martedì 30 ottobre 2012

Come in Stendhal, Solinas ha visto Napoleone ma la gloria quella no


Il giornalista Stenio Solinas, classe 1951, una giovinezza nella nuova destra e oggi inviato del Giornale dopo esserne stato per anni il responsabile delle pagine culturali, ha la sua idea letteraria, ma non per questo meno concreta, di che cosa sia il fallimento di una generazione. Per spiegarcelo, deve tornare “grosso modo fino all’età che ha oggi Renzi, quando vivevo la sindrome che chiamerei ‘di Fabrizio del Dongo’. E’ il personaggio della ‘Certosa di Parma’ di Stendhal che a diciassette anni si innamora di Napoleone non più imperatore e partecipa alla battaglia di Waterloo, dove vede Bonaparte passare al galoppo. Non capisce nemmeno che cosa stia succedendo, ma basta quel momento – non di gloria ma di partecipazione a qualcosa più grande di lui – a farne un disadattato nel mondo che si prepara; continua ad agire nell’Europa della Restaurazione come se fosse nel tempo, che per l’età gli era stato precluso, delle grandi imprese e dei grandi ideali. E’ il vinto di una guerra che non ha nemmeno vissuto, e che non si accorge di essere un vinto. Io sono stato questo. Non c’era nulla dei gusti e delle preferenze di miei coetanei che mi interessasse, quando avevo vent’anni: Re nudo, i macondini, cultura psichedelica, rock… Non avevo pianto per i Kennedy o per Papa Giovanni, mi annoiavano lo strutturalismo e la narrativa ispano americana, l’impegno nel cinema mi suonava falso, la sperimentazione teatrale sembrava una punizione più che un piacere. Mi sembrava che tra le due guerre fosse già stato detto tutto, mentre l’Italia dei miei vent’anni – l’Italia ‘antifascista’, di cui non facevo parte – mi sembrava ridicola, macchiettistica.

Per esorcizzare il dramma dell’8 settembre ci siamo specializzati nella farsa, in una visione dell’Italia come paese senza ambizioni nazionali ma faticatore, un po’ Arlecchino un po’ Pulcinella. Un simpatico paese senza carattere, governato da un partito che prendeva ordini dal Vaticano e da un altro che prendeva ordini da Mosca, e dove era più importante gestirte il ministero delle Poste che quello degli Esteri. Nel fallimento della Prima Repubblica io non mi sono mai sentito coinvolto, perché riguardava un’Italia fatta dagli altri”.
Il fallimento imputato ai baby boomer riguarda quindi solo la sinistra? “Ho accarezzato l’illusione che dal ’93 ci fosse l’opportunità di rifondare un paese, e che il crollo delle ideologie potesse eliminare certi pregiudizi. E invece il disastro è stato assoluto. Mi sono trovato circondato da quei personaggi che Chateubriand nelle ‘Memorie d’oltretomba’ descrive come coloro che non hanno dimenticato nulla e non hanno imparato nulla. Il mondo degli ex esclusi, nell’ansia di recuperare, ha fattopeggio di chi ha governato nel trentennio precedente, e illumina il paradosso di una destra che, in Italia, non è mai esistita”.

Nonostante questo giudizio tombale su quanto è avvenuto negli ultimi vent’anni, Stenio Solinas ritiene “insidiosi e per forza approssimativi i discorsi sui fallimenti generazionali. Posso dire che, così come la “sindrome del Dongo’ è stata sintomatica per la generazione della mia parte politica, dall’altra parte penso sia utile rileggersi  l’‘Educazione sentimentale’. Flaubert raccontava nel 1869 una storia del 1848, ai tempi della rivoluzione borghese di Luigi Filippo. Rappresenta le frustrazioni, le stupidità, le illusioni che ruotano intorno a quella rivoluzione, dove i protagonisti (i Deslauriers, i Regimbart, i Sénécal) che credono di governare gli eventi sono semplici pupazzi. Il loro massimo rappresentante è Monsieur Homais, il farmacista velleitario e cinico di ‘Madame Bovary’, prototipo del moderno ed eterno cretino di sinistra. Deslauriers ha invece la sindrome del redattore capo, che ordina gli articoli per la gioia di tagliarli e rifiutarli. Si esalta per ogni rivoluzione ma farà il suo matrimonio d’interesse e finirà per fare il segretario di un sultano. Il fallimento è questo: chi doveva bruciare il Palazzo d’inverno, oggi ci sta seduto dentro”. Ma, per arrivare ai “rottamatori”, dice Solinas, “e al di là dei loro buoni propositi, non credo che la classe politica alla quale appartiene Matteo Renzi andrà da nessuna parte. Ci aspetta una copia del presente con un po’ di populismo in meno, un po’ di ritorno della Prima Repubblica in più, una sorta di centro che giocherà su più aggregati. La crisi che stiamo vivendo è molto più grande rispetto alle dimensioni – e alle colpe – anagrafiche.

Noi che eravamo bambini negli anni Cinquanta abbiamo vissuto la dolcezza del vivere, ma era un frutto di quel che c’era stato prima. Reggeva ancora un’idea di stato, in una logica in cui la guerra perduta era qualcosa di abbastanza recente da impedire che qualcuno potesse trasformare un’accusa politica in accusa morale, come invece succederà dopo la fine degli anni Sessanta. La letale divisione tra buoni e cattivi si è protratta e non credo che la rottamazione generazionale potrà cambiare alcunché. Il fallimento della generazione di cui si sta parlando lo vedo nell’essersi scelta questa visione dell’Italia divisa in buoni e cattivi, o comunque divisa tra Arlecchino e Pulcinella, perché terrorizzata dal fatto che prima ci fossero stati l’Uomo Nero e Capitan Fracassa. Scegliersi il servo per paura del dittatore non si è rivelato un grande affare. Il fallimento nasce da più lontano, dall’idea che dovessimo farci dimenticare come nazione. Berlusconi non è stato altro che il protagonista del ‘Sorpasso’ che arriva al potere politico. E anche Renzi, mi ricorda Calandrino, una maschera da commedia all’italiana”.

(di Nicoletta Tiliacos)

I "XXX Cantos" di Pound tirati a lucido


Solo a un eccentrico poeta yankee poteva venire in mente di mischiare gangster italoamericani e divinità greche, come fa Ezra Pound nel Canto II, dove racconta del rapimento del dio Dioniso da parte di alcuni pirati imprudenti - che faranno la fine che meritano - per stigmatizzare il proibizionismo appena entrato in vigore negli States. I Cantos, opera principale e incompiuta di Pound sono anche questo: un tentativo di mischiare storia e attualità, rendendo vivo, quindi classico, il racconto del mondo e degli uomini esemplari che lo popolano. Pound lo spiega così, in una lettera del 1937: «C'è un inizio, discesa alle ombre, metamorfosi, parallelo, il che è tutta roba per professorini di Harvard a meno che non riesca a trasformarlo in materia da leggere, materia da cantare, materia da urlare, la storia della tribù». Come tutte le storie tradotte, anche questa, ogni tanto, va adattata al nuovo linguaggio, cosa che ha appena fatto Massimo Bacigalupo con la sua traduzione della prima parte dei Cantos (XXX Cantos, Guanda, pagg. 384, euro 28,00).

Iniziata durante gli anni della Grande guerra e pubblicata nel 1930, questa prima cantica è stata partorita a Londra, elaborata a Parigi e completata a Rapallo. Instancabile studioso, il poeta inizia a costruire quello che nelle sue intenzioni sarà il poema nazionale americano scavando nelle fondamenta della civiltà europea e dedicando il primo canto a una traduzione rinascimentale del decimo libro dell'Odissea, con Ulisse che scende agli inferi, dove incontra amici e compagni dilaniati in battaglia, eco antica delle trincee moderne. Dall'Ade del primo Canto, Pound, dopo aver visitato altri luoghi simbolo della civiltà, ci accompagna in un inferno più moderno e prosaico, quello dei plutocrati che hanno scatenato orrende guerre per speculare sulle disgrazie dell'umanità, da Lloyd George a Woodrow Wilson.

Mary de Rachewiltz, figlia di Pound e unica traduttrice in italiano di tutti I Cantos (Meridiani Mondadori), sostiene che «nei Cantos c'è tutto», e probabilmente ha ragione, anche se, a volte, il lettore è sopraffatto dalle citazioni e dai riferimenti spesso oscuri. L'importante, però, è non farsi prendere dalla tentazione di voler capire tutto immediatamente. I Cantos vanno letti, riletti e letti ancora. Anche se continueranno a essere difficili, avranno regalato al paziente lettore la soddisfazione della vera poesia, che è anche, e soprattutto, divertimento, come aveva capito un eroe di Pound, quel Mussolini ricordato all'inizio del Canto XLI, che così rispose a Pound per ringraziarlo del dono di una edizione preziosa dei primi XXX Cantos: «Ma questo, disse il Duce, è divertente» afferrando il punto prima degli esteti.

(di Luca Gallesi)

Questa è una terra senza futuro. Neanche Grillo può riscattarla


"Sì, a Grillo consegniamo i galloni del fenomeno. Il suo movimento è il primo partito in Sicilia. Ma non basta. Hanno vinto i soliti. I peggiori. Adesso Crocetta potrà solo andare da Monti e chiedergli un commissario che lo affianchi per ge­stire i 20 miliardi di deficit della Regio­ne". 

Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e artista, si è appena dimesso dalla presi­denza del Teatro Stabile di Catania per impedire che il governo uscente facesse una nuova nomina clientelare.

Avevi previsto l’exploit di Grillo.

"Fin dall’inizio quando sentivo i miei amici che facevano alchimie dicevo: e Grillo? Lo prendevano sottogamba. In Si­cilia vige la mentalità della politica come ufficio di collocamento".

Eri incuriosito dal fenomeno? 

La cosa che mi faceva pensare era l’at­tesa di questo suo arrivo. Mi ricordava Scipione Cicala,l’altro genovese cantato da De André (in Sinan Capudan Pascià, ndr ) e narrato nel mio libro (Il lupo e la lu­na, Bompiani, ndr ), che toccava la Sici­lia. Ma attorno a me prevalevano cini­smo e scetticismo».

La nuotata aveva sedotto i siciliani?

"Grillo ha fatto la cosa più lontana dal­la politica. Il fatto è che lui assomiglia a questi siciliani".

In che senso?

"La Sicilia gli è servita per continuare a fare Grillo. Ma l’evento è lui stesso. È sta­to salutato e festeggiato come Berlusco­ni quando andava a Lampedusa. La Sici­lia è il luogo perfetto per tutte le bizzarie. Però la differenza tra lui e Berlusconi è che Berlusconi vinceva. Invece, alla fine Grillo ha fatto flop".

Flop?

"Purtroppo sì. M5S è il primo partito, ma il suo candidato è solo terzo. Se aves­se vinto Cancelleri, avremmo assistito a un inedito. Avrei voluto vederlo, quasi per una forma di nichilismo siciliano. In un posto senza futuro l’alieno avrebbe ri­mescolato il gioco. Qui i deputati prendo­no 17mila euro netti al mese, i grillini se ne tengono 2500. Sarebbe stato un bello spettacolo".

Essere il primo par­tito non conterà?

"La scommessa ve­ra era sulla presiden­za della Regione. Dob­biamo essere crudi: Crocetta è uno scelto dall’Udc e ha dalla sua parte tutti quelli che hanno sostenuto il presidente uscente (Raffaele Lombardo, ndr ). Che è sostanzial­mente restante".

Dunque, non cam­bierà nulla.

"Ho fatto un giro nei seggi: le schede elettorali che ho visto sono il poster del trasformismo. Micciché ha preso 40mila voti meno della sua lista. Nelle ultime notti di campagna elettorale sono arriva­ti i diktat sull’elezione del presidente".

Il fatto di essere fuori dai giochi è sta­ta la forza e la debolezza di Grillo?

"C’è un proverbio che spiega tutto: fe­cero pace i cani e i lupi. Povere pecore, sventurate capre! Una volta che hanno fatto l’accordo di ferro il Pd, gli uomini che appoggiavano l’ex presidente e ifur­bastri Fini e Casini, cosa vuoi che possa­no fare le povere pecore e le sventurate capre del M5S?".

L’antipolitica non attecchisce in Sici­lia, terra bizantina?

"Il grillismo è paragonabile alle stagio­ni del separatismo, del milazzismo e del­l’almirantismo: foruncoli nel faccione del potere. Che vengono presto riassorbi­ti ".

Che cosa doveva succedere per avvia­re un cambiamento?

"Qualcosa come a Parma. Qui i deputa­ti li comprano. Dalle ultime elezioni era uscita una maggioranza di centrodestra fortissima. Poi c’è stato il ribaltone".

La Sicilia è terra irredimibile come disse Sciascia di Palermo?

"La Sicilia è la fogna del potere. Rispet­to ai tempi di Sciascia è addirittura peg­giorata. Ci siamo messi alle spalle le stra­gi di via d’Amelio e la strage di Capaci. Ma la Sicilia non sta meglio. È aumentata l’emigrazione, i centri sono deserti, non ci sono più le imprese".

I festeggiamenti grillini sono fuor­vianti?

"I grillini sono ebbri, hanno trincato. L’alcol c’è,ma evapora presto. Voglio ve­dermelo l’ingresso a Sala d’Ercole".

Il cinismo ti ha contagiato.

"Questo risultato è una buona cosa. Ma il vero guaio è che ha vinto la Sicilia peggiore. Non fatevi illusioni solo per­ché M5S è il primo partito. Mi viene in mente l’episodio che nel ’47 ebbe per protagonista Pajetta. Quando chiamò Togliatti per dirgli che aveva conquista­to la prefettura di Milano quello gli rispo­se: “Bene, e adesso che ve ne fate?”".

sabato 27 ottobre 2012

La prima vera crociata? Fu quella di Costantino


Il 28 ottobre, che a molti ricorda solo la mussoliniana Marcia su Roma, è una data che porta con sé la memoria di un evento di ben altra portata per la storia della civiltà intera. In quel giorno dell'anno 312 dopo Cristo, Flavio Valerio Costantino riportava una clamorosa vittoria su Marco Aurelio Valerio Massenzio a Saxa Rubra, proprio dove oggi sorgono gli studi della Rai. I due contendenti lottavano per il titolo di Augusto di Occidente, una delle quattro cariche supreme, nella Tetrarchia, il nuovo sistema di governo dell'Impero, ideato da Diocleziano. Alla vigilia della battaglia, le truppe di Costantino videro stagliarsi nel cielo un grande segno luminoso, con una scritta fiammeggiante: In hoc signo vinces. Eusebio di Cesarea, il primo grande storico della Chiesa, ricorda l'evento con queste parole: «Quando il sole cominciava a declinare, Costantino vide con i propri occhi in cielo, più in alto del sole, il trofeo di una croce di luce sulla quale erano tracciate le parole IN HOC SIGNO VINCES. Fu pervaso da grande stupore e insieme a lui il suo esercito».

Costantino fece imprimere il monogramma di Cristo sui vessilli delle sue legioni, e istituì il Labarum, lo stendardo che avrebbe sostituito l'aquila romana di Giove e che tutti i soldati da allora avrebbero dovuto onorare. Nel corso della furiosa battaglia egli riuscì a spingere l'esercito rivale con le spalle al Tevere, dove Massenzio cercò scampo nella fuga, ma fu travolto dalle acque e la sua testa fu portata al vincitore. Il 29 ottobre Costantino, nuovo imperatore, entrò solennemente a Roma, alla testa delle sua truppe, dalla via Lata, l'attuale via del Corso.

Un anno dopo, il 13 giugno 313, Costantino promulgò l'Editto di Milano con cui ogni legge persecutoria emanata in passato contro i cristiani era abolita e il cristianesimo diveniva religio licita nell'Impero. Costantino è celebre per quest'editto che poneva fine all'era delle persecuzioni ed apriva un'epoca nuova di libertà per la Chiesa. E tuttavia, nella sua vita ed in quella della Chiesa, l'ora decisiva fu un'altra: quella in cui per la prima volta la Croce di Cristo apparve sul campo di battaglia, difesa dalle spade dei legionari.

Il cristianesimo insegnava che era possibile essere buoni cristiani e buoni soldati. Ma l'apparizione della Croce a Ponte Milvio significava anche qualcosa d'altro. Era Cristo stesso che chiedeva a Costantino e alle sue legioni di combattere in suo nome. La battaglia di Saxa Rubra non dimostrava soltanto la legittimità del combattimento cristiano, ma stabiliva anche il principio per cui è lecito combattere in nome di Dio, quando la causa è giusta e la guerra è dichiarata santa. Quell'evento oggi appare come la prima crociata della storia e per questo spiace a chi considera finito il tempo delle crociate, anche solo culturali e ideali.

Costantino morì il 22 maggio del 337, giorno di Pentecoste, nella sua villa di Ancira, vicino Nicomedia, dopo essere stato battezzato dal vescovo Eusebio di Nicomedia. Il suo corpo fu deposto in un sarcofago di porfido, al centro dei dodici cenotafi degli Apostoli, come a significare che il defunto imperatore era stato il tredicesimo apostolo. La Chiesa greca lo venerò come santo, quella occidentale gli riconobbe il soprannome di «grande», riservando il culto degli altari alla madre Elena, l'Imperatrice oggi sepolta all'Ara Coeli.

Un noto storico francese, laico ed ex-comunista, Paul Veyne, in un volumetto che in Francia è divenuto un best-seller, Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394) (Garzanti, 2008), ha riabilitato la «svolta costantiniana» per lungo tempo demonizzata. I cattolici progressisti hanno sempre visto in Costantino il simbolo di un nemico da abbattere. L'11 ottobre 1962, giorno della solenne inaugurazione del Concilio Vaticano II, il padre Yves Congar nel suo diario deplorava il fatto che la Chiesa non aveva mai avuto in programma «l'uscita dall'era costantiniana».

La tesi era che occorreva purificare la Chiesa, sciogliere ogni suo legame con le strutture del potere, farla «povera» ed «evangelica», in ascolto del mondo. Il comunismo si presentava allora come la voce del progresso e la Chiesa costantiniana era identificata con quella di Pio XII, che lo aveva condannato. Il leader del Pci Palmiro Togliatti, da parte sua, nel celebre discorso di Bergamo del 20 marzo 1963 con cui, per primo, teorizzava la collaborazione tra cattolici e comunisti, affermava che «la politica di Costantino e la politica di quest'età sono tramontate per sempre». I comunisti, come molti cattolici, sognavano un cristianesimo senza cristianità, con cui allearsi.

Cinquant'anni dopo l'evento conciliare, il cristianesimo «post-costantiniano» raccoglie però frutti amari. Se il cristianesimo rinuncia a trasformare il mondo, la società neopagana secolarizza il cristianesimo. Il progressismo cattolico è in crisi e il comunismo è crollato. Ma la figura di Costantino ancora giganteggia nella storia. 

(di Roberto de Mattei

mercoledì 24 ottobre 2012

Gli intellettuali sono più corrotti dei politici


“Una società in cui i politici sono corrotti può recuperare, ma una società in cui gli intellettuali e i moralisti sono più corrotti di coloro cui pretendono di far la morale non può che precipitare nel caos”. Così scrivevo nel 1986 (‘C’è un’altra questione morale: gli intellettuali in malafede’, Europeo, 2.8.1986). A più di un quarto di secolo quelle parole mi paiono sinistramente profetiche. Nel più pieno caos ci siamo, viviamo in una società senza regole, che non siano i burocratismi ottusi tipici di ogni regime (sbocconcellare un panino in strada non si può, rubare a quattro palmenti sì), senza principi, senza etica, senza dignità, senza onore e senza grandezza persino nel malaffare. Lo abbiamo visto, ‘in corpore vili’, nei recenti scandali che coinvolgono i consiglieri regionali di mezza Italia. Ciò che colpisce in questi individui, al di là dell’impudenza e delle ruberie, è la loro mediocrità di uomini. Già sono dei miracolati che, in genere, non hanno alle spalle una professione, un mestiere, che non hanno mai fatto un vero giorno di lavoro in vita loro. Se hanno raggiunto nell’amministrazione pubblica posti di rilievo e ben remunerati non è certo per le loro preclare virtù ma solo ed esclusivamente per l’infeudamento in un partito. Avrebbero potuto accontentarsi. Invece si sono venduti per una cena in un bel ristorante, per una spesa al supermercato, per trarre una ragazza che non sono capaci di conquistare in modo normale.

Questi, fatta qualche debita eccezione, sono i nostri rappresentanti, a tutti i livelli. Ma, come venticinque anni fa, resto convinto che i principali responsabili della degenerazione morale in cui è precipitato in nostro Paese, siano gli intellettuali (ma sarebbe più preciso dire i giornalisti perché dopo la morte di Pasolini di intellettuali che abbiano qualche voce in capitolo non se ne vedono più in giro) che, per opportunismo, viltà e tornaconto hanno abdicato al ruolo di ‘coscienza critica’ di una società, preferendo infeudarsi in una delle tante bande che infestano questo Paese, traendone visibilità, prestigio e quattrini. Si sono comportati esattamente come quei politici su cui oggi, a babbo morto, moraleggiano. Pronti naturalmente a rivoltar per l’ennesima volta gabbana se il vento cambierà. Finirà come con Mani Pulite. Nel 92-94 era tutto un “Tonino qua e un Tonino là” come se avessero mangiato nello stesso piatto di Antonio Di Pietro (mi ricordo un famoso editoriale di Paolo Mieli, direttore del Corriere: “ Dieci domande a Tonino”). Ma passata la buriana quella stessa stampa fu complice della classe politica nel trasformare i ladri in vittime e i magistrati, Di Pietro in testa, nei carnefici e nei veri colpevoli. Così andrà anche questa volta.

Non esiste più nella nostra struttura sociale un’elite, intellettuale, culturale e morale, quella che Giorgio Bocca, quando credeva ancora in questo Paese, chiamava ‘la società degli eccellenti’ in grado di far da filtro almeno alle sguaiataggini più sfacciate. Oggi al posto degli ‘eccellenti’ dominano gli impudenti.

(di Massimo Fini)

Noi cani sciolti siamo fuori dalla rissa per l’osso del rinnovamento


Pende sul capo dei ventenni degli anni Settanta l’accusa di fallimento politico e culturale, se non di bancarotta. Hanno avuto il potere, hanno avuto in dote i cinque talenti della parabola, e non sono riusciti a restituire nemmeno il capitale, si dice. E’ davvero così? Se è così, quali fattori hanno impedito a quella generazione di trasformare le grandi speranze in fatti?

Lo storico Marco Tarchi, sessant’anni appena compiuti e negli anni Ottanta ideologo della “nuova destra”, dice che “le sconfitte non equivalgono sempre e comunque a fallimenti. In economia, si può essere costretti a ridimensionare le proprie aspettative di fronte a una concorrenza che per capacità o dovizia di mezzi riesce a far meglio – e dunque, di fatto, si è battuti su un terreno cruciale – ma non per questo si parla di fallimento. Parola adoperata invece quando, per insipienza o per il concorso di fattori infausti, l’impresa che si guidava va a gambe levate, dilapidando capitali monetari e di fiducia. La bancarotta e la liquidazione che ne conseguono sono ben più di un semplice insuccesso. Si può usare lo stesso metro di distinzione in politica? Direi di sì. La generazione di cui stiamo parlando certamente non ha centrato tutti gli obiettivi che si prefiggeva, ma sarebbe ingeneroso ignorare i risultati conseguiti su un piano che le stava a cuore, quello dello sconvolgimento della mentalità corrente, del costume diffuso. Piaccia o non piaccia, le dobbiamo molti cambiamenti nei modelli di comportamento adottati nelle relazioni interpersonali, nella morale sessuale, nella considerazione della dimensione religiosa, nel rapporto psicologico con l’autorità nei campi più vari e specialmente nell’ambito della famiglia e della scuola, e così via. Uno degli slogan che più avevano contrassegnato quell’esperienza – il “vietato vietare” – ha fatto molta strada nella società. Così come l’idea che si possano rivendicare diritti senza farli corrispondere a doveri. Certo, l’egualitarismo non si è realizzato; ma ha attecchito l’idea che sarebbe un principio giusto. Studenti e operai non si sono uniti nella lotta e la dittatura del proletariato è rimasta lettera morta; ma molte delle parole d’ordine divulgate dalla sinistra estrema hanno conquistato un alone di legittimità prima sconosciuto. Insomma, quando Fabio Mussi accolla a sé e ai coetanei un sostanziale fallimento, dà mostra di concedere troppo all’utopia e a una visione romantica delle dinamiche politiche e sociali. Se si adottasse la sua prospettiva, quali generazioni sarebbero escluse dal marchio del fallimento? Viviamo in un paese in cui, di volta in volta, si sono denunciati e deplorati l’incompiutezza dell’unificazione, le contraddizioni del Risorgimento, l’“inutile strage” della Prima guerra mondiale, la vittoria mutilata, l’inerzia di fronte al fascismo, la Resistenza tradita, il mancato sviluppo del Mezzogiorno, il clientelismo, il familismo, la corruzione politica e amministrativa, il bipolarismo imperfetto, le mancate riforme di struttura, il dissesto idrogeologico e chi più ne ha più ne metta… Chi si può salvare, in questo cahier de doléances? Ragionare per coorti d’età non aiuta a capire a chi davvero si debbano accollare i traguardi mancati dell’Italia”.

Quei traguardi mancati, da destra e da sinistra, trovano la loro radice in una “postura”, rispetto al mondo e all’idea di futuro, che paradossalmente prescinde dalle ideologie, come se appartenesse “ontologicamente” a questa generazione?

Penso invece che bisogna distinguere nettamente, in questo caso, i due campi. Pur non essendo riuscita sinora a prendere saldamente le redini del governo, la sinistra ha disseminato di idee progressiste la società civile, riuscendo a mettere a frutto la lezione gramsciana sull’egemonia. La destra, viceversa, ha fatto sostanziosi passi indietro su questo terreno, anche se l’agglomerato creato da Berlusconi è riuscito a garantirsi un periodo piuttosto lungo di guida politica del paese. Gli stereotipi che alimentano il modo di pensare dell’italiano medio non sono più, oggi, orientati in senso tendenzialmente conservatore, come accadeva sino agli anni Sessanta. La destra, pagando il deficit di legittimità che le derivava dall’essere associata all’esperienza fascista come protagonista, come complice o come spettatrice passiva, è stata costretta sulla difensiva e non ha saputo operare una controffensiva culturale efficace. Si è accontentata di raccogliere i residui dividendi elettorali del moderatismo anticomunista democristiano, condendoli con spruzzate di retorica liberale. Quando ha avuto la possibilità di usufruire dei benefici della lottizzazione e della rendita di posizione nei circuiti comunicativi – in televisione, in radio e in altri settori in cui, stando al governo, avrebbe potuto esercitare influenza e crearsi spazi di espressione – ha mostrato tutta la sua inconsistenza. Ma, anche in questo caso, non mi sembra che il dato generazionale abbia pesato. In Forza Italia i nati negli anni Cinquanta, nel complesso, non hanno mai avuto un peso più marcato dei più anziani o di una cerchia di esponenti più giovani di loro di un decennio o più. Diverso è il caso di Alleanza nazionale, dove quello spicchio generazionale ha guidato prima la ‘svolta di Fiuggi’ e poi il partito, con risultati che sarebbe azzardato definire brillanti. Ma ad affidare a Fini e ai suoi il vecchio Msi era stato l’ultrasettantenne Almirante. Non c’era stata nessuna rottamazione, se non quella causata dalla malattia e poi dalla morte del leader storico. E non mi pare che le generazioni più giovani in An si siano distinte per indipendenza intellettuale e intraprendenza politica. Sono cresciute sotto l’ala protettiva del Capo e dei suoi colonnelli, obbedendo e seguendo con la speranza a volte corrisposta di trarne i dovuti vantaggi. Di un’ontologia generazionale non scorgo traccia alcuna”.

Tarchi aggiunge che enfatizzare l’idea di una generazione troppo nutrita (e illusa) dei miti della giovinezza come nessuna generazione in precedenza non fa andare lontano. Anche se “sotto questo profilo, la generazione dei nati negli anni Cinquanta presenta effettivamente tratti specifici. Ma non esagererei nel sottolinearne l’originalità, perché il culto della gioventù e della sua energia ha furoreggiato anche all’indomani del Primo conflitto mondiale, trovando i suoi culmini nel fascismo e nel bolscevismo. Uno dei più acuti studiosi dei due fenomeni, il politologo spagnolo Juan Linz, ha dimostrato nei suoi scritti che le classi dirigenti di quelle due famiglie politiche erano, in media, più giovani di due decenni rispetto alle élite dei partiti rivali, e ha visto nel mito della giovinezza uno dei poli di attrazione più efficaci della propaganda fascista. Quei giovani sono però stati falcidiati, a centinaia di migliaia, sui campi di battaglia di tutta Europa tra il 1939 e il 1945 e non hanno avuto tempo e modo di misurare i successi e/o i fallimenti che avrebbero potuto incontrare in un percorso di vita “normale”. I nati nel primo decennio del Dopoguerra si sono trovati in tutt’altra condizione. Sebbene abbiano dovuto attraversare la prova degli anni di piombo – che loro stessi hanno messo in atto – hanno goduto del privilegio di sognare in proprio le rivoluzioni in cui credevano e di tentare di realizzarle in prima persona. Ovviamente, su di loro è ricaduto poi l’onere degli insuccessi subiti. Per quanto mi riguarda, di rado mi è capitato di rimpiangere il destino che la data di nascita mi ha riservato, e conservo, delle tante avventure dei venti e dei trent’anni, un ricordo complessivamente positivo. L’eredità famigliare e le scelte adolescenziali mi avevano abituato a considerare la sconfitta come una prospettiva tutt’altro che disonorevole. Quel che contava era battersi e farlo con il massimo di coerenza possibile. Credo di non aver mai derogato da quei presupposti, il che mi ha aiutato a digerire le tante delusioni che l’ambiente politico e umano che mi ero scelto mi ha riservato. Tra il vinto e il fallito, ai miei occhi, è sempre esistito un ampio margine di separazione. Un abisso, sarebbe meglio dire. Certo, come e forse più di tanti miei coetanei, l’aver raggiunto la soglia dei sessant’anni ha costituito una sorta di trauma psicologico – troppo recente (questione di pochi giorni) per poter valutarne appieno l’impatto o giudicare più o meno agevole il superamento –, nel senso che mi ha insinuato la sensazione di non potermi sottrarre a una serie di bilanci. Resta il fatto che la mente e lo spirito danno chiari segnali di non volersi piegare a quell’invecchiamento a cui il fisico non può far altro che piegarsi gradualmente.

Cosa uscirà da questo conflitto, non so. Né saprei dire se si tratterà di un esito generazionale o puramente soggettivo. Per fortuna, la professione che svolgo rimanda almeno di dieci anni l’età della pensione. E il dissenso profondo che provo verso la mentalità che domina l’epoca in cui mi trovo a vivere mi aiuta a non innalzare bandiera bianca. I cani sciolti possono permettersi un certo distacco dalle diatribe generazionali così care a chi se ne serve per mantenere o conquistarsi un posto al sole”.

(di Nicoletta Tiliacos)

martedì 23 ottobre 2012

El Alamein, la battaglia che gli italiani sono fieri di aver perso


Ricordo ancora che nel 1985 Storia Illustrata usci con allegato alla copertina un dono per i lettori: un sacchettino di sabbia di El Alamein. Mi affascinò pensare a quale immensa buca era stata scavata nel deserto per portare in Italia quella sabbia. Ma ancora di più era suggestivo considerare quale culto ci fosse, dopo 43 anni, per quella battaglia, peraltro perduta. 

È un culto che sopravvive, oggi, che di anni ne sono passati 70, e i superstiti si contano forse sul caricatore di una pistola. L'importanza di quello scontro, tanto più epico perché avvenuto per giorni e giorni, nel deserto, non basta a spiegare tanta emozione.

Fino all'autunno del 1942 le forze dell'Asse sembravano avere ancora il predominio militare. Fra settembre e novembre, però, inizia la battaglia di Stalingrado, che segna la fine dell'avanzata italo-tedesca in Russia; in ottobre la battaglia di El Alamein, nel deserto egiziano, ferma l'avanzata dell'Asse verso il Canale di Suez. In novembre, con l'accerchiamento di von Paulus a Stalingrado e la ritirata di Rommel a El Alamein, quella che doveva essere una morsa per conquistare il Medio Oriente e i suoi pozzi di petrolio diventa lo spasimo di due moncherini. Ed è inutile chiedersi cosa sarebbe accaduto “se” Rommel avesse vinto: sarebbe stata una guerra diversa, ma avrebbe portato lo stesso alla vittoria finale degli Alleati, perché fu una vittoria soprattutto di mezzi. Tuttavia gli italiani non lo potevano sapere. Il Nord Africa era lo scenario di guerra che li appassionava di più, per ragioni geografiche, storiche, sentimentali. Ma quello libico-egiziano era il fronte che procurava più dolori, oltre ai più gioiosi entusiasmi. Appena iniziata la guerra, il 28 giugno 1940, il maresciallo Italo Balbo era stato abbattuto per errore dalla contraerea italiana. Il suo successore, maresciallo Rodolfo Graziani, non si era distinto per intraprendenza e il 19 gennaio 1941 Mussolini dovette chiedere aiuto a Hitler. Nei mesi successivi sbarcò sulla costa libica l'Afrikakorps del generale Erwin Rommel. L'offensiva continuò nel gennaio 1942 finché, in maggio, le truppe italo-tedesche arrivarono ad El Alamein, a circa 100 chilometri da Alessandria d'Egitto. La campagna sembrava vinta, e il successo rese più sopportabile agli italiani le loro pesanti condizioni di vita.

Figurarsi con quale passione e sgomento seguirono le sorti dello scontro finale quando, dopo mesi di inattività italo-tedesca, furono gli inglesi a prendere l'iniziativa. Il generale Harold Alexander, comandante delle truppe inglesi in Egitto e Medio Oriente, affidò l'attacco al generale Bernard Montgomery, che aveva a disposizione tre divisioni corazzate e l'equivalente di sette divisioni di fanteria. Benché per numero le truppe dell'Asse potessero contrastarle, gli inglesi disponevano di una netta superiorità aerea, di nuovi cannoni anticarro e dei nuovi carri armati Sherman. La sera del 23 ottobre '42, nel silenzio della luna piena, quasi mille pezzi di artiglieria inglese spararono contemporaneamente per circa venti minuti. Alla fine del 24 l'offensiva aveva aperto profonde sacche nello schieramento italo-tedesco, ma non era riuscita ad aprire una vera breccia. Nelle prime ore del 25, Montgomery ordinò un nuovo attacco prima dell'alba, ma dovette affrontare violenti contrattacchi, in particolare della 15ª divisione corazzata tedesca e dell'Ariete. E Rommel? Non c'era. Alla fine di settembre era stato ricoverato in ospedale in Germania e sostituito dal generale Stumme che però era morto d'infarto ventiquattr'ore dopo l'inizio della battaglia. Hitler non esitò a chiedere a Rommel di riprendere il comando, ma era già tardi. Il 27 e il 28 ottobre la 15ª e la 21ª divisioni corazzate tedesche scatenarono una violenta offensiva, invano.

A questo punto fu deciso l'attacco finale, ovvero l'operazione Supercharge. L'operazione iniziò all'una antimeridiana del 2 novembre. Tutti i carri armati italo-tedeschi superstiti attaccarono il saliente britannico su due fronti, ma vennero respinti. Il 3 iniziava la ritirata, nonostante Hitler l'avesse assolutamente proibita. «Ma la decisione», commenta Winston Churchill nella sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, «non era più nelle mani dei tedeschi». Churchill annota anche un comportamento tedesco che dopo El Alamein sarebbe diventato una prassi: «Rommel si trovava ormai in piena ritirata, ma vi erano mezzi di trasporto e carburante sufficienti soltanto per una parte delle sue truppe e i tedeschi... si arrogarono la precedenza nell'uso dei mezzi. Parecchie migliaia di uomini appartenenti alle sei divisioni italiane, furono così abbandonate nel deserto... senz'altra prospettiva che quella di essere circondati». Il campo di battaglia era disseminato surrealmente di cannoni e automezzi distrutti. L'aviazione inglese, superiore per tutta la battaglia, attaccava senza tregua e senza contrasto lunghe colonne di uomini in ritirata verso ovest. Per gli italiani era finito, ancora una volta, il sogno d'Africa. E al nemico si apriva la possibilità di invadere l'Europa dall'Italia, dalla Francia o dalla Grecia. Sarebbe toccato all'Italia. Dove, intanto, le notizie sempre più sconfortanti, invano occultate dalla propaganda, aggravavano le condizioni di vita del popolo.

Oggi chi si emoziona ancora a leggere della battaglia di el Alamein non è necessariamente nostalgico, né tantomeno fascista o folgorato da furore bellico. Alla memoria di un popolo, sconfitto in guerra, fa bene il ricordo di avere combattuto con onore, e di avere perso perché mancavano le armi, non il coraggio.

(di Giordano Bruno Guerri)

sabato 20 ottobre 2012

Da vent'anni il tumore sono Ligresti e i La Russa


Il Barone nero li ha conosciuti tutti. Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, nobile famiglia trapanese, lunga militanza nel Msi, li ha visti da vicino i fascisti con le mazze, quelli con il doppiopetto e quelli che, dopo la fine del Movimento sociale, si sono costruiti posizioni di potere, fino a finire in cella: e (come Franco Nicoli Cristiani a Milano o Franco "Batman" Fiorito a Roma), non per qualche scontro di piazza.

"Nel 1989 rilasciai un'intervista a l'Europeo in cui indicavo quelli che ritenevo essere i mali di un partito - il mio, l'Msi - che non aveva saputo rinnovarsi. C'era un tumore a Milano, nutrito dai legami tra la famiglia La Russa e i Ligresti. Il combinato disposto tra politica e affarismo: questo tumore ha provocato metastasi. La politica è diventata uno strumento di affermazione sociale per morti di fame spirituali, che vengono ricoperti di soldi, ma restano morti di fame".

Perché La Russa e Ligresti?

La decisione di far diventare Gianfranco Fini segretario, per esempio, fu presa a Taormina in un albergo di Salvatore Ligresti, presenti il senatore Antonino La Russa, suo figlio Ignazio, Giorgio Almirante e Pinuccio Tatarella. Quando poi i figli adottivi di Almirante fallirono con la concessionaria di auto Lancia a Roma, furono salvati da Ligresti, che diede loro un'agenzia della Sai. Il male affonda lì. Sono moralista? Magari sì, ma a Milano, per vent'anni, tutto un mondo è stato nelle mani della famiglia La Russa: da Michelangelo Virgillito a Raffaele Ursini, fino a Ligresti.

Lei fu vicino a un personaggio contiguo a questo mondo, Filippo Alberto Rapisarda.

A metà degli anni 80, lui era latitante a Parigi, mi chiamò in ufficio. Sostenni la sua battaglia contro le banche. Ma presi un abbaglio: era un megalomane che per certi versi ricorda Berlusconi. Mi affittò un appartamento nel suo palazzetto di via Chiaravalle (dove poi nacque il primo club di Forza Italia). Pagai l'affitto a un suo emissario, per poi scoprire che l'immobile faceva parte di un fallimento. Sto ancora pagando (per la seconda volta) dieci anni d'affitto. E lo sto pagando, visto che dopo 34 anni il fallimento si è chiuso, alla vedova di Rapisarda.

Chi frequentava il palazzetto secentesco di via Chiaravalle?

Ministri, sottosegretari. Ma anche Alberoni, Sgarbi, Micciché. E Dell'Utri, che conoscevo perché me lo aveva presentato Rapisarda che mi aveva anche raccontato che Dell'Utri aveva fatto arrivare a Berlusconi i soldi della mafia.

I La Russa quando li conobbe?

Sono arrivato a Milano nel 1966. Allora il padre Antonino era il consigliori di Virgillito. Il figlio Ignazio faceva invece il contestatore. Ma quando presentai in Consiglio comunale un'interrogazione su un immobile dell'Ospedale Maggiore stranamente finito nelle mani di Ligresti, fui affrontato, a un comitato centrale del Msi a Roma, da Antonino. Stavo parlando con Walter Pancini (oggi direttore generale di Auditel). Antonino mi disse, in siciliano: "Bella questa giacca. Sarebbe un peccato rovinarla con due buchi".

È vero che prese a schiaffi Ignazio?

Sì sì, faceva il bulletto. Fu verso la fine degli anni 80 durante una direzione provinciale del partito. Lui non m'invitava mai, anche se io ne avevo diritto visto che ero in direzione nazionale e deputato. Aveva una strategia di conquista del potere nel partito per arrivare poi alla conquista delle istituzioni. All'ennesima battuta, mi alzai e gli diedi quattro schiaffi.

E lui?

Incassò, senza dire una parola.

L'ha stupita scoprire che si comprano voti dalla 'ndrangheta in Lombardia?

No, conosco bene Milano. E avevo annusato le infiltrazioni mafiose. Nella campagna elettorale del 2011 per il Comune di Milano, ho dato una mano a Barbara Ciabò (lista Fini). Due giorni prima del voto mi disse: "Vedrai, non ce la farò perché Sara Giudice ha 3/400 voti di case popolari abitate da calabresi".

E Formigoni?

Lo conobbi quando era deputato e sculettava nel transatlantico di Montecitorio.

Oggi, dopo una strenua resistenza, dice che vuole il voto...

Sta trattando su diversi fronti. Lui è l'espressione di quella che io chiamo associazione per delinquere di stampo cattolico. A Milano si è divisa gli affari con Ligresti, Moratti e i poteri di cui l'Expo è uno dei risultati.

Che effetto le fa il Consiglio regionale imbottito di indagati?

Compio 80 anni tra un mese, eppure riesco ancora a scandalizzarmi. Quando ho appreso quello che è accaduto, non credevo alle mie orecchie. Vede, ho fatto il capogruppo in Consiglio comunale a Milano e ci davano una stanza e un'impiegata. Ho fatto il deputato a Roma e mi davano 150 mila lire per ogni giorno che stavo a Roma e un milione per i collaboratori, di cui dovevo presentare i contratti al partito.

Poi il berlusconismo ha creato danni irreparabili: modificazione antropologica della società attraverso le tv e inquinamento della politica con la dimostrazione che si può fare tutto impunemente. Ha portato nel partito frotte di impresentabili. Ma li vedete come vanno vestiti? Con questi gessati Palermo da finti gangster anni Trenta. È la politica dell'sms: soldi-mignotte-salotti tv.

Ora che succederà?

Nelle famiglie nobili di un tempo, si sposavano spesso tra consanguinei. E a un certo punto si sperava che lo stalliere mettesse incinta la marchesa o la baronessa per portare un po' di sangue nuovo. Spero che arrivi un centinaio di deputati grillini... Tutto il resto mi sembra l'acqua pestata nel mortaio. A Milano siamo solo all'inizio: ne vedremo delle belle, anche dal punto di vista giudiziario.

Va bene, allora la salutiamo...

Ma non mi avete chiesto della Daniela Santanchè!

Ah, prego, dica pure...

È un altro dei regalini di La Russa. I due hanno siglato un patto politico-mondano-commerciale. Ignazio l'ha portata a Milano, dove è diventata consigliere provinciale, e nel frattempo sovraintendeva agli "eventi" (parola insopportabile) del partito. Intanto La Russa, dopo una ripulita e un passaggio da un sarto degno di tale nome, è entrato nei salotti buoni. A Cortina, in Sardegna. Lei ama dire che viene dalla società civile, io preferisco dire dalla società incivile, viste le frequentazioni (con Briatore, per esempio) di quando era ragazza e non ancora del tutto plastificata.

Il primo da rottamare? E' proprio il Cavaliere


Non dubito che quel che sostiene Daniela Santanchè sia vero. E cioè che il Popolo delle Libertà non esiste più. Mi permetto di aggiungere che da tempo si è dissolto. Tuttavia l'ex-candidata premier contro il Pdl e il centrodestra nel 2008, dovrebbe trarre conclusioni radicali e non parziali dalla sua diagnosi. Non basta dire che la classe dirigente, essendo venuto meno il partito, si deve dimettere. Deve anche chiedere, per coerenza, che il primo passo in tal senso deve farlo proprio Silvio Berlusconi che, come capo, ispiratore, fondatore e leader (non più indiscusso) della creatura partorita sul predellino di un'automobile avrebbe il dovere di dichiarare conclusa un'esperienza politica e conseguentemente mettersi da parte. Non accadrà mai, naturalmente, tutto questo. Per il semplice motivo che è proprio Silvio Berlusconi, come la concatenazione dei fatti dimostra, che negli ultimi tre mesi ha impegnato tutte le sue energie per rottamare il Pdl senza peraltro metterci la faccia. Manda avanti gli altri, insomma, fa trapelare il suo disgusto e il suo disappunto, indirizza fedelissimi, ma soprattutto fedelissime, nel tentativo di dissodare (si fa per dire) il terreno sul quale seminare un nuovo verbo che peraltro nessuno conosce, ma non si espone in prima persona, non convoca gli organismi dirigenti, non compare in televisione per assumere davanti agli italiani una posizione netta rispetto al naufragio del Pdl. 

Nonostante il suo nascondersi, al culmine di uno sfacelo dalle dimensioni politicamente devastanti, è comunque chiarissimo il fine che il Cavaliere persegue, e che, sia pure in maniera impropria, lo aveva fatto capire pur avvolgendolo in inaccettabili allusioni o tentativi di appeasement con personaggi che nulla avevano a che fare con il partito stesso, oltre che con la plateale delegittimazione del lavoro del segretario Angelino Alfano (ricordate la sorprendente uscita sul «quid»?): liberarsi di un soggetto ingombrante con tutta la classe dirigente che lui stesso ha creato e tentare di giocare un'ultima carta sul filo dell'ambiguità, colorata di populismo e di montismo, di grillismo e di bonapartismo in sedicesimo. Non ha un progetto politico e, dunque, non ha bisogno di nessuno che lo supporti. 

Il berlusconismo, nella sua fase estrema e decadente, è l'ipostatizzazione di se stesso, cioè a dire la personificazione di un'idea astratta da lanciare come progetto di plastica ad elettori disponibili a farsi convincere che il presunto carisma dell'uomo basti a colmare il vuoto che si è prodotto nel centrodestra. Non è un'operazione banale e perciò richiede consenso. A quale serbatoio, dunque, Berlusconi l'attingerebbe se non a quello del Pdl, ormai non più «suo» in termini politici e «sentimentali»? Ecco rivelata la nuova strategia: svuotare nei limiti del possibile il partito per potersene accaparrare le risorse elettorali, in piena libertà, sciolto finalmente dai lacci e dai laccioli di una formazione politica che lui stesso si rende conto di non aver mai saputo e voluto governare, ma soltanto dominare. 

Finché i voti c'erano tutto passava in secondo piano, perfino il confusionismo tra sfera privata e pubblici doveri, poi, quando l'esaurimento di una spinta propulsiva macchinosa e anche artificiosa si è esaurita, il Cavaliere stesso ne ha preso atto e ha gettato i meccani che sorreggevano lo spettacolo negli scantinati dove solitamente vengono riposti gli ingombri televisivi una volta terminato il programma. Non so se la classe dirigente del Popolo delle Libertà, alla quale tutto si può rimproverare (e sarebbe comunque ingeneroso visto il carico che negli ultimi cinque anni si è dovuta sobbarcare) tranne la lealtà con la quale ha seguito il capo nelle sue disavventure anche personali, si rende perfettamente conto che una storia è davvero tramontata. Non credo debba farsi problemi se assumerà in piena libertà decisioni che ormai sono mature perché di fronte ad essa non c'è più il Berlusconi che ha conosciuto e seguito. C'è un uomo solo i cui disegni politici sono labili e oscuri, non coincidono più con quelli del centrodestra e, semmai dovessero concretizzarsi, tenderanno anzi a contrapporsi a esso e a quel che resterà del Pdl in particolare: paradossalmente il partito berlusconiano diventerà, per volontà del suo fondatore, l'antagonista principale del berlusconismo morente. Un'eterogenesi dei fini assolutamente inedita nel panorama politico post-novecentesco che se non ha il sapore o il colore di un sorta di Gotterdammerung vi si avvicina in maniera però grottesca e caricaturale. 

A questo punto, dunque, dovrebbe essere proprio la nomenklatura pidiellina a fare la partita riunendosi attorno al segretario Alfano, impostando una strategia comune, ripristinando regole mai applicate di democrazia interna, approntando un programma per i prossimi anni, selezionando una classe dirigente periferica e centrale di buon livello e ripartendo con un progetto politico nel quale lo spirito, le culture e le identità del centrodestra possano riconoscersi. Il ché naturalmente implica la chiarezza anche nello stringere possibili alleanze tra le quali non può davvero esservi quella con la Lega che, per i suoi fini, ha cannibalizzato il Pdl e che ora Berlusconi, vorrebbe recuperare con uno scambio a dir poco indecente: la Lombardia con il Paese, senza neppure sospettare che il Pirellone non vale la nazione. Non potrebbe esservi esempio più eloquente di questo del distacco tra l'ex-leader del centrodestra e quel che il centrodestra, nella percezione della maggior parte dei suoi elettori, dovrebbe essere.

(di Gennaro Malgieri)

venerdì 19 ottobre 2012

Casa di Montecarlo, in mano ai pm di Milano carte anche sulla moglie di Fini


Le carte che oggi Il Fatto Quotidiano pubblica impongono al presidente della Camera Gianfranco Fini di convocare immediatamente la stampa per una conferenza che potrà concludersi con due possibili esiti. Delle due l’una: o Fini spiega le relazioni di affari del cognato Giancarlo Tulliani e della moglie Elisabetta con il re delle slot machines Francesco Corallo (attualmente latitante e già noto per i suoi rapporti di affari con due parlamentari ex An, cioè Amedeo Laboccetta e Francesco Cosimi Proietti) e con James Walfenzao, prestanome e consulente di questo imprenditore italo-caraibico oppure semplicemente Gianfranco Fini deve dimettersi da presidente della Camera.

Le carte sono quelle depositate dai pm Roberto Pellicano e Mauro Clerici della procura di Milano per chiedere il 29 maggio scorso l’arresto di Francesco Corallo nell’ambito dell’inchiesta che ha portato ai domiciliari anche l’ex presidente della Banca Popolare di Milano Massimo Ponzellini. Quando i finanzieri del nucleo polizia tributaria di Milano, coordinati dal colonnello Vincenzo Tomei, sono entrati per perquisire Corallo nella sua splendida casa in piazza di Spagna nel novembre del 2011, si sono imbattuti nel passaporto della moglie del presidente della Camera Elisabetta Tulliani e nella dichiarazione firmata da Giancarlo Tulliani nella quale il cognato di Fini attesta a una banca che è lui il possessore beneficiario al 100 per cento di una società di Saint Lucia che fa attività immobiliare. Entrambi i documenti sono stati inviati da Francesco Corallo via fax a James Walfenzao, che non è solo il consulente di Corallo ma è il rappresentante formale della società (diversa da quella dei documenti sequestrati) che ha comprato la casa ereditata da An in quel di Montecarlo.

Ilfattoquotidiano.it pubblica integralmente i fax e il documento del governo di Saint Lucia nel quale si ricostruisce la storia della società ‘posseduta’ da Giancarlo Tulliani, la Jayden Holding. Il 23 dicembre del 2011, alla vigilia di Natale, i finanzieri scrivono ai pm un’informativa. Nel paragrafo intitolato in neretto ‘Rapporti di Francesco Corallo con James Walfenzao’ si legge: “Di sicuro interesse investigativo appare altresì il ruolo ricoperto da James Walfenzao, soggetto che con ogni probabilità gestisce per conto di Corallo varie realtà societarie, rapporti bancari e attività site all’estero. A titolo esemplificativo, si segnala che il 23 agosto del 2006, Corallo indica James Walfenzao quale soggetto al quale rivolgersi per ritirare, per proprio conto, un’autovettura Lamborghini modello Roadster grigio metallizzato, a Montecarlo …. Lo stesso Walfenzao – prosegue l’informativa – è destinatario da parte di Corallo, di varia documentazione relativa ai noti fratelli Elisabetta e Giancarlo Tulliani, tra cui: 1) un fax inviato l’undici aprile 2008, con allegato application form per la Bank of Saint Lucia International Limited, dal quale si rileva che Giancarlo Tulliani è il beneficiario economico della società Jayden Holding Ltd; 2) fax del 13 marzo 2008, con allegata copia del passaporto di Giancarlo Tulliani; 3) fax del 19 giugno del 2008 con allegata copia del passaporto di Elisabetta Tulliani”.

Walfenzao è il soggetto chiave della storia. Questo professionista con base a Montecarlo e ai Caraibi figura da un lato nella società che controlla una parte del gruppo delle slot machines (Bplus) di Corallo ma dall’altro è famoso per avere creato le due società, Timara Ltd e Printemps Ltd, coinvolte nell’acquisto della famigerata casa di Montecarlo. Walfenzao è anche l’uomo che scrive una mail al ministro della giustizia di Saint Lucia nella quale sembra ammettere che Giancarlo Tulliani controlla Printems e Timara. La società al centro del carteggio sequestrato a Corallo è però una terza, Limited, che non è coinvolta nell’affare immobiliare di Montecarlo. Si chiama Jayden holding ed è controllata da Giancarlo Tulliani al 100 per cento.

La Jayden Holding Ltd nasce il 15 gennaio del 2008 e muore il 27 maggio 2011, dopo lo scandalo Fini-Montecarlo, quando viene messa in liquidazione da Cathy Walfenzao (del medesimo studio monegasco probabilmente sorella di James) che ne è liquidatrice. Il 13 marzo 2008 Giancarlo Tulliani invia tramite Corallo il suo passaporto a James Walfenzao. L’11 aprile Giancarlo – sempre tramite Corallo – invia un modulo alla banca di Saint Lucia nel quale dichiara di essere il possessore beneficiario al 100 per cento della Jayden, società che si occupa di ‘affari immobiliare e di borsa’. E fin qui siamo alla prova di affari Corallo-Walfenzao- G. Tulliani.

Il 19 giugno 2008 però accade una cosa ben diversa: è la sorella Elisabetta Tulliani, moglie del presidente della camera e leader di An, che invia il suo passaporto, sempre tramite Corallo, a Walfenzao. Passa meno di un mese e l’undici luglio 2008 un’altra società, la Printemps, rappresentata da Walfenzao compra da Alleanza Nazionale a un prezzo di favore la casa di Montecarlo.

Ora Gianfranco Fini e la sua compagna devono spiegare se esiste una relazione tra quel passaporto di Elisabetta e gli affari immobiliari in quel di Saint Lucia del fratello.

mercoledì 17 ottobre 2012

Direzione Rivoluzione 2012 - Intervento di Buttafuoco

Così ammutolì Zarathustra. Nietzsche al tempo della crisi


La Tragedia della nascita. Disumano, troppo Disumano. Tramonto. La Triste Scienza. Così ammutolì Zarathustra. Necrologia della morale. Al di sotto del bene e del male. Finis Homo. Gli idoli del crepuscolo. Le lamentazioni di Dioniso. La Volontà impotente.Ho provato a rovesciare i titoli euforici delle opere di Friedrich Nietzsche e non per un gioco pirandelliano che fonda l'umorismo sul sentimento del contrario. Ho immaginato cosa potrebbe scrivere Nietzsche oggi. Un Nietzsche fedele alla promessa di Zarathustra, «tornerò di nuovo»; ma riapparso nell'epoca del nichilismo stanco in cui l'esaltazione cede il passo alla depressione, non scriverebbe sulla nascita della tragedia ma più cupamente sul dolore di venire al mondo. Non cercherebbe di andare oltre l'umano troppo umano, ma constaterebbe il trionfo del disumano. Non scriverebbe Aurora ma Tramonto, né la Gaia scienza ma la Mesta Scienza. Il suo Zarathustra non avrebbe più sermoneggiato ma sarebbe ammutolito perché la parola ha perso senso e valore. E non saluterebbe la nascita, anzi la genealogia, di una morale, ma ne studierebbe la necrologia. Non andrebbe poi al di là del bene e del male davanti allo spettacolo di una società caduta al di sotto del bene e del male. Non saluterebbe il sorgere dell'Oltre-uomo in Ecce Homo, piuttosto scriverebbe della fine dell'uomo. Non descriverebbe il grandioso crepuscolo degli idoli, piuttosto vedrebbe spuntare gli idoli e idoletti del crepuscolo. Non intonerebbe ditirambi entusiastici a Dioniso, ma geremiadi. E infine, non penserebbe di scrivere La Volontà di Potenza ma constaterebbe l'impotenza della volontà nell'eterno perdersi del mondo, più che nell'eterno ritorno.

Chi pensava che Nietzsche rappresentasse l'ultimo gradino del nichilismo nel pensiero occidentale, deve considerare ora la sua parabola ulteriore e discendente: dal nichilismo attivo nietzscheano al nichilismo passivo, dall'euforia pur tragica ed eroica di Zarathustra alla depressione cinica e dissolutiva del presente. Nietzsche reagì alla decadenza; un nuovo Nietzsche ne asseconderebbe il decorso. Alla fine, su Nietzsche ha vinto Leopardi, anzi un leopardismo pratico, impoetico. È la verità del nichilismo.
 
L'altro giorno, a Piuro, Emanuele Severino ha ricevuto il «Premio Nietzsche», e intorno al premiato e al titolare del premio si è imbastito un seminario con Sossio Giametta, decano dei nicciani, Massimo Donà, Giuseppe Girgenti, Andrea Tagliapietra, Armando Torno ed io. È il secondo seminario organizzato dal circolo culturale La Torre di Chiavenna, fra la Val Bregaglia e Sils-Maria, luogo elettivo di Nietzsche. Severino è forse oggi il filosofo italiano che ha tentato più di ogni altro di andare oltre Nietzsche, partendo dal cortocircuito del pensiero occidentale rispecchiato nel suo pensiero e nella sua vita. Ha cercato di capovolgere l'innocenza del divenire, caposaldo dell'eterno ritorno nietzscheano, nell'eternità dell'essere. E Sossio Giametta, gran traduttore di Nietzsche ha scritto, tra l'altro, un Commento allo Zarathustra (Bruno Mondadori, 2006) che sta all'opera di Nietzsche come il Commento di Miguel de Unamuno sta al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il paragone non è casuale. Zarathustra come Don Chisciotte affronta il mondo dopo la caduta del platonismo. Che nel suo caso è la caduta del cielo in terra e nel caso di don Chisciotte è la caduta del mondo ideale cavalleresco. Ma il primo si rifugia nell'avvenire e perso il cielo e gli dei, cerca di trovare sulla terra l'uomo superiore che erediterà la morte degli dei. Il secondo invece si rifugia nel passato e nelle sue allucinazioni, e persa la lucidità, cerca di abitare il suo sogno nella realtà, con i risultati tragici e grotteschi che conosciamo. La sorte dei loro autori è invece capovolta: Cervantes scarica le follie della vita sul suo personaggio, che impazzisce e muore. Nietzsche salva Zarathustra e lo lascia forte e ardente come il sole, ma carica su di sé la follia della sua profezia, e impazzisce.Tramite Zarathustra, Nietzsche aveva pensato di fondare una nuova religione terrena segnata dall'apparizione del sovrumano. Visione epica ed eroica, euforica e giocosa del destino. Una religione danzante e ridente, contro la religione mortuaria e nereggiante, afflittiva e punitiva del cristianesimo. Qui c'è qualcosa di più della polemica anticristiana, c'è la biografia di Nietzsche: quanto ha pesato su quella luttuosa visione del cristianesimo il ricordo infantile di suo padre pastore luterano morente? I vestiti neri e il lutto familiare degli anni seguenti, la fede come orfanità e vedovanza, la fanciullezza rubata dal dolore. La morte di Dio è forse la trasfigurazione celeste della morte del Padre, il pastore? A quell'età i ricordi si conficcano come chiodi. Ai suoi occhi Dioniso è l'infanzia del mondo che scaccia e riscatta la memoria triste della sua infanzia. Come l'elogio della salute vigorosa è l'esorcismo e il rifugio dalla propria salute cagionevole.

Nietzsche torna a danzare ma la musica non è più la sua. Ora che la storia è stritolata nella tenaglia tra la tecnica e la natura, ovvero tra la potenza innescata dall'umano e la rivincita del primordiale o basic istinct, Zarathustra è reclamato a gran voce e ridiscende dai monti. Lo reclamano quanti vedono in lui il profeta della volontà di potenza e del superuomo dell'era tecnologica. E quanti trovano in lui il profeta della natura liberata ed esuberante. Ma la potenza della tecnica non è più controllata dall'artefice, che ne è anzi soggiogato, e procede per suo conto; e la natura, incattivita dalle devastazioni, si rivale sulla civiltà e segna il primato degli impulsi emotivi e degli istinti bestiali sull'equilibrio del saggio vivere secondo natura. Dunque non è l'avvento del sovrumano che profetizzava Nietzsche, ma il dominio dell'automatico e del subumano a occupare la scena e a tradire il canto di Zarathustra.Pur consapevole che la strada di Nietzsche è senza sbocchi, torno sui suoi passi da una vita. Il primo articolo che pubblicai, a diciannove anni, fu dedicato a lui e al suo tempo venturo, che non venne mai, se non in versione rovesciata. Eppure mi ritrovo ancora, dopo svariati anni a parlare di lui e del suo Zarathustra, la bibbia dei miei diciott'anni. L'eterno ritorno di Nietzsche, e la vana speranza che ci si possa salvare da soli aggrappandosi al futuro.

(di Marcello Veneziani)

La crisi delle democrazie ridotte a sistema di potentati e interessi


Tutte le leadership democratiche dell’Occidente sono, chi più chi meno, in crisi. In genere la si addebita alla attuale mediocrità delle classi dirigenti (di cui l’Italia, da sempre Paese pilota, nel bene e nel male, offre aspetti grotteschi e peraltro istruttivi). Nessuno osa dire che in crisi è la Democrazia in quanto tale, come sistema di potere, al di là dei suoi interpreti. 

Dopo la caduta del mondo feudale la dottrina liberal-democratica nasce dalla testa di alcuni pensatori (Stuart Mill, John Locke, Alexis De Tocqueville) che volevano valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo singolo, finalmente liberato dalle rigide divisioni di casta (nobili, ecclesiastici, Terzo Stato). Nei fatti, storicamente, la democrazia ha realizzato l’opposto, si è rivelata un sistema di oligarchie, politiche ed economiche, di aristocrazie mascherate, di lobbies che schiacciano l’individuo che non si piega a questi umilianti infeudamenti. Questo vulnus, ineliminabile e definitivo, della democrazia era stato già ben individuato dalla cosiddetta "scuola elitista" italiana dei primi del Novecento (bollata, chissà perché "di destra": Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Roberto Michels erano puramente e semplicemente degli studiosi che, come tali, osservavano i fenomeni sociali per quello che sono). 

Scrive Gaetano Mosca ne "La classe politica": "Cento che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro". E con questo si dice addio non solo al mito anglosassone dell’"one man, one vote", ma anche al principio della meritocrazia su cui prevale la fidelizzazione feudale. Si creano così leadership di mediocri che, per non esserne scavalcati, si circonderanno di soggetti ancor più modesti che, diventati a loro volta classe dirigente, seguiranno la stessa condotta, in un processo che non sembra trovare il suo fondo. Non è un caso che le democrazie abbiano dato il meglio di sè quando si sono trasformate, più o meno velatamente, in autocrazie (il Roosvelt del "New Deal", grande ammiratore di Mussolini, Churchill ed Eisenhower nella seconda guerra mondiale). Così come non è un caso che le democrazie non siano in grado di combattere la mafia. Essendo un coacervo di mafie devono venire a patti con quelle, diciamo così, ufficiali (solo il fascismo, che non era una democrazia, combattè seriamente la mafia siciliana, perchè un potere forte non ne sopporta altri sul proprio territorio). 

Peraltro quella della democrazia è una questione di secondo grado. La democrazia è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sè. È un sacco vuoto che va riempito di contenuti. In due secoli e mezzo il sacco si è riempito solo di valori quantitativi e materialistici e la democrazia è diventata semplicemente l’involucro legittimante di un modello di sviluppo economico "paranoico" perchè si basa sulle crescite infinite che esistono in matematica, non in natura. 

Dopo una vertiginosa cavalcata, che proprio nella sua velocità aveva il principio della sua fine, questo modello è arrivato inevitabilmente al proprio limite perchè non può più crescere. Io lo vedo come una potentissima automobile che è arrivata davanti a un muro invalicabile. Ma il guidatore, invece di prendere atto della realtà, si ostina a dare di gas. Prima o poi il motore fonde. Fuor di metafora crollerà, e di colpo, il mondo del denaro, della finanza, dell’industria, della produzione e del consumo portandosi via anche quel fragile velo che lo ricopre chiamato democrazia. Ad onta di tutte le infantili illusioni (Fukuyama) nemmeno la democrazia, come tutte le costruzioni umane, è destinata a durare in eterno. Già ora a fronte di sistemi di potere che durarono millenni, dà segni di cedimento, dopo soli due secoli di vita.

(di Massimo Fini)

martedì 9 ottobre 2012

Ma il puzzle siriano non torna


Credo che ormai le incaute speranze e i più ancor incauti entusiasmi per le cosiddette “primavere arabe” si siano più o meno volatilizzati. Ci siamo accorti che – a parte l’iniziale “caso” tunisino, che aveva forse preso di contropiede governi e imprenditori occidentali – la rivolta si è invariabilmente indirizzata contro paesi musulmani retti da regimi che, se non democratici, sono (o erano) comunque grosso modo quel che noi – impropriamente – definivamo “laici”.

Nemmeno uno dei ricchi e feroci tirannelli degli emirati, quelli che petrolio e turismo ha ormai resi arciopulenti e che sono interlocutori preziosi di banche e di lobbies occidentali è stato rovesciato. Questa premessa è credo indispensabile per aiutarci a guardar in modo più obiettivo e ragionevole a quel che sta accadendo proprio in questi momenti in un paese-chiave del Vicino Oriente, la Siria.

Già, la Siria: un grande paese, una grande civiltà. Storicamente, l’area che fin dall’antichità era una delle più civili e popolose del mondo – con “culture di villaggio” fino dal VII millennio a.C. e fiorenti centri urbani come Ugarit e Mari dal III a.C. – corrispondeva al territorio oggi occupato dagli stati di Siria, Israele, Giordania e Libano: un’immensa area di più di 310.000 chilometri, anche se in gran parte desertici, vivificata tuttavia dai corsi dell’Eufrate, dell’Oronte e dal Giordano e coincidente pertanto con gran parte della cosiddetta “fertile mezzaluna”, la fascia fertile e popolata attigua a quei grandi fiumi.

Ma oggi, con la parola Siria s’intende un paese che l’impero ottomano aveva organizzato in una provincia dipendente dal governatorato di Adana e che dopo gli infausti accordi segreti Sykes-Picot del 1916 – in violazione con gli accordi presi con le popolazioni arabe locali – fu occupato tre anni dopo, nel ’19, dalle truppe francesi che vi stabilirono un “mandato” purtroppo legittimato tra ’20 e ’22 dalla Società delle Nazioni.

Dopo oltre un quarto di secolo di dure lotte, l’indipendenza fu conquistata solo nel ’46. Nacque così la Repubblica Araba di Siria, 185.180 chilometri quadrati in gran parte desertici, con una popolazione di oltre 22 milioni di abitanti della quale più della metà concentrata nelle grandi città di Damasco, Aleppo e Homs. Dopo l’effimera unione con l’Egitto nella Repubblica Araba Unita, fra 1958 e 1961, dal ’63 lo stato siriano è dominato dal regime monopartitico del Baath (“rinascita”), a tendenza nazionalista e socialista originariamente nasseriana; dopo la crisi della guerra arabo-israeliana del ’67, conclusasi tra l’altro con l’occupazione da parte d’Israele delle alture del Golan (che implica lo sfruttamento israeliano della sorgente idrica di Baniyas e la perdita da parte della Siria dell’accesso alle acque del lago di Tiberiade), dal ’70 il potere è nelle mani della famiglia del generale Hafez el- Assad, deceduto dopo una lunga infermità nel 2000 dopo aver assicurato il passaggio dei poteri al figlio Bashar, il cui ruolo presidenziale è stato confermato nel 2007 da un referendum.

Hafez el-Assad era stato un uomo duro (tristemente celebre la repressione dei ribelli sunniti ad Homs) e le accuse che da parte internazionale pesano sul governo siriano riguardano la violazione dei diritti umani in politica interna, il costante atteggiamento favorevole all’Iran in politica estera, l’atteggiamento egemonico in Libano culminato nel 2007 nell’assassinio del presidente libanese, il sunnita Hariri e nell’appoggio al partito Hezbollah. Tuttavia, sotto altri aspetti, gli osservatori internazionali sono finora stati concordi nel sottolineare alcuni caratteri non negativi del governo di Bashar, che personalmente non ha certo ereditato la spietatezza paterna. Lo stato sociale siriano si è distinto per un buon funzionamento, le istituzioni e le strutture pubbliche reggono bene, il sistema di welfare è nettamente migliore di quanto non sia nella maggior parte dei paesi vicino-orientali.

Le sanzioni imposte dal 2004 alla Siria, sulla base di presunte e mai ben precisate connivenze con il “terrorismo islamico”, erano state finora debolmente applicate e il clima diplomatico, anche rispetto agli Usa, era nettamente migliorato nel 2009. Diversamente vanno le cose con Israele, rispetto al quale pesa il contenzioso per il Golan e i postumi del raid aereo israeliano del 2007 contro presunte installazioni nucleari siriane (la cui esistenza non è mai stata comprovata).

Ma con queste premesse, a parte la “rivolta di popolo” (che è sempre difficile capire quanto e in che misura sia spontanea e da che punto in poi eterodiretta), quali sono le premesse della situazione siriana? Per una sua più corretta comprensione, bisogna valutare anzitutto quattro cose: la Siria è dagli anni Sessanta le più costante, sicura e valida interlocutricealleata in Vicino Oriente dell’Urss prima, della Russia poi; il governo di Assad, di famiglia alawita, controlla un paese all’80 per cento di osservanza sunnita (gli alawiti, non più dell’11 per cento, sono piuttosto un gruppo “sciita-ereticale”) ed è altresì stato sempre, dal ’79, in buoni rapporti con il governo della repubblica islamica dell’Iran, paese sciita; permane l’occupazione israeliana del Golan, con relativo sfruttamento delle sue risorse idriche, nonostante le risoluzioni dell’Onu al riguardo. A margine di questo, andrebbero messe in conto anche l’annosa tensione tra Siria e Turchia dovuta a questioni tanto etnoreligiose quanto confinarie e idriche (le sorgenti dell’Eufrate stanno in territorio turco), nonché la recente scoperta di giacimenti sottomarini di gas nelle acque territoriali turca, cipriota, libanese e siriana.

Una delle considerazioni più importanti da tener presente è anche che gli alawiti chiamati anche nusayri (sciiti “settimimani”, che a differenza degli iraniani riconoscono una sequenza di soli sette imam discendenti di Ali cugino e genero di Muhammad: a differenza della maggioranza sciita, “decimimana”, che ne riconosce dodici), nella cui dottrina musulmana sono presenti anche elementi d’origine cristiana e mazdaica, hanno sempre avuto tutto l’interesse a mantenere in Siria un clima costituzionale che noi definiremmo “laico” in quanto temono l’egemonia sunnita: ciò li ha portati tradizionalmente a fraternizzare con i cristiani che in Siria sono distinti in varie Chiese che in tutto non vanno oltre il 9 per cento, cioè circa 2 milioni distinti tra cattolici greco-melkiti, greco-ortodossi e siriaci d’origine monofisita (ciascuna di queste tre Chiese ha un suo patriarca), oltre a minoranze maronite, armene, e “caldee” che ormai hanno aderito alla Chiesa cattolica ma hanno mantenuto i loro riti liturgici.

Il patriarca melkita Gregorio III Laham è più volte intervenuto (autorevole, ma inascoltato dai media) sull’attuale situazione, sottolineando che non risponde a verità il fatto che i cristiani siano favorevoli al regime di Assad, ma come tuttavia fino ad oggi la costituzione e il governo di Damasco abbiano garantito libertà e tutela alle Chiese cristiane, autentico “anello debole” della società civile siriana, e come esse abbiano invece motivo di temere che, nel fronte ribelle, possano prevalere i sunniti fondamentalisti tra i quali le istanze anticristiane si sono di recente appesantite; inoltre egli ha denunziato come all’interno di quel fronte forti siano le presenze e le ingerenze straniere e occidentali. Insomma, una Siria 2012 che comincia stranamente a somigliare per certi versi alla Spagna 1936. Le Chiese cristiane si sono in generale dette favorevoli al piano di pace proposto da Kofi Annan a nome dell’Onu e dalla lega Araba e appoggiato da movimenti siriani non-violenti come l’interreligioso Mussalah. Analoghe posizioni sono nella sostanza sostenute da uno dei più seri e intelligenti conoscitori italiani della questione siriana, il gesuita Paolo dall’Oglio, che pure è stato sostanzialmente espulso dalla Siria nel giugno 2012 dopo che vi viveva da trent’anni e vi aveva fondato la bella comunità di Deir Mar Musa.

Dall’Oglio è stato espulso perché fino dall’inizio del movimento che noi definiamo “primavera araba” ha sempre sottolineato la spontaneità e la sincerità di tanti soprattutto giovani, che vogliono libertà e chiedono un futuro migliore, nonché le menzogne e le violenze del governo. Il quale ha ottenuto dalle autorità ecclesiastiche cattoliche il suo trasferimento. Ma Dall’Oglio sottolinea in un’intervista a Jesus del settembre 2012 come «il movimento di massa, che all’inizio era di emancipazione civile, si è presto colorato islamicamente». Com’è successo in Libia e come potrebbe succedere in Egitto. Dall’Oglio ha certo ragione quando contesta la teoria del “complotto internazionale” sostenuto da americani, europei e israeliani contro il regime di Damasco: una teoria semplicemente ridicola, come sempre sono le teorie complottiste.

Egli denunzia anche il fatto che, messi alle strette, gli alawiti ancora al governo (che rappresentano un paio di milioni di persone) potrebbero puntare sulla resurrezione dello stato autonomo alawita insediatosi nella zona attorno a Lattakya (nel sud-ovest del paese), che la Francia aveva riconosciuto nel 1922 e che fu eliminato con la fine del mandato francese del ’46: e sostiene che ormai, messo alle strette, Assad che ha visto fallire il suo primitivo progetto di semplice repressione del movimento ribelle ha tutto l’interesse a prolungare la resistenza: cosa che però rafforza, sul fronte ribelle, la pericolosa componente sunnita fondamentalista.

La posizione del Dall’Oglio è onesta e ragionevole. Essa sembra tuttavia sottovalutare due dati effettivi: primo, la forza e l’intensità con la quale i paesi arabi sunniti si sono impegnati per “islamizzare” la rivolta contro Assad, e che ormai appare irreversibile; secondo, che per accelerare al massimo la soluzione del conflitto occorrerebbe non l’invio di una forza Onu a sostegno dei ribelli (come si è fatto in Libia, con le conseguenze che conosciamo), bensì un accordo internazionale al quale per il momento si oppone con la sua forza di veto al Consiglio di Sicurezza la Russia (appoggiata dalla Cina, ma anche da Brasile, India e Sudafrica), in quanto essa chiede attraverso il suo ministro degli esteri Sergheji Lavrov che le trattative si conducano tenendo presenti anche le posizioni del governo di Damasco anziché far di esso un pregiudiziale capro espiatorio. Ma le posizioni russe sono presentate dai media come “unilateralmente” ispirate da una diplomazia che per ragioni legate alla geopolitica e al petrolio sono considerate “unilateralmente” filoiraniane. In modo analogo, è passata sotto silenzio la lettera con al quale l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha denunziato il fatto che «si è insediata in Siria una forza terroristica, ostile a ogni mediazione» e ha smascherato la speculazione mediatica sul famoso massacro di Hula, precipitosamente attribuito alle forze governative Ora, è proprio questa forzatura interpretativa a scoprire una parte importante della realtà.

Qui non si tratta dell’isterico complottismo antiamericano giustamente denunziato dal Dall’Oglio: si tratta della più che ragionevole ipotesi che alla base dell’impegno teso ad eliminare il governo baathista dalla scena politica vicino-orientale ci sia la volontà di alcuni ambienti statunitensi e israeliani di portare un attacco militare diretto contro le vere o supposte installazioni nucleari iraniane. E anche quella è una forma d’isterismo complottista uguale e contraria al complottismo antiamericano: solo ch’è molto più forte politicamente e militarmente; e potrebbe prevalere se – Dio non voglia – i repubblicani vincessero le elezioni statunitensi di novembre.

(di Franco Cardini)

Pdl, azzerare: ma azzerare cosa?



Azzerare. D’accordo. Ma come? Ripartendo da che punto? Per arrivare dove? Con quali idee, progetti, prospettive, visioni? Temo – e dovrebbero temerlo tutti coloro che hanno a cuore i destini del Paese, indipendentemente dalle appartenenze politiche – che nel Pdl, a cominciare da Berlusconi, nessuno ha la più pallida idea di che cosa dovrebbe diventare il cumulo di macerie che non ha più neppure le sembianze di un partito, semmai le ha avute. Perciò sentir cantare tutti un motivo diverso dall’altro fa una certa impressione ed ingenera un fastidio quasi fisico. Chi proviene da Forza Italia manifesta il proprio disagio ed auspica un ritorno allo spirito del ’94, come se si potessero mettere indietro le lancette dell’orologio, per di più sono divisi tra di loro da barriere insormontabili: c’è chi vorrebbe un Monti bis e chi lo avversa, altri sognano ancora il Cavaliere al comando e si scontrano con quelli che immaginano una rivoluzione generazionale, ci sono poi i sostenitori di una ricomposizione con la Lega e quelli che vorrebbero fuori dalle scatole gli ex-postmissini, in tanti aspirano alla costruzione di un grande Centro con Casini (ma dovrebbero prendersi pure Fini) ed immaginano che Montezemolo (ultima infatuazione del Capo) possa essere il ricucitore delle anime moderate (e agonizzanti) ignorando che il presidente della Ferrari non ne vuol sapere di mettersi con i perdenti di oggi e di domani.

Coloro che da An provengono, invece, sono tentati (non tutti a dire la verità: Matteoli, per esempio, non ne vuol sentir parlare) di ricostruire una piccola formazione di destra, forse alleata con Storace e partecipata anche da qualche elemento di Fli che ha capito con ritardo che al leader scissionista del partitino fondato nell’estate di due anni fa non è mai importato molto, diversamente si sarebbe dimesso da presidente della Camera ed avrebbe guidato quella che, agli esordi, faceva apparire come una sorta di “nuova destra”, senza peraltro precisarne mai i contenuti ed i valori di riferimento. Una destra sarebbe auspicabile, comunque. Ma che forma dovrebbe prendere, chi dovrebbe guidarla, con quali risorse organizzarla perché si possa adeguatamente presentare alle elezioni politiche in aprile? Nessuno sa dirlo. Soprattutto, nessuno di coloro che fin qui sembrano utilizzare la prospettiva della sua rinascita, ha abbozzato delle linee-guida intorno alle quali far nascere un partito credibile che pure una sua base elettorale non trascurabile ce l’ha certamente. Oltretutto il tempo stringe e le manovre degli ex-colonnelli non sembrano particolarmente incisive. Resta, tuttavia, sullo sfondo la prospettiva e chissà che per vie traverse, bypassando cioè le vecchie nomenklature e mettendo da parte antiche idiosincrasie, non prenda consistenza. Ci sono poi i cosiddetti “formattatori” del Pdl, l’ultima generazione di un partito mai nato. Sono perlopiù amministratori locali giovani e rampanti, da quel che mi par di capire vogliosi di proporsi come protagonisti di una rinascita dai contorni al momento imprecisati. Non saprei dire dove intendono andare, né quali idee vorrebbero portare avanti. Ho l’impressione che trascurino la cultura politica ritenendo che l’azione amministrativa basti e avanzi per costruire un soggetto politico. È bene che ci siano: se qualcuno avesse saputo sfruttare una tale risorsa forse il Pdl non sarebbe a questo punto.

Difficile dire il ruolo che intendono giocare i gruppi e gruppetti lib-lab, cattolici, liberisti duri e puri. Ma sono in movimento. Non amano Monti eppure lo subiscono; hanno in uggia la corte del Cavaliere, ma non disdegnano di frequentarla; guardano in cagnesco tutti gli altri, ma disciplinatamente non creano problemi ai gruppi parlamentari.

Sul territorio è tutta un’altra musica. Le fazioni contrapposte se le danno di santa ragione. È tutto un rivangare incomprensioni e risentimenti. Nessuno dal vertice del partito ha cercato di mettere un po’ d’ordine in un casino dalle proporzioni inimmaginabili. Se questo è il quadro – al netto degli scandali, delle camarille, delle faide di cui si sa tutto – chi, come e quando riuscirà a ricomporre le tessere di un mosaico confuso, finito in mille pezzi? Un federatore, insomma, per ridare vita ad un nuovo centrodestra dove lo si trova? Su questi interrogativi s’infrangono le migliori intenzioni. Una federazione era possibile ancora fino ad un anno fa, dopo aver fatto pulizia e aver ridato decoro ad una formazione politica improvvisata, raccogliticcia, senz’anima. Adesso è tardi. Chi si vuol fare un partito lo faccia, consapevole però che i tempi sono lunghi e la pazienza della gente è finita.

(di Gennaro Malgieri)

Ecco perché il Vaticano II non condannò il comunismo


Come tutti gli eventi storici, anche il Concilio Vaticano II ha avuto le sue ombre e le sue luci. Poiché in questi giorni se ne evocano soprattutto le luci, mi sia permesso ricordarne una vasta zona d'ombra: la mancata condanna del comunismo. Erano gli anni '60 e aleggiava un nuovo spirito di ottimismo incarnato da Giovanni XXIII, il «Papa buono», Nikita Kruscev, il comunista dal volto umano, e John Kennedy, l'eroe della «nuova frontiera» americana. Ma erano anche gli anni in cui veniva innalzato il muro di Berlino (1961) e i sovietici installavano i missili a Cuba (1962). L'imperialismo comunista costituiva una macroscopica realtà che il Concilio Vaticano II, il primo «concilio pastorale» della storia, apertosi a Roma l'11 ottobre 1962 e conclusosi l'8 dicembre 1965, non avrebbe potuto ignorare.

In Concilio vi fu uno scontro tra due minoranze: una chiedeva di rinnovare la condanna del comunismo, l'altra esigeva una linea «dialogica» e aperta alla modernità, di cui il comunismo pareva espressione. Una petizione di condanna del comunismo, presentata il 9 ottobre '65 da 454 Padri conciliari di 86 Paesi, non venne neppure trasmessa alle Commissioni che stavano lavorando sullo schema, provocando scandalo.

Oggi sappiamo che nell'agosto del '62, nella città francese di Metz, era stato stipulato un accordo segreto fra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il nuovo arcivescovo ortodosso di Yaroslav, monsignor Nicodemo, il quale, come è stato documentato dopo l'apertura degli archivi di Mosca, era un agente del KGB. In base a questo accordo le autorità ecclesiastiche si impegnarono a non parlare del comunismo in Concilio. Era questa la condizione richiesta dal Cremlino per permettere la partecipazione di osservatori del Patriarcato di Mosca al Concilio Vaticano II (si veda: Jean Madiran, L'accordo di Metz, Il Borghese, Roma 2011). Un appunto di pugno di Paolo VI, conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, conferma l'esistenza di questo accordo, come ho documentato nel mio Il Concilio Vaticano II. Una storia non scritta (Lindau, 2010). Altri documenti interessanti sono stati pubblicati da George Weigel nel secondo volume della sua imponente biografia di Giovanni Paolo II (L'inizio e la fine, Cantagalli, 2012).Weigel ha infatti consultato fonti come gli archivi del KGB, dello Sluzba Bezpieczenstewa (SB) polacco e della Stasi della Germania Est, traendone documenti che confermano come i governi comunisti e i servizi segreti dei Paesi orientali penetrarono in Vaticano per favorire i loro interessi e infiltrarsi nei ranghi più alti della gerarchia cattolica. A Roma, negli anni del Concilio e del postconcilio, il Collegio Ungherese divenne una filiale dei servizi segreti di Budapest. Tutti i rettori del Collegio dal 1965 al 1987, scrive Weigel, dovevano essere agenti addestrati e capaci, con competenza nelle operazioni di disinformazione e nell'installazione di microspie. L'SB polacco, secondo lo studioso americano, cercò persino di falsare la discussione del Concilio sui punti peculiari della teologia cattolica come il ruolo di Maria nella storia della salvezza. Il direttore del IV Dipartimento, il colonnello Stanislaw Morawski, lavorò con una dozzina di collaboratori esperti in mariologia per preparare un pro-memoria per i vescovi del Concilio, in cui si criticava la concezione «massimalista» della Beata Maria Vergine del cardinale Wyszynski e di altri presuli.

La costituzione Gaudium et Spes, sedicesimo e ultimo documento promulgato dal Concilio Vaticano II, volle essere una definizione completamente nuova dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. In essa mancava però qualsiasi forma di condanna al comunismo. La Gaudium et Spes cercava il dialogo con il mondo moderno, nella convinzione che l'itinerario da esso percorso, dall'umanesimo e dal protestantesimo, fino alla Rivoluzione francese e al marxismo, fosse un processo irreversibile. Il pensiero marx-illuminista e la società dei consumi da esso alimentata era in realtà alla vigilia di una crisi profonda, che avrebbe manifestato i primi sintomi di lì a pochi anni, nella Rivoluzione del '68. I Padri conciliari avrebbero potuto compiere un gesto profetico sfidando la modernità piuttosto che abbracciarne il corpo in decomposizione, come avvenne. Ma oggi ci chiediamo: erano profeti coloro che in Concilio denunciavano l'oppressione brutale del comunismo reclamando una sua solenne condanna o chi riteneva, come gli artefici dell'Ostpolitik, che occorreva trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo interpretava le ansie di giustizia dell'umanità e sarebbe sopravvissuto uno o due secoli almeno, migliorando il mondo?

Il Concilio Vaticano II, ha affermato recentemente il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze Storiche, «avrebbe scritto una pagina gloriosa se, seguendo le orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di pronunciare un ripetuta ed espressa condanna del comunismo». Così purtroppo non accadde e gli storici devono registrare come un'imperdonabile omissione la mancata condanna del comunismo da parte di un Concilio che si proponeva di occuparsi del problemi del mondo a lui contemporaneo.

(di Roberto de Mattei)