metafisica e metastorica non esiste». Al fascismo, invece, Eco attribuisce entità metafisica e metastorica elevandolo a Urfascismo: il fascismo come eterna dannazione. Sul rapporto tra cultura e capitalismo la considerazione becera fatta sugli autori di destra si inverte quando invece si tratta di un autore «di sinistra»: anche se «ha un rapporto economico con i mezzi di produzione» lui non ne dipende, perché conta «il rapporto critico dialettico in cui egli si pone con il sistema». Traduco: se la cultura di destra trova investitori è asservita al Capitale e lo fa mossa solo dai soldi; se la cultura di sinistra è finanziata dal Capitale, invece usa gli investitori ma non si fa usare e ha scopi nobili... Può vivere «di prebende largite da chi detiene i mezzi di produzione» perché quel che conta è «la presa di coscienza» (io direi ben altra presa...). Loro prezzolati, noi illuminati.

Il testo è utile perché rivela la matrice di Eco: prima che semiologo è ideologo. Mascherato. Traspare quell'ideologia illuminista radical che traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il Nemico dai padroni ai fascisti, dal Capitale ai reazionari, in cui Eco include cristiano-borghesi e maggioranze silenziose. L'antifascismo assurge a religione civile, a priori assoluto nella lotta tra Liberazione e Tradizione, che sostituisce la lotta di classe.

Questo testo mostra le origini colte della barbarie odierna e della relativa intolleranza. Se viviamo in un'epoca che rigetta la cultura classica, l'amor patrio, le buone maniere, le buone letture, la meritocrazia, la scuola selettiva, forse non è frutto semplicemente del berlusconismo... Infine il testo di Eco dimostra che la destra è demonizzata anche quando non si riduce al rozzo cliché dei picchiatori o dei prepotenti o, mutatis mutandis, dei leghisti o dei berluscones. Ma si accanisce sprezzante anche sulla destra colta, i suoi libri, i suoi editori, scrittori e filosofi, oggi da cancellare ieri da eliminare; come accadde a Giovanni Gentile, prototipo dell'intellettuale out. Un assassinio pensato in seno alla cultura e nutrito col fiele dell'ideologia. Il passato, a volte, echeggia.

(di Marcello Veneziani)

domenica 5 agosto 2012

I 10 paradossi dell'Eurozona nella calda estate della finanza


La crisi dei debiti sovrani unita a un sistema finanziario internazionale ampiamente deregolamentato è una miscela esplosiva per la serenità dei mercati finanziari, mai come in questo momento simili a delle giostre, con violenti e quotidiani saliscendi. Resta il fatto che questi incresciosi movimenti di capitali da un asset all'altro stanno facendo allo stesso tempo fiorire dei paradossi. Ecco, in questa selezione, una raccolta dei 10 più eclatanti.

1) L'euro crollerà? E allora perché il Bund sprizza salute?
In molti hanno profetizzato seri rischi per la moneta unica europea negli ultimi tempi. A luglio, per citarne uno, il presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde ha indicato che l'euro ha tre mesi di vita, in assenza di riforme sostenziali (così si è espresso anche il finanziere ungherese George Soros). Allora, se l'euro è davvero così messo male pare un controsenso rifugiarsi sul Bund tedesco (che infatti è intorno ai minimi storici) considerando che la Germania sarebbe pienamente invischiata in un'eventuale debacle dell'euro: alcuni studi indicano che con la rivalutazione del marco che ne conseguirebbe l'economia tedesca andrebbe immediatamente in profonda recessione con Pil in caduta di oltre cinque punti percentuali.

2) Spread su, Borse giù ma l'euro tiene
Se l'Eurozona è in crisi come mai la valuta che ne rappresenta l'area, pur avendo perso da inizio anno circa il 7% nei confronti del dollaro, tiene tutto sommato in questa fase di turbolenza finanziaria? Va certamente meglio di Borse (Piazza Affari è a -17% da marzo) e spread (che dai minimi di aprile sotto quota 300 viaggia ormai stabilmente sopra 450 punti).

3) Davvero In 15 mesi è cambiata la storia dell'Italia?
Ad aprile 2011 lo spread tra BTp e Bund era era di poco superiore a quota 100. Oggi, come visto è sopra 450 con frequenti escursioni oltre quota 500. Eppure nel frattempo, tra manovre lacrime e sangue, il governo Monti ha sinora applicato un mix di austerity da 65 miliardi di euro. È possibile che in appena poco più di un anno, e nonostante l'approvazione di riforme strutturali, il quadro dell'Italia sia così peggiorato rispetto a 15 mesi fa

4) L'Irlanda (salvata) sottrae imprese alla concorrenza

Come spiegare anche la gestione del salvataggio dell'Irlanda? Al pari di Portogallo e Grecia l'Irlanda ha ricevuto gli aiuti da parte della cosiddetta troika (Ue-Bce-Fmi): ovvero prestiti a tassi agevolati per oltre 70 miliardi di euro. Ma l'Irlanda ha ricevuto un altro straordinario aiuto: quello di poter applicare un'aliquota fiscale del 12,5% alle imprese. Un vantaggio non da poco che spinge naturalmente molte aziende dell'Eurozona a spostare la sede a Dublino penalizzando in questo modo gli altri Stati dell'area euro che non possono permettersi queste aliquote da semi-paradiso fiscale. Che Unione è quella che consente a uno dei Paesi di sfavorire gli alleati attraverso l'applicazione di una fiscalità di favore a uno dei suoi membri?

5) La Bce è l'unica tra le big che non può stampare moneta
Le Banche centrali di Giappone, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti hanno in comune la facoltà di poter stampare moneta ponendosi difatti come prestatori di ultima istanza. La Banca centrale europea non può farlo. Questa mancanza di potere, che spesso agisce come formidabile deterrente contro attacchi speculativi, è considerata da molti economisti il primo problema da risolvere per risolvere una volta per tutte la crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona.

6) Euribor
Se è vero che l'Euribor è il tasso a cui una media di 43 banche, prevalentemente dell'area euro, si prestano denaro fra loro, non si capisce perché sia così basso in una fase, come quella attuale, caratterizzata da una crisi generalizzata del mercato interbancario e dalla scarsa fiducia tra i vari istituti che preferiscono rivolgersi direttamente presso lo sportello della Bce per chiedere soldi. Certo, sull'Euribor così come per il britannico Libor, incombono pesanti accuse di manipolazione. Resta il fatto che, al di là di quelli che saranno gli accertamenti della giustizia, un Euribor così basso (3 mesi allo 0,38% e un 1 mese allo 0,15%) non si è mai visto nella storia dell'euro.

7) Stati Uniti e Inghilterra hanno un deficit/Pil simile alla Grecia
Il rendimento dei Tresaury statunitensi e dei Gilt britannici è in linea con quello del Bund tedesco: ovvero i mercati attribuiscono a Inghilterra e Stati Uniti un alto livello di affidabilità. È paradossale però se si guarda al fortissimo indebitamento dei Paesi anglosassoni (comprendendo debito pubblico, di imprese e famiglie) e al deficit/Pil che viaggia intorno al 10%, lo stello livello della Grecia.

8) Le banche italiane valgono meno di McDonald's
Un altro paradosso di questa crisi finanziaria è che le banche italiane valgono in Borsa poco più di 50 miliardi di euro, un valore inferiore alla quotazione della sola McDonald's (74 miliardi) e di altre 84 aziende al mondo. La Apple, ad esempio, vale circa otto volte il sistema bancario italiano.

9) Indici di Borsa oscillano ormai come titoli derivati
Nelle ultime settimane gli indici di Borsa, in particolare quelli di Milano e Madrid, hanno subito violentissime oscillazioni al ribasso e al rialzo, con scostamenti anche superiori al 6%. Se in passato questi movimenti erano più rarefatti, adesso stanno diventando all'ordine del giorno. Avvicinando paradossalmente la volatilità di questi indici - e dei titoli a larga capitalizzazione che li compongono, molti dei quali nei portafogli di piccoli risparmiatori - a quella che si vede abitualmente nel mercato dei derivati (warrant, opzioni, ecc.).

10) Derivati ben oltre i livelli della crisi subprime
C'è chi ama ricordare che l'attuale crisi dei debiti sovrani è un'onda lunga della crisi dei derivati sui mutui subprime propagata nel mondo dagli Stati Uniti dall'estate del 2007. Da allora, secondo le indicazioni della Banca dei regolamenti internazionali, il mercato dei titoli derivati anziché diminuire, si è rafforzato. Tanto che oggi questi contratti valgono nove volte il Pil del pianeta. E questo, per dirla tutta, è il paradosso dei paradossi.

sabato 4 agosto 2012

Il fuoco freddo dell'inferno


«Inferno» è ormai una parola un po’ desueta, anche nel linguaggio religioso: abbiamo pensato di soffiar via la cenere che si era depositata su questo argomento incandescente (l’immagine del fuoco, come vedremo, è capitale) e di riproporne qualche aspetto. L’inferno è stato un po’ ostracizzato per ragioni diverse. C’è chi lo considera il reperto di un paleolitico spirituale ormai ammuffito e, al massimo, col filosofo francese Jean-Paul Sartre (1905-1980), proclama che «l’inferno sono gli altri», ossia il prossimo crudele o noioso. C’è invece chi afferma in modo perentorio, citando il poema edito postumo (1886) La fine di Satana di Victor Hugo (1802-1885), che «l’inferno sta tutto intero in questa parola: solitudine», la quale è il campo da gioco di Satana. C’è pure la ben fondata convinzione del filosofo ottocentesco americano William James (1842-1910), secondo il quale «l’inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che noi creiamo a noi stessi in questo mondo». Ed effettivamente, come con la grazia divina accolta e vissuta in noi già si sperimenta il paradiso della salvezza, così chi pecca e odia già è insediato in uno di quei gironi simbolici che mirabilmente Dante ha tratteggiato e popolato nei canti del suo Inferno.

Dopo tutto, già san Giovanni metteva in bocca a Gesù queste parole: «Chi non crede è già stato condannato» (Gv 3,18). Che l’inferno, poi, sia vuoto lo si è ripetuto sbrigativamente sulla base di una riflessione ben più ponderata e articolata del famoso teologo Hans Urs von Balthasar (1905-1988): si dev’essere invece consapevoli che, se è vero che immensa è la misericordia di Dio, superiore non solo al nostro peccato, ma alla stessa sua giustizia, come già insegnava anche l’Antico Testamento (cf Es 20,5-9; 34,6-7), è altrettanto vero che esiste la libertà umana, presa sul serio da Dio che la rispetta fino alle sue estreme conseguenze, anche quella del rifiuto radicale e totale del bene e dell’amore. Scriveva giustamente la romanziera tedesca Luise Rinser (1911-2002): «Ecco la mia idea precisa dell’inferno: uno se ne sta lì seduto, completamente abbandonato da Dio, e sente che ormai non può più amare, mai più, e che mai più incontrerà un uomo per tutta l’eternità».

Ebbene, se stiamo alla Bibbia, sappiamo che è centrale un simbolo per rappresentare l’inferno: il fuoco. Anche l’immagine spaziale della Geenna, che in ebraico significava "valle dei figli di Hinnon", attirava con sé l’idea di un incendio, perché era il luogo ove avveniva la combustione dei rifiuti di Gerusalemme e ove si consumavano culti pagani proibiti, nei quali si bruciavano persino figli, immolandoli per placare la divinità (sono le «alture di Tofet» a cui fa cenno Ger 7,30-33). La trasformazione della Geenna e del fuoco in un simbolo infernale è, però, un risultato tipicamente cristiano, legato alle parole di Gesù (il profeta Gioele, al massimo, ricorre a un luogo vicino alla Geenna, la valle di Giosafat, per collocarvi la sede del giudizio divino finale sulla storia: cf Gl 4,2.12-14). Ecco solo un paio di esempi. «Se la tua mano [poi: il piede e l’occhio, ndr] ti è di scandalo, tagliala! È meglio per te entrare monco nella vita, che andare con tutte e due le mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile» (Mc 9,43-48). Nel giudizio finale agli empi è riservata questa minaccia di Cristo: «Andate via da me, o maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi seguaci» (Mt 25,41). L’immagine passerà anche in san Paolo, che destina a «essere bruciata» l’opera malvagia dell’apostolo, perché «la svelerà quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco saggerà quale sia l’opera di ciascuno» (1Cor 3,13-15).

San Giacomo, nella sua lettera, intravede nel peccato di lingua il bagliore delle fiamme infernali: «Anche la lingua è un fuoco! […] essa brucia la ruota della nostra vita ed è poi bruciata essa stessa nell’inferno» (Gc 3,5-6). L’Apocalisse allargherà l’immagine trasformando gli inferi in uno «stagno di fuoco e zolfo», ove sono relegati la Bestia satanica, i falsi profeti, la morte, gli inferi, i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali, i fattucchieri, gli idolatri e tutti i menzogneri (cf Ap 20,10.14; 21,8). Ora, il fuoco di per sé è nella Bibbia un simbolo divino, come la stessa scenografia delle teofanie attesta (si pensi al roveto ardente del Sinai). Cristo dichiara: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Il fuoco è, inoltre, il simbolo dello Spirito Santo, come si ha nella scena ben nota della Pentecoste. Ora, è proprio il fuoco divino a rivestire anche un’altra funzione, rivelando un diverso volto di Dio che è, sì, il Salvatore, ma è al tempo stesso il Giudice, non indifferente alle esigenze della morale. Il fuoco è quindi l’amore di Dio, ma è altresì la sua giustizia.

Ecco, allora, il vero significato del fuoco  dell’inferno: è un modo espressivo e incisivo per mettere in scena il giudizio divino sul male. Il Signore non è il "buon Dio" di una certa morale accomodante; egli è il fuoco e, perciò, non può essere manipolato come a noi più piace, non è riconducibile alle nostre manovre e ai nostri diversivi. Egli è, certo, fuoco di amore e di passione profonda, egli riscalda i cuori e scioglie il gelo delle anime infelici. Ma è anche il fuoco che scotta chi tenta di afferrarlo o spegnerlo. La Geenna con il suo ardente focolare è, quindi, il simbolo dell’agire giusto di un Dio libero e ben deciso a ingaggiare con il male la sua lotta vittoriosa. In questo senso aveva ragione lo scrittore cattolico francese Georges Bernanos (1888-1948) quando, nel suo romanzo Monsieur Ouine (1946), non esitava a dichiarare: «Si parla sempre del fuoco dell’inferno, mentre l’inferno è freddo», proprio perché è la mancanza del fuoco benefico dell’amore. Si riesce, così, a comprendere, come spesso si è spiegato, che l’inferno, anche se nella Bibbia e nella tradizione è stato collocato in un luogo, è piuttosto uno stato, una realtà in cui viene a trovarsi la persona peccatrice.

Certo, come si è visto, l’Antico Testamento inizialmente vedeva l’oltretomba come un orizzonte indistinto (lo sheol), dove tutti piombavano dopo la morte. Il libro della Sapienza aveva cominciato a ridurlo a sede dei malvagi, facendone così una dimora infernale, mentre i giusti entravano nella comunione divina, nello zenit celeste, rispetto a quell’oscuro nadir di tenebra e di silenzio.

A questo punto possiamo comprendere quanto sia decisiva e necessaria la categoria di "inferno" espressa attraverso il simbolismo igneo come componente della vicenda umana nella sua libertà di scelta per il bene o per il male, e quanto lo sia anche per lo stesso concetto di Dio, Signore buono e giusto, pronto a tutelare la morale, a sanzionare il male e a premiare il bene. E proprio perché è sganciato dalla materialità spaziale, l’inferno penetra già ora, attraverso la morte, nella storia personale e universale, così come vi si insedia il paradiso. Aveva allora ragione - anche se il suo linguaggio non era del tutto teologicamente calibrato e la sua finalità non era strettamente religiosa - Italo Calvino (1923-1985) quando, nel romanzo Le città invisibili(1972), scriveva: «L’inferno dei viventi è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo è facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio».

(di Gianfranco Ravasi)

venerdì 3 agosto 2012

Massimo Fini: l'Europa autarchica contro gli effetti della globalizzazione


Lei è lombardo di nascita, figlio di padre toscano e madre ebrea russa. In che misura le sue origini familiari, in particolare materne, hanno pesato sulla sua formazione di uomo e di intellettuale?

Essendo figlio di due culture diverse, vedo le cose da un’angolazione diversa da quella, per esempio, di un Italiano figlio di Italiani che è sempre vissuto in Italia. Insomma, questa mia origine “bastarda” mi ha reso in qualche modo diverso dagli altri.

Che traccia hanno lasciato su di Lei gli studi di giurisprudenza e per quale motivo decise di abbracciare il mestiere di giornalista anziché intraprendere una professione di carattere giuridico o amministrativo? E secondo Lei, quale deve essere il ruolo dell'informazione all'interno della Nazione?


Ho frequentato la Facoltà di Giurisprudenza, ma senza grandi intenzioni di fare il magistrato nè tanto meno l'avvocato. E' però vero che dopo aver fatto vari mestieri, mi recai a Roma per sostenere il concorso in magistratura. Ebbi modo di constatare che questo concorso, per l’appunto, era truccato e allora denunciai la cosa a diversi quotidiani. Nessuno mi diede retta, con l’eccezione del quotidiano L’Avanti ; mi chiesero di provare a scrivere un pezzo sull’argomento e così feci. L’articolo piacque e da lì nacque questo rapporto con L'Avanti. Ebbi molta fortuna perché da li a pochi mesi fui assunto dal giornale e dopo un anno e mezzo passai all'Europeo. Quindi è casuale che sia diventato giornalista. Il ruolo dell'informazione in linea di massima è in primo luogo quello di raccontare i fatti. In secondo luogo, a un livello più alto l’informazione deve, o meglio  dovrebbe, fare cultura e cercare di interpretare ciò che avviene, approfondendo gli argomenti. Non mi pare che sia quello che l'informazione italiana faccia da molti anni: essa si schiera con le varie fazioni politiche e il risultato è quello che vediamo.

Cosa ha contribuito maggiormente a trasformare il giornalista progressista  e filo-socialista degli anni '70 nell'autore di "La ragione aveva torto" e degli altri testi che demoliscono i miti dell'industrializzazione, della modernità, del progresso, della democrazia?

Per la verità, questa mia consapevolezza prese le mosse da un viaggio che feci in Africa intorno ai primi anni ‘70. Affittai un’automobile  e andai in Tanzania ai confini con il Kenia. Constatai che i Masai vivevano in maniera molto primitiva: potrei raccontarle varie cose ma da buon illuminista rimasi abbastanza scandalizzato.

Nella Sua produzione libraria ci sono due testi molto interessanti su due "marginali", due sconfitti della storia romana, Catilina e Nerone, che Lei rivaluta come campioni delle istanze popolari. Qual è il suo giudizio complessivo sulla civiltà romana, sul suo retaggio e in quale misura avrebbe potuto essere migliore se i due personaggi oggetto dei suoi studi fossero riusciti vittoriosi?

La società romana già al tempo di Catilina è molto simile alla nostra: profondamente materialista e  afflitta da quella doppia morale molto ben espressa da Cicerone. Esisteva, allora come oggi, una morale pubblica per i “gonzi” che ci vogliono credere e una morale privata per i privilegiati. Catilina si ribellerà a questo stato di cose e per questo verrà ucciso. Per quanto riguarda Nerone, egli sperimentò un tentativo molto in anticipo per i suoi tempi di limitare le incredibili sperequazioni economiche e sociali che c'erano all'interno del mondo romano. All’epoca esistevano un’aristocrazia senatoriale latifondista nullafacente e una plebe “frumentaria” che viveva di elargizioni da parte dello Stato. Non credo che Roma avrebbe potuto prendere una direzione diversa da quella che poi la Storia ci racconta: infatti i tentativi fatti da Catilina, Marco Antonio e Nerone stesso per rovesciare quello stato di cose fallirono.

Il potere degli Stati Uniti d'America, che Lei ha giustamente individuato quale braccio armato e principale motore ideologico-politico della globalizzazione, sta per morire divorato dallo stesso mostro alla cui ascesa ha contribuito? Il futuro vedrà un mondo multipolare fondato sulla coesistenza di potenze statali regionali (Cina, Russia, India, Brasile) o anche questi nuovi attori globali saranno soffocati dalla pervasività proteiforme del nuovo potere globale finanziario-mediatico?

Il destino anche dei cosiddetti “paesi emergenti” che sono entrati nel modello di sviluppo occidentale sarà lo stesso dell'Occidente.  Verrà un momento, che non è molto lontano, in cui questo modello di sviluppo imploderà e crollerà su se stesso.  Ciò non tanto una questione finanziaria, come si sostiene adesso, ma proprio per una questione inerente al modello di economia reale prescelto.  Quello attuale è un modello che si basa sulla crescita infinita, che esiste astrattamente nella teoria matematica ma non in natura.  Per il momento, che è abbastanza prossimo, in cui il sistema non potrà più crescere e imploderà su se stesso,  vedo un futuro simile al periodo successivo al crollo dell'Impero Romano. Quello che diede origine al feudalesimo europeo. Con la differenza sostanziale che l'Impero Romano, per quanto importante, era una piccola area all'interno del grande e vasto mondo di allora. Invece questo sistema è planetario e pertanto la catastrofe sarà planetaria, quindi di dimensioni apocalittiche.

In questo quadro, l'Italia e gli altri Stati Nazionali europei umiliati e espropriati della loro sovranità dalla Banca Centrale Europea, dalla Commissione di Bruxelles, dai "mercati finanziari" e dalle "agenzie di rating"  (leggasi speculatori internazionali), dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale hanno qualche possibilità di sopravvivenza o debbono rassegnarsi a lasciare il proscenio della Storia ad altri popoli più giovani e combattivi?


L’Europa è nata male, doveva nascere prima politicamente e solo dopo economicamente. Ma questo non era possibile perchè gli Americani non ce l'avrebbero permesso. Adesso la mia formula per l’Europa è questa: unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. In questa formula l’aggettivo più importante è autarchica: l’Europa avrebbe, volendo ragionare in questi termini, la popolazione, il mercato e il “know-how“ sufficienti per fare da sola. Naturalmente ciò comporterebbe una diminuzione dello sviluppo. Ma allo stesso tempo ci metterebbe al riparo dagli effetti più devastanti della globalizzazione. Questa è un'ipotesi possibile, nel senso che se ci fosse la volontà politica si potrebbe fare. Ma siccome continuiamo ad essere tributari degli Stati Uniti d’America, non mi sembra che in concreto sia possibile. Molto dipende dalla Germania e dal Regno Unito.  Cioè, se il Regno Unito  decide di abbandonare questo legame atavico con gli Stati Uniti d’America e si unisce all’Europa, allora si può fare un’Europa del tipo che dico io, in grado di difendersi. Dico che deve essere armata e nucleare non per aggredire nessuno, ma per non essere dipendente dalla difesa altrui che naturalmente viene pagata a caro prezzo, come abbiamo visto in questi 50 anni.

Lei ritiene che, in qualche misura, il "Movimento 5 Stelle" di Beppe Grillo possa farsi portavoce, almeno in parte, di qualcuna delle istanze cui Lei ha dato voce con i suoi libri e i suoi articoli e che ha cercato di organizzare politicamente con il "Movimento Zero"? Qual è il suo giudizio sui principali soggetti del panorama politico italiano?

Anche se molte cose mi dividono dal Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo è un mio amico personale da 30 anni. I rischi per Grillo verranno dopo, nel senso che il sistema ingloba e distrugge i suoi oppositori. Come è successo alla Lega, che alle origini era contro la partitocrazia, la globalizzazione e anche contro le lottizzazioni politiche, ma che nel giro di alcuni anni è diventata un partito come gli altri. Il rischio che corre il Movimento 5 Stelle è esattamente questo. Stiamo a vedere, per il momento è l'unico movimento che si distingue in modo netto dalla partitocrazia che abbiamo vissuto per 30 anni. Quanto alle altre forze politiche, io credo che verranno azzerate o quasi alle prossime elezioni, sia in conseguenza di un'astensione notevole sia per la crescita dello stesso movimento di Grillo. Le vecchie forze politiche, ciascuna per la propria quota, portano su di sé la responsabilità di 30 anni di malgoverno, malaffare, soprusi e abusi. Con Berlusconi c’è stata anche una devastante campagna di delegittimazione della magistratura. Forse Mani Pulite avrebbe potuto frenare ancora in tempo utile la frana che ci sta crollando addosso oggi. Ecco, quindi penso che i vecchi partiti verranno quasi azzerati, lo spero perlomeno.

Lei ritiene che l'immigrazione extraeuropea, in particolare islamica (ferma restando, da parte nostra, la più profonda repulsione per l'anti-islamismo "occidentalista" in voga in certi ambienti politici europei) possa essere una minaccia mortale per l'identità e la sopravvivenza dei popoli europei? Può l'identità etnica essere un punto fermo da cui ripartire per ricostruire un mondo migliore?

Io non credo ad una minaccia islamica, nella misura in cui noi la smettiamo di aggredire l'Islam. Se non vado errato, ci sono decine di migliaia di soldati occidentali sul suolo islamico. L’Afghanistan è l'esempio più evidente e clamoroso, poi c’è  l'Iraq, adesso la Siria, poi si vuole aggredire il Mali perché è diventato islamico e quindi si dice che è controllato da Al Qaeda. Ma Al Qaeda non esiste, è un'invenzione occidentale. Quindi noi potremmo avere anche una buona convivenza con l'islam, se col nostro radicalismo non lo radicalizzassimo a sua volta. In quanto all'identità, possiamo dire che la questione in Italia è nata con la Lega, contro l'utopia illuminista e volterriana dell'uomo cittadino del mondo. Quella dell’identità è certo una questione che si affermerà sempre più, perché l'uomo ha bisogno di radici. Bisogna vedere come questo si può conciliare eventualmente con la società multietnica. Ma è anche vero che se smettiamo di invadere e depredare gli altri paesi le migrazioni cesseranno. Non si erano mai visti neri dell’Africa Centrale venire verso l’Europa e qui non parliamo di Islam. Eppure le navi qui esistevano anche prima. L'Africa è stata trasformata in un cimitero proprio dal nostro modello di sviluppo.

Secondo Lei il mondo nato dalla Rivoluzione Francese, dal pensiero scientifico moderno e dall'industrializzazione è l'antitesi o - come avrebbe sostenuto il suo amato Nietzsche -  il completamento dell'Europa cristiana sorta sulle ceneri di quella pagana? E in questo senso, i movimenti religiosi e culturali identitari neo-pagani che affiorano in tutto il vecchio continente potrebbero essere un sintomo del ripudio dei valori che hanno caratterizzato l'Europa del XIX e del XX secolo?


Reazioni al mondo nato dalla Rivoluzione Industriale ce ne sono e si avvertono, nonostante siano ancora di nicchia e variegate al loro interno. E’ comunque certo che questo tipo di vita che facciamo è concepibile quando le cose economicamente vanno bene: comunque provoca disagio, stress, depressioni, nevrosi, e come tale viene percepito dalle persone. Però non credo che saremo noi a rovesciare il modello, ma sarà il modello a implodere da solo.

Come ha dimostrato la spietata e sincera introspezione di "Ragazzo. Storia di una vecchiaia", Lei non coltiva facili illusioni. Non pensa che oltre alla dimensione salvifico-consolatoria delle religioni rivelate, possa esistere una via magica e attiva alla conservazione e sublimazione della propria sostanza spirituale, come teorizzava un autore a Lei ben noto, Julius Evola?


Non credo a un futuro metafisico. Naturalmente questo è un dramma per tutti e secondo me le religioni sono nate per lenire l'angoscia di morte dell'uomo, che è l’unica creatura vivente che ha la lucida coscienza di avere una fine. Le illusioni sono importanti per la vita dell'essere umano, ma io credo che sempre illusioni restino.

giovedì 2 agosto 2012

Giusva e le colpe della strage: "La verità? Fa troppa paura"


Caro direttore,

la strage di Bologna è avvenuta 32 anni fa, le indagini si sono concluse 25 anni fa e la nostra condanna è datata 20 anni. Fu una condanna atipica, dove la procura prima, e le corti poi, sostennero che le prove vere erano state nascoste dai servizi segreti e quindi bisognava per forza affidarsi agli indizi. 

L'indizio principale era che le stragi in Italia le fanno per forza i fascisti, nel periodo in questione io e mia moglie eravamo i terroristi fascisti più noti, quindi... «non potevamo non sapere». La sentenza ammetteva che il quadro probatorio non era completo, e sostanzialmente rinviava a una «inchiesta bis» per individuare i tasselli mancanti. Il fatto è che i tasselli mancanti erano molti. La sentenza per la parte che riguardava noi ammetteva che nessun testimone ci aveva mai visti a Bologna, e che quindi non eravamo stati noi a portare la bomba dentro la stazione, ma sicuramente (per il ragionamento di cui dicevamo prima) facevamo parte del gruppo che tale strage aveva organizzato. Veniva rinviato alla «inchiesta bis» l'incarico di individuare gli effettivi esecutori materiali «in loco», individuare l'origine dell'esplosivo, individuare il movente, e individuare i mandanti. Come dicevo, da quella promessa di «inchiesta bis» sono passati 20 anni, e nulla è stato trovato. La cosa, comprensibilmente, crea un certo nervosismo.

Chi ama la vecchia sentenza grida alla luna che il processo non riesce ad andare avanti perché io non confesso chi sono i miei mandanti e gli altri della banda. In linea strettamente teorica potrebbe essere una ipotesi. Però poi di ipotesi se ne possono fare altre, ad esempio che l'inchiesta non riesce ad andare avanti perché sin dall'inizio marcia nella direzione sbagliata. Questa cosa iniziò a dirla pubblicamente Cossiga già nel 1998, quando con Francesca andammo a trovarlo sperando potesse darci informazioni utili per ridiscutere il nostro processo. Ci disse che fogli «firmati e bollati» non ne aveva, ma che la vera pista su Bologna era quella palestinese. Sono passati altri 14 anni, e nel silenzio di molti, alcuni storici dilettanti (nel senso positivo del termine, ossia di gente che fa le cose per passione, non per tornaconto) hanno iniziato a studiare una materia difficilissima, il terrorismo arabo in Italia. Non se ne sa niente, non esistono libri esaustivi né niente. Ma il terrorismo arabo in Italia ha fatto più di 60 morti, e più di 300 feriti. Ma non se ne parla mai, non c'è mai una commemorazione, mai un servizio rievocativo in televisione, mai una lapide da nessuna parte, mai una associazione dei parenti delle vittime. Quando il presidente Napolitano ha istituito la giornata a ricordo delle vittime del terrorismo, nell'elenco preparato dagli uffici del Quirinale non c'era nessuna di queste 60 vittime.

È su questo silenzio che, assieme ad alcuni di questi «storici dilettanti», stiamo ragionando. Silenzio sulle vittime, e sempre scarcerazioni in tempi fulminei dei vari palestinesi arrestati. Che è un po' quello che sta succedendo ancora oggi, quando l'Italia, non importa chi in quel momento sia al governo, cede sempre ai ricatti del terrorismo filo-arabo, e paga tutti i riscatti e non arresta mai nessuno. Dopo che si è scoperto che fisicamente presenti a Bologna c'erano due terroristi dell'estrema sinistra tedesca legata al terrorismo palestinese, è ovvio che le persone ragionevoli si pongano il dubbio se c'entrino qualcosa. È ovvio che se si scopre che tra le vittime di Bologna c'era un giovane dell'Autonomia Operaia romana, le persone ragionevoli si ricordano che solo pochi mesi prima, a Ortona, tre capi dell'Autonomia Operaia romana erano stati arrestati mentre trasportavano un potente missile terra aria per conto di un certo Saleh, dirigente del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina che abitava a Bologna. Viene spontaneo, alle persone semplici, domandarsi se per caso, come era successo pochi mesi prima nelle Marche, anche il 2 agosto a Bologna dei giovani romani stessero aiutando i loro amici palestinesi a trasportare un carico di armi. Se poi ci aggiungiamo che dal carcere in Francia il capo dei terroristi filopalestinesi dell'epoca, Carlos lo Sciacallo, in diverse interviste ha ammesso che la sua «Organizzazione» quel giorno era presente alla stazione di Bologna... Carlos dice che un loro trasporto è stato boicottato dagli americani o dagli israeliani per rovinare i buoni rapporti tra i terroristi palestinesi e i nostri servizi segreti (lo ha scritto diverse volte, e questa tesi è stata confermata da almeno due dirigenti palestinesi ormai in pensione, ma nessuno sembra stupirsene). Cossiga prima di morire in diverse interviste aveva parlato anche lui di un «incidente», ma lo riteneva casuale.  

Un funzionario dei servizi segreti civili italiani fu il primo, mi pare già nel 1981, a dire che si trattava di un incidente, ma venne messo a tacere, e tutto sommato fu facile parlo perché risultava iscritto alla P2. Licio Gelli, senza tutti i ragionamenti e i riscontri che invece aveva fornito Cossiga, parla anche lui da 30 anni di un «incidente», seppure in una maniera un po' grossolana. Io, storico dilettante più scarso degli altri, ancora non ho nessuna convinzione certa su ciò che è accaduto a Bologna. Mi rendo conto però che certi argomenti creano preoccupazione. Mi sembra un buon segno. Però ci vorrà ancora tempo, tanta pazienza e un pizzico di coraggio per avvicinarsi se non alla verità, almeno al contesto della verità.

(di Giuseppe Valerio Fioravanti - fonte: www.ilgiornale.it)