sabato 29 dicembre 2012

La lunga marcia della destra italiana


Vent'anni fa, quando la Destra politica si ritrovò scaraventata sulla ribalta nazionale e in seguito, grazie a Silvio Berlusconi, addirittura alla guida del Paese, furono in pochi a prevedere in quell'insperato successo l'inizio della fine. 

Vent'anni dopo, la cronaca registra un pullulare di sigle nate dall'esaurirsi di quella che ne era stata all'inizio il motore immobile, vale a dire il Movimento sociale (Msi), prima ribattezzato Alleanza Nazionale (An) e più tardi sciolto in un più grande contenitore chiamato Polo delle Libertà (Pdl). Allo stato attuale, e come per gemmazione da quest'ultimo, sono da annoverarsi da un lato i Fratelli d'Italia-Centro-destra Nazionale antimontiani, dall'altro il finiano e montiano Futuro e Libertà, a cui va aggiunta la storaciana Destra, priva di rappresentanza parlamentare, anch'essa antimontiana in un orizzonte elettorale in cui il montismo sembra il mantra del berlusconismo: favorevoli ma contrari (sono stati i suoi rappresentanti ad aver sfiduciato il governo), contrari ma favorevoli (lo avrebbero voluto al loro fianco se non alla loro guida...).

Questo pullulare di sigle intorno a un unico oggetto del contendere si lega a ciò che dà il titolo al saggio di Giuseppe Giaccio, ovvero Le metamorfosi della destra (&MyBook, pagg. 149, euro 12), analisi ragionata e tentativo di comprendere quanto e se, metamorfosizzandosi, la Destra abbia trovato un suo anche se molteplice ubi consistam oppure, più semplicemente, si sia polverizzata. Nota l'autore che «da un punto di vista biologico, la metamorfosi è un processo naturale di trasformazione che consente a un organismo di diventare adulto: dalla crisalide alla farfalla. Sappiamo però, grazie a Kafka, che una metamorfosi può essere anche qualcosa di mostruoso: Gregor Sansa, da uomo, diventa scarafaggio».

In politica, si sa, bisogna dar prova di realismo. È in nome del realismo politico che intellettuali-compagni di strada e esponenti di partito con aspirazioni teoriche hanno cercato di motivare le ragioni di una Destra in cammino verso, va da sé, la modernità. Giaccio ne ripercorre puntigliosamente i passi, comprese le vanterie affrettate così come le ricostruzioni di comodo. Sta di fatto che il solvitur ambulando, ovvero il risolvere i problemi attraverso una marcia, a volte storicamente può funzionare, vedi la «marcia su Roma» del fascismo, ma c'è sempre in agguato quel couplet di Mino Maccari che suonava «O Roma/o Orte»... Sotto questo aspetto, il cammino della Destra sembra essere finito su un binario morto o tutt'al più uno scambio in disuso, e questo a prescindere dalla ministeralizzazione capitolina di alcuni suoi leader-macchinisti.

Giaccio si interroga se «non sia proprio il berlusconismo a svelare la verità sulla destra italiana, il suo vero volto». È un interrogativo retorico, non foss'altro perché, come nota egli stesso, la cronaca di questi anni ha registrato la presenza molto attiva dei «berluscones» nella cosiddetta destra-postmissina, ma non dei «finiones» dentro Forza Italia. La «destra nuova» europea dei Sarkozy e dei Cameron che veniva portata a esempio, era insomma «capeggiata da persone che, a cominciare dal primo, avevano conquistato sul terreno, metro per metro, la leadership prima del loro partito e poi del loro Paese», cosa che di Gianfranco Fini non si può proprio dire. La berlusconizzazione della destra portava dunque scritto sin dall'inizio la dissoluzione della seconda, a meno di non dotarla di anticorpi ideologici talmente forti e insieme di una capacità strategica di lunga durata tali da permetterne il rigetto. Sotto questo aspetto, sia la Lega di Bossi e poi di Maroni, sia l'Udc di Casini hanno rivelato quella capacità identitaria che ne ha garantito la sopravvivenza.

Lo «scioglimento di un equivoco». Così Giaccio, riprendendo il giudizio del finiano Fabio Granata, descrive la confluenza di An nel Pdl e la successiva costruzione della «Destra nuova» di Futuro e Libertà, intesa come una «sfida in campo aperto»... Nel giro di un paio d'anni, e complici le prossime elezioni, da una «confluenza» si è passati a un'altra, sempre in condizioni di minorità e/o di sudditanza, una sorta di commedia degli equivoci che cancella la parola «destra» come antitesi del berlusconismo. E sull'altro versante? Il neo partitino di La Russa-Meloni-Crosetto da un lato, La Destra di Storace dall'altro non si sa se marceranno separati per colpire uniti o uniti per non morire separati, ma in entrambi i casi, e di là dalla buona fede e dai buoni propositi, è difficile vedere in essi un progetto politico in grado di caratterizzarli.

Le metamorfosi della destra è un libro interessante anche per l'analisi di quella che è stata la «Nuova destra» metapolitica, riassumibile nella formula delle nuove sintesi democratiche post-liberali, e di cui Giaccio ha rappresentato uno degli intellettuali più accreditati. In sostanza, proprio dal venir meno dei referenti politici tradizionali, i concetti classici di destra e di sinistra, era possibile un percorso culturale alternativo che cercasse una via d'uscita a quella che sempre più si è andata configurando come la morte della politica. «Sul piano istituzionale, rimane l'architettura di una democrazia sempre meno rappresentativa e sempre più auto-referenziale, un regime partitico post-democratico, che della democrazia conserva le forme esteriori, le ritualità, ma non più la sostanza e che tenta di sopperire a questo deficit con un massiccio ricorso alle tecniche pubblicitarie». Come e se da questo impasse si possa uscire, nessuno è in grado di dirlo, ma provarci resta «la propedeutica morale a ogni rivoluzione possibile».   

(di Stenio Solinas

domenica 23 dicembre 2012

Il libro e la svastica. Il destino nero degli intellettuali SS


Credere, distruggere di Christian Ingrao (Einaudi, 405 pagine, 34 euro) ha per sottotitolo «Gli intellettuali delle SS». Racconta come giuristi, economisti, filosofi, linguisti e storici che ne fecero parte teorizzarono una coscienza e superiorità di razza che, una volta calata nel crogiolo della Seconda guerra mondiale, si fuse nell'Est Europa nella pianificazione di una distruzione di massa nei confronti di chi, essendo “inferiore”, poteva e doveva essere eliminato.

Nato come tesi di dottorato, il saggio di Ingrao, attualmente direttore dell'«Institut d'Histoire du Temps Présent» di Parigi, ricostruisce in primis il retaggio della sconfitta tedesca nella Grande guerra in chi, per età, non aveva fatto a tempo a parteciparvi; analizza poi la militanza culturale nazista come reazione a questo vissuto; affronta infine «le pratiche genocidiarie delle Einsatzgruppen sul fronte orientale e nella partecipazione alle politiche di germanizzazione e di trasferimento di popolazioni, anch'esse innervate da tensioni utopiche e omicide». In pratica, come sottolinea l'autore, Credere, distruggere è, a livello storiografico, la replica tematica di ciò che, a livello narrativo, è stato il romanzo Le Benevole di Jonathan Littell, uscito a cavallo fra la discussione universitaria di quella tesi e la sua successiva trasformazione in volume.

In Credere, distruggere, molta importanza viene data al «silenzio degli Akademiker», ovvero il tabù della Grande guerra, indice per Ingrao non di una tabula rasa, di un'insignificanza, ma di un trauma. Lo stesso discorso vale, ancora con più forza, per «l'assenza universale di evocazione della sconfitta tedesca del 1918». In sostanza, l'impossibilità di rievocare quell'esperienza vissuta in età infantile e/o adolescenziale, è da legarsi al «coagularsi di una credenza nella scomparsa - a scadenza più o meno breve - della Germania statuale, certamente, ma anche biologica». Ciò che non viene nominato, insomma, è dovuto da un lato al suo essere inconcepibile, e dall'altro rimanda a un angoscia apocalittica per ciò che potrebbe accadere. Viene anche da qui, secondo Ingrao, l'idea di vivere assediati «da un mondo di nemici» e, attraverso il nazismo, il transfert di una rivincita anche ideale, il sogno di un invincibile «Grande Reich millenario». È una ricostruzione per molti aspetti condivisibile, a cui però manca il tassello, come dire, politico. Come e perché quelle frustrazioni di un ceto intellettuale colto, ben educato, si trasformano in una realtà di massa, in un partito di massa che arriva al potere attraverso libere elezioni? Senza soffermarvisi, Ingrao riporta in proposito una frase di Ernst von Salomon su cui vale invece la pena riflettere: «Fu allora che divenne chiaro in tutte le discussioni che c'era qualcuno, un ospite muto, ma del tutto visibile e che tuttavia dominava la discussione, perché proponeva i temi, descriveva i metodi, determinava le azioni. E quell'ospite muto si chiamava Adolf Hitler».

Von Salomon non era uno scrittore qualunque. Nato nel 1902, neppure lui aveva fatto a tempo a partecipare alla guerra, ma in realtà, dopo il 1918, c'era stato il «tempo dei disordini», i «corpi franchi» impegnati a difendere i confini di quello che era stato l'impero del Kaiser e contemporaneamente a lottare contro il bolscevismo interno, la resistenza contro l'occupazione alleata e lo scontento legato alle clausole del trattato di Versailles che praticamente strangolavano la Germania. A nemmeno vent'anni, von Salomon aveva fatto parte della squadra che aveva assassinato Walter Rathenau, il politico che incarnava ai loro occhi la resa tedesca, e dopo la prigionia aveva continuato un'attività di sovversione intellettuale nei confronti dell'odiata Repubblica di Weimar. I giornali e le riviste dell'epoca si chiamavano La Resistenza, l'Avanzata, l'Azione, il Fronte Germanico, proliferavano le leghe e le associazioni di ex combattenti, il cemento rappresentato dalla Grande guerra prima, dal già citato «tempo dei disordini» dopo, si trasformava in un muro eretto contro il neonato Stato tedesco a cui non veniva riconosciuta alcuna legittimità. Il «silenzio» da parte dei più giovani di cui parla Ingrao, e il loro rifiuto di «evocare la sconfitta» si univano insomma al reducismo vociante e bellicoso dei fratelli maggiori per i quali l'esercito, per quanto umiliato dalle draconiane imposizioni dei vincitori, rimaneva l'unico vero legame con la grandezza passata.

All'interno di tale situazione, dove il disprezzo per Weimar si univa però a una condizione di «sorvegliato speciale» che impediva alla Germania una realistica scappatoia militar-golpista, Hitler, dopo l'errore iniziale del mancato putsch di Monaco, si inserì con una strategia di conquista legale del potere, dall'interno dunque, dalle istituzioni, dal basso e non dall'alto, e coagulò istanze di rivincita, nostalgie di ciò che era stato, insicurezze economiche del presente, in un blocco popolare in grado di sublimarle e armonizzarle.

Come scriverà von Salomon, che al partito nazista non aveva aderito e che del razzismo non aveva mai voluto saperne («Ho consultato l'enciclopedia. Ariano è un ceppo linguistico. Sono forse un vocabolo?»), il problema era che quelli come lui avevano scritto «una volta della fede nel nostro popolo, del suo grande compito storico; avevo parlato una volta dei nostri sogni supremi, dell'immane e supremo fine per raggiungere il quale ci eravamo mossi; avevo una volta, e per questo i miei camerati erano morti, per questo ci eravamo lasciati trascinare attraverso i penitenziari, avevo una volta coniato il detto che il nostro fine supremo, la nostra più intima fede era la vittoria della germanicità sulla terra!». Nell'incarnare il destino tedesco, di fatto Hitler diveniva per von Salomon, anche contro lo stesso von Salomon, una fatalità a cui era impossibile sottrarsi.

L'inabissarsi di von Salomon in colpe non sue, il suo essere comunque partecipe di «un destino tedesco», ha nel saggio di Ingrao un contraltare nel generale Otto Ohlendorf, responsabile del Servizio di sicurezza (SD) della Germania nazista, «uno dei rappresentanti più vicini a Himmler e, allo stesso tempo, uno dei membri eminenti della burocrazia ministeriale», responsabile dei massacri di massa nell'Europa dell'Est. Nel 1948 a Norimberga, Ohlendorf prova a giustificare il proprio operato, anche se così facendo sa di condannarsi di fronte al tribunale alleato, e lo fa in un'ottica tedesca dalle quale è estraneo ciò che intanto è accaduto, ovvero la rinascita politica della Germania, una Germania senza esercito, renana e federale, rivolta a Occidente... Parla ancora come se si fosse nel 1918, come se il sistema di credenze naziste avesse ancora senso e, al di fuori di esso, non ci fosse altro che «carestia, rivoluzione e derelizione nazionale». E invece la Germania è sopravvissuta al «destino tedesco» che qualcuno aveva deciso di incarnare in suo nome, e non è un caso che di fronte a un Ohlendorf che prova a spiegarlo e a un von Salomon che se ne assume le colpe, Hitler avesse già scelto di sigillarlo con un reciproco patto di morte.

(di Stenio Solinas

mercoledì 19 dicembre 2012

Profezia Maya, Cardini: abbiamo paura perché siamo in crisi


No guardi, il buio Medioevo non c’entra niente”. Franco Cardini, storico medievista, alla parola “profezia dei Maya” ci ferma subito: “Le grandi paure del Medioevo ce le siamo inventate nell’Ottocento”.

Professore, partiamo dall’inizio. Le profezie apocalittiche ci sono sempre state?

Sì, sono figlie della tradizione ebraica. I cristiani le hanno immesse nella civiltà greco-romana: quando l’Impero romano si è cristianizzato c’erano già leggende anche se non legate propriamente alla fine del mondo (è un’idea legata alle religioni della Bibbia e del Corano, che hanno un’idea della Creazione e quindi anche della fine).

Facciamo un esempio.

La IV Egloga di Virgilio, che poi i cristiani hanno usato come profezia della nascita di Gesù, parlava proprio della fine di un ciclo. È il deteriorarsi progressivo del mondo: l’età dell’oro, d’argento, di bronzo, di ferro. O il Kali Yuga degli indiani, l’età nera, dopo la quale si ricomincia da capo e viene una nuova era felice. Virgilio, attingendo a fonti gnostiche, nel I secolo a.C. – guarda caso: proprio mentre stava nascendo Gesù – la rimette in circolazione. Questo per dire che il mondo cristiano è sempre stato attraversato da queste leggende.

Dunque la paura dell’anno Mille è una bufala. Ce la fanno pure studiare a scuola.

Jules Michelet è lo storico che con Burckhardt ha inventato la parola Rinascimento. Però ha anche inventato questo affascinante quadro della gente che l’ultima notte dell’ultimo giorno del Primo millennio aspetta la fine del mondo. E il giorno dopo, allegri d’esser ancora vivi, tutti tornano laboriosi più che mai alle proprie occupazioni: da qui inizia un periodo di grande espansione.

E quale realtà nasconde la favoletta?

Effettivamente tra il X e l’XI secolo per ragioni climatiche, socio-economiche, politiche e demografiche il mondo euro-mediterraneo ha avuto una sorta di risveglio. Una situazione perfetta per agganciare anche le profezie apocalittiche.

Però non si capisce bene perché è una favoletta…

Per la semplice ragione che nessuno allora sarebbe stato in grado di sapere qual era con precisione l’ultima notte del Primo millennio. Nel mondo medievale nemmeno si poneva il problema perché c’era una pluralità di sistemi calendariali. L’anno in Francia finiva la notte tra il Sabato santo e la Pasqua, nelle aree dominate dal vescovo di Roma e in Germania era la notte di Natale. In Toscana e in Lombardia, il primo giorno dell’anno era il 25 marzo, cioè l’Annunciazione. Insomma avrebbero dovuto litigare per stabilire qual era l’ultimo giorno del millennio! Naturalmente questo non toglie che ci siano state nel corso dell’XI secolo molte voci profetiche sulla fine dell’umanità, legate al Libro dell’Apocalisse. E sono credenze che si rafforzano in momenti di crisi. Il tempo in cui si è attesa con forza la fine del mondo è stato tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna . Soprattutto nel periodo della Riforma. Per esempio il 1524 era molto temuto perché c’era una congiunzione astrale nel segno dei Pesci, avevano detto che ci sarebbero stati nuovi diluvi, cataclismi: in effetti fu un anno caratterizzato da forti piogge. E poi le guerre, le epidemie. Vuoi che in un momento del genere non venissero fuori profezie apocalittiche?

E oggi?

Ci sono certe cose – come le rivoluzioni – che accadono all’inizio o alla fine dei secoli, e non mi chieda perché. All’interno delle convenzionalità – il calendario è una di queste – si creano dei cicli che sembrano preterintenzionali. E allora quando si arriva alla fine dei secoli e tanto più alla fine dei millenni ci si arriva con una certa paura implicita. Quando si ha paura si colgono i segni di quello che si teme succeda. Ora abbiamo molte paure – e non solo perché siamo all’alba di un millennio cominciato male, con l’11 settembre – ma perché siamo in un periodo di crisi, soprattutto noi occidentali. Sappiamo che è finito quel mezzo millennio a partire dal quale siamo diventati i padroni del mondo. E le paure tornano a galla. Ma, come diceva mia nonna, le disgrazie non bisogna chiamarle.

(fonte: www.ilfattoquotidiano.it)

La diaspora della Destra vista da Buttafuoco


Ignazio La Russa fonda il centro-destra nazionale, Maurizio Gasparri resta nel Pdl e Italo Bocchino in Fli, Gennaro Malgieri guarda a Mario Monti e Francesco Storace continua a guidare la sua Destra. Ma la vera Destra, quella sognata da Pinuccio Tatarella e sdoganata da Gianfranco Fini che fine ha fatto?

Formiche.net ha chiesto un commento su questa diaspora a Pietrangelo Buttafuoco, giornalista di Panorama, intellettuale, scrittore e profondo conoscitore di quella parte di cielo: “E’ una tragedia, è tutto finito – esordisce con tono provato – e tutto questo perché è successo? Per una precisa disobbedienza a un comando di Tatarella che aveva indicato un percorso preciso: riuscire ad essere contemporanei al proprio tempo attraverso un impegno politico che potesse resistere a ciò che è transitorio”. E quindi, spiega Buttafuoco, “non contano i parlamentari né la pesca delle occasioni ma un progetto che sia culturale e per questo di lunga durata”.

La luce? Tra trent’anni


Un progetto che, secondo l’intellettuale, non è mai stato seguito da quando la destra è al governo: “Hanno tenuto in mano l’Italia per vent’anni e non è rimasto nulla. Stiamo assistendo a una frantumazione, a una polverizzazione della destra”. Uno scenario da cui è difficile vedere la luce: “Se ne riparlerà tra altri trent’anni – profetizza il giornalista – è stato snaturato un tesoretto costituito dal patrimonio spirituale e culturale di tre milioni di italiani che votavano a destra. Quel mondo, quella storia oggi non esiste più”.

Sopravviverà solo Berlusconi


A sopravvivere su tutto quello che è stato il ventennio del berlusconismo, sarà solo lo stesso Cavaliere, commenta amaro lo scrittore: “Forse rimarrà solo lui a contendersi pezzi di consenso con Beppe Grillo ma di certo questa non sarà la prosecuzione di quel progetto che va da Luigi Einaudi ad Alcide De Gasperi fino al Partito popolare europeo”.

sabato 15 dicembre 2012

Obama, un vero Nobel per la Pace


Nei giorni scorsi Barack Obama ha lanciato un duro monito a Bashar al Assad rivolgendosi direttamente al rais: “Il mondo vigila. L'uso di armi chimiche è e sarebbe inaccettabile. Se ne farai uso ci sarebbero conseguenze e ne sarai responsabile”. Su quali sarebbero queste conseguenze Obama lo ha detto apertis verbis a fine giugno: un intervento militare della Nato, con missili, bombardieri e truppe di terra, soprattutto inglesi e francesi (gli americani non vogliono perdere uomini).

Obama è stato messo all'erta dall'intelligence che attraverso i satelliti Usa, che tutto spiano (Stati e uomini) hanno notato movimenti ‘sospetti’ di truppe siriane intorno ai depositi dove il regime custodirebbe le cosiddette ‘armi non convenzionali’ (gas nervino, soprattutto, ma non solo). A me par ovvio che, se Assad possiede davvero queste armi ’chimiche’, protegga particolarmente i loro depositi ora che i combattimenti con i ribelli si sono fatti sempre più ravvicinati, perché se le ‘brigate rivoluzionarie’ se ne impadroniscono per lui è la fine. Ma sarebbero cazzi acidissimi per tutti.

La Siria, fino a prova contraria, è uno Stato membro dell'Onu e un minimo di senso di responsabilità lo deve pur conservare, nelle ‘brigate rivoluzionarie’ ci sono consistenti gruppi jihadisti i quali non si farebbero alcuno scrupolo a usarle contro i Paesi occidentali. I moniti, gli avvertimenti, le minacce a Bashar al Assad sono il preludio a un attacco militare della Siria da parte della Nato, sulla scia di quanto è avvenuto in Libia. Ma non è ciò di cui voglio parlare qui. Mi commuove fino alle lacrime l'umana sensibilità degli americani, il loro sincero orrore per l'uso di ‘armi non convenzionali’ giudicato “moralmente ripugnante e inaccettabile”.

Peccato che gli americani siano stati gli unici a utilizzare la più micidiale. Atomica su Hiroshima e Nagasaki (agosto 1945). Col dettaglio, sempre pudicamente sottaciuto, che Nagasaki fu colpita tre giorni dopo Hiroshima quando già si conoscevano i terrificanti effetti della Bomba. Fornitura, a metà degli anni ‘80, delle famose ‘armi di distruzione di massa’ (gas nervino) a Saddam Hussein perché le usasse contro i soldati iraniani e i ribelli curdi, compito diligentemente eseguito dall'impresario del crimine come lo chiamava Khomeini (5000 curdi iracheni gasati in un sol giorno nel villaggio di Halabya). Uso di bombe all'uranio impoverito in

Serbia e Kosovo nel 1999. Più di 50 militari italiani presenti nella regione, che pur erano avvertiti del pericolo e usavano le precauzioni del caso, si sono ammalati di cancro. Sugli ammalati serbi, soprattutto bambini, che come tutti i bambini nei dopoguerra sono attratti dai proiettili rimasti sul terreno, li toccano, li maneggiano, si è preferito non fare calcoli.

Le montagne dell'Afghanistan spianate nel 2001-2002 con bombe all'uranio impoverito mentre con l'uso di quegli stessi gas che oggi si rimprovera ad Assad di poter ipoteticamente usare, si cercava di stanare Bin Laden, o il suo fantasma, dalle caverne in cui si sarebbe rifugiato. Uso a tappeto in tutte le guerre recenti delle cluster, bombe che esplodono a mezzo metro dal suolo, proibite dalle convenzioni internazionali.

Il Mullah Omar aveva proibito l'uso delle mine anti-uomo (quasi tutte di fabbricazione italiana, Oto Melara che, per carità, dà da vivere a tanti lavoratori) perché non sono un'arma di guerra colpendo quasi esclusivamente passanti ignari. Ma il Mullah, si sa, è un ‘criminale di guerra’, Barack Obama un Premio Nobel per la Pace.

(di Massimo Fini)

Qual è l'antidoto alla modernità? Un sano egoismo


Ci sono quelli che non hanno mai tempo e non si fermano mai. «È una perdita di tempo» ti dicono. Dove corrano e perché, è un mistero anche per loro stessi, visto che rimandano tutto a un futuro indefinito, quando finalmente potranno fare quanto, per mancanza di tempo, gli era stato a suo tempo precluso. Di solito muoiono prima, oppure in corso d'opera, ma se qualcuno sopravvive è solo per poter constatare che, purtroppo, non c'è più tempo.

L'agile saggio di Armando Torno, Elogio dell'egoismo (Bompiani), ruota intorno a questo paradosso: abbiamo una vita limitata, ma ci comportiamo come se fosse eterna, ci illudiamo di riempirla di cose, e intanto la sprechiamo. Siamo troppo occupati a vivere per domandarcene il perché. Elogio dell'egoismo è quindi un vademecum per muoversi nel mare della modernità, dove a ogni istante le onde dell'ansia minacciano di sommergerci. Mai come oggi la libertà si confonde con la schiavitù. Prendiamo la comunicazione: siamo talmente interconnessi da aver perso il diritto a starsene per i fatti propri. Chi non ha un cellulare viene considerato un alienato, chi non utilizza un computer è fuori dalla catena produttiva, chi non chatta, non twitta, non facebookka, è un asociale. Eppure, come nota Torno, «se tutti possono scrivere a tutti, i computer e gli altri strumenti di comunicazione ricordati si trasformano in fogne».

Diceva Oscar Wilde che «la moralità moderna consiste nell'accettare il metro della propria epoca, il che per un uomo colto è una forma di immoralità delle più volgari». Uno dei «metri» della nostra risponde al nome di «flessibilità». Dobbiamo essere flessibili, è il nuovo mantra, e quindi cambiare, rinnovarci, aggiornarci. È un modo elegante per dire che siamo all'incanto, ovvero, come chiosa Torno, che «le continue alienazioni di noi stessi sono chieste da una società sempre più invasiva come condizione per lavorare o esercitare un'attività». 

Rimanere noi stessi, insomma, è un lusso, e come tutti i lussi si paga. Eppure, come osserva ancora l'autore, «i princìpi servono proprio a impostare le nostre azioni, a combattere nei momenti tristi sperando di raggiungere qualcosa che è preferibile al compromesso e alla vendita. Più si cerca di essere se stessi e più si è in pace con la propria coscienza. Un discreto esercizio dell'egoismo ci eviterà di vendere noi stessi come una merce e ci abituerà a consegnare all'acquirente soltanto una nostra maschera». Torniamo da dove siamo partiti. «Diffidate da coloro che non riposano mai» diceva il cardinale Carlo Maria Martini. «Bisogna sapere oziare» traduce Torno. Gli antichi romani lo sapevano talmente bene da contrapporre, sullo stesso piano dei valori, l'otium al negotium, il tempo libero dedicato alla vita privata a quello incentrato sulle attività. 

«Il verbo “fare” non sempre reca con sé bene e felicità, anzi sovente - nella società odierna - trascina e ingigantisce i problemi. Esercitatevi a ricavare ogni giorno tempo, utile per debellare affanni e preoccupazioni, o per fare quello che vi pare. Come è possibile vivere senza noi stessi?». Sostiene Torno che «l'egoismo ben temperato» non è altro che l'amor proprio, che poi semplicemente vuol dire trovare in noi stessi quella libertà che ci viene negata dalle circostanze e dagli impegni. «Non fuggire completamente nel nostro intimo, ma abituarsi a frequentarlo. Secedere, occorre secedere, pensare a degli spazi di prudente distanza (che diventa in molti casi l'unica difesa) che vanno attivati fra noi e il prossimo, tra noi e lo Stato, tra noi e il lavoro». Era la regola di Bartleby lo scrivano immortalato da Melville: «Preferirei di no».

(di Stenio Solinas)

Nel 2030 l’Asia dominerà il pianeta


Il dominio occidentale sul mondo è solo un ricordo. Il futuro, visto da un rapporto dell’intelligence americana, sistema l’Asia al centro del nostro universo. L’Italia, a sorpresa, riesce ancora a contare più di quanto pesi, ma è un vantaggio di posizione che siamo destinati a perdere.

L’economia cinese che sorpassa quella americana, e l’Asia che scavalca Europa e Nordamerica sommate assieme. L’ordine globale che dipende dall’alleanza tra Pechino e Washington, ma vacilla e mette a rischio la tenuta della globalizzazione, aprendola porta alle megalopoli che diventano attrici protagoniste sulla scena geopolitica internazionale. E poi la classe media in enorme espansione, che grazie alle nuove tecnologie accrescerà anche il potere diretto degli individui. La medicina in costante progresso, tanto che gli esseri umani saranno in grado di programmare e potenziare i loro corpi, cambiando pezzi come se fossimo dal meccanico.

Il National Intelligence Council, organo accademico legato alla comunità dei servizi americani, ci tiene a sottolineare che il suo rapporto «Global Trends 2030: Alternative Worlds» non ha l’ambizione di prevedere il futuro, «perché non è possibile». Però, sfogliando le 160 pagine appena pubblicate, che sono costate circa quattro anni di lavoro, si ha l’impressione di entrare davvero in un mondo alternativo, nonostante le analisi puntino solo a capire quali saranno le grandi tendenze globali tra diciotto anni.

Sul piano geopolitico, la novità fondamentale è già definita da tempo. La crescita in Cina frenerà e la popolazione attiva nel lavoro si stabilizzerà appena sotto il miliardo di persone, ma la Repubblica popolare scavalcherà comunque gli Usa come prima economia mondiale. Il vantaggio dell’America è che riuscirà a diventare indipendente sul piano energetico, e questo avrà un grande impatto politico perché diminuirà l’influenza del Medio Oriente, la Russia, il Venezuela. L’Europa continuerà il suo lento declino, provocato soprattutto dall’invecchiamento della popolazione, e in questo senso colpisce vedere l’Italia citata nel grafico a pagina 17, dove viene descritta come uno dei Paesi che al momento riescono ancora a contare sulla scena mondiale più del loro peso effettivo. Ma anche Germania, Francia e Gran Bretagna sono nella stessa condizione, e tutti perderemo terreno, se le nascite non smetteranno di calare. Politica e società dovrebbero abbracciare una nuova visione, un nuovo entusiasmo centrato sulla forza collettiva del nostro continente, per cambiare marcia. Sono tre gli scenari previsti per l’Europa: «Collapse», dove un’uscita disordinata della Grecia dall’euro provoca danni otto volte più gravi della crisi Lehman Brothers, e di fatto dissolve l’Unione; «Renaissaince», dove con un colpo di coda riusciamo davvero ad integrarci e avviare così un nuovo Rinascimento economico, politico e culturale; «Slow Decline», il più probabile galleggiamento verso il basso, pur conservando influenza.

L’Occidente comunque prederà la supremazia accumulata a partire dal ’700, e quindi il nostro tempo porterà un mutamento storico paragonabile a quello della Rivoluzione francese o la fine della Guerra Fredda. Alcuni Stati falliranno, con la classifica guidata da Somalia, Burundi e Yemen. Altri esploderanno ancora di più, tipo Brasile, India, Colombia, Indonesia, Nigeria, Sudafrica e Turchia. Il terrorismo islamico diminuirà, mentre gli sviluppi della Primavera araba apriranno le porte del potere ai governi a guida musulmana. I risultati continueranno ad essere contraddittori, come vediamo in questi giorni in Egitto, e l’esplosione di una guerra in Medio Oriente resta una delle minacce più gravi,soprattutto per le tensioni tra sunniti e sciiti. Però questi esperimenti, uniti al ridotto peso della regione sul piano energetico, potrebbero anche diminuire le tensioni.

Sul piano sociale, il fenomeno più significativo sarà la continua crescita della classe media. Questa tendenza, accompagnata dalla potenza delle nuove tecnologie, aumenterà sempre di più il potere degli individui. Gli Stati dovranno rassegnarsi ad un rapporto diverso con i loro cittadini, e in molti casi dovranno accettare di essere affiancati o soppiantati dalla società civile. Anche i progressi costanti della medicina daranno più forza agli individui, al punto che potremo programmare e migliorare i nostri corpi. Impianti di retina per potenziare la vista anche di notte, interventi neurologici per rafforzare memoria e velocità di pensiero. Ai computer, smartphone e tablet, si aggiungeranno veri e propri interfaccia tra cervello e macchine, in grado di accrescere le nostre capacità mentali oltre l’immaginabile, oltre l’umano. Affascinante e insieme pericoloso, questo nuovo mondo: ma come funzionerà?

L’intelligence Usa prevede quattro scenari. Il peggiore si chiama «Stalled Engines»: Europa e Usa si fermano, si ripiegano su loro stessi, e la globalizzazione va in stallo. Poi c’è «Gini-Out-of-the-Bottle», ossia un mondo destabilizzato dall’ineguaglianza economica, dove può succedere di tutto, ma sicuramente aumentano i conflitti tra i singoli Stati. Si vira verso un moderato ottimismo con lo scenario «Non state World», in cui il peso degli Stati nazionali precipita, ma al loro posto emergono nuovi protagonisti responsabili, come le megalopoli dove vivranno due terzi della popolazione mondiale, che assumeranno la leadership su temi di interesse comune tipo ambiente e sviluppo. L’ipotesi preferita dall’intelligence americana, però, è la quarta, chiamata «Fusion»: qui Pechino e Washington diventano alleate, e lavorano insieme per guidare il mondo verso un futuro stabile e felice.

domenica 9 dicembre 2012

Buttafuoco e la lite con Panorama


È il caso giornalistico e culturale del giorno. Caso che sfiora i piani alti della politica di area berlusconiana. Pietrangelo Buttafuoco, scrittore siciliano anticonformista assai, è in odore di licenziamento da Panorama per aver firmato sulla prima pagina di Repubblica con cui collabora dalla primavera scorsa «Il dizionario dei destrutti». 
Ovvero, da Alfano Angelino a Zanicchi Iva passando per Rai Radiotelevisione Italiana, uomini e luoghi della destra, distrutti dal ventennio berlusconiano. La collaborazione con il quotidiano «nemico» era autorizzata. Come lo era quella con Il Foglio «amico» di Giuliano Ferrara. Entrambi revocate dopo l'uscita dell'articolo incriminato. Il direttore di Panorama Giorgio Mulè ha dichiarato che Buttafuoco «ha tradito la mia fiducia». E su Twitter si è scatenato un putiferio, protagonisti lo stesso Mulè e Pigi Battista del Corriere della Sera.
 
Pietrangelo, te le vai a cercare?
 
«Francamente cado dalle nuvole. Avevo un accordo verbale e scritto con l'autorizzazione per una collaborazione saltuaria con Repubblica. E di collaborazione saltuaria si è trattato, senza che ci fossero mai stati problemi».
 
Ma com'è nata questa collaborazione con uno dei giornali più invisi a una buona fetta dei tuoi lettori di riferimento?
 
«Me l'hanno chiesto. A Repubblica interessavano il mio punto di vista e la mia scrittura. Certamente non sono di sinistra, ma non ho appartenenze. La mia identità è integra, non mi hanno chiesto nessun lavacro. È stato un riconoscimento alla mia scrittura: oltre ad Adriano Sofri c'era un altro che collaborava con Il Foglio e Repubblica. Il quale è il primo giornale d'Italia e ha la forza per contenere le differenze».
 
Remore?
 
«Non ne ho avute. Al di là del mestiere, è un giornale di cui mi nutro. Molti di quel mondo sono miei maestri».
 
Nomi.
 
«Da Eugenio Scalfari a Francesco Merlo allo stesso Michele Serra. Soprattutto ho sempre avuto attenzione per lo stile di Berselli. “I Destrutti” nasce nel solco dei “Sinistrati”».
 
E Mulè ti aveva autorizzato a collaborare.
 
«In modo quasi affettuoso».
 
Ma c'era quel vincolo a scrivere di cultura e di spettacoli o no?
 
«Questa degli spettacoli mi giunge nuova. Era chiaro che Repubblica mi chiamava in virtù della mia identità di scrittore. Il famoso pezzo incriminato era un esercizio di scrittura, un dizionario. Una formula giornalistica che avevo sempre utilizzato, per esempio sul Foglio».
 
Quindi cadi dalle nuvole.
 
«Ero in assoluta buona fede. Mi era venuta questa idea e l'ho realizzata. Oltretutto questo argomento l'avevo proposto anche a Panorama. Quando mi ha chiamato Malcom Pagani del Fatto riferendomi le dichiarazioni di Mulè mi sono sentito nell'obbligo di rispondere perché non sono mai venuto meno ad accordi verbali o scritti».

Non sarà una burocrazia giornalistica ad aver provocato il divieto a proseguire le collaborazioni.
 
«Constato una certa ostilità nei miei confronti. E mi dispiace perché a Mulè ho visto fare un'azione di altissimo profilo etico di cui conservo buona memoria».
 
Panorama è la testata di punta della Mondadori diretta da Marina Berlusconi. Mulè si sarà consultato?
 
«Non credo si sia fatto imbeccare da qualcuno. La controprova viene dal fatto che quella stessa mattina dai piani alti di Segrate mi hanno chiesto di realizzare il libro dal titolo “I Destrutti” in continuazione ideale con “Sinistrati” di Berselli, edito da Mondadori. E poi, oltre a parecchi colleghi di Panorama, anche molti politici di destra si sono detti entusiasti dell'articolo».
 
Non ti sentirai anche tu un martire al centro di un caso politico?
 
«Lo sta diventando. È strano che tutto questo sia capitato dopo quel pezzo e non dopo un articolo sul centrosinistra o sul festival di Sanremo. Ora sembra una rappresaglia. Invece...».
 
Invece?
 
«Anche un importantissimo collaboratore di Berlusconi peraltro citato non benevolmente si è complimentato».
 
Complimenti veri o di circostanza?
 
«No, è un uomo intelligente, ironico, un personaggio da romanzo».
 
Come finirà tutta questa faccenda?
 
«Male, stando alle dichiarazioni indiavolate di Mulè. Comunque, in fondo c'è una cosa bella».
 
E sarebbe?
 
«Che ne stiamo parlando sul giornale che fu di Montanelli».
 
Il quale poi però finì alle feste dell'Unità.
 
«Se è per questo io andrò a tenere una lezione a Eataly di Oscar Farinetti».
 
Allora è un vizio quello di cascare a sinistra.
 
«Te l'ho detto, non ho appartenenze. Come mi dice sempre Michele Serra, lo scrittore di destra è doppiamente sfortunato. Sai perché? Perché quelli di sinistra non lo leggono perché è di destra. E quelli di destra non leggono».

(fonte: www.ilgiornale.it

domenica 2 dicembre 2012

La sacralità della redazione: così cade anche l'ultimo tabù


Dura lex sed lex diranno i feticisti del diritto, quelli che, come spiegò una volta l'onorevole e poi presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, la toga di magistrato ce l'avevano cucita nel petto. 

E dunque, se si deve arrestare il direttore di un quotidiano si va in sede, si sale nel suo ufficio e lo si porta via. Che volete che sia. Se in ottemperanza alla legge si preleva a forza un bambino all'uscita di una scuola, non si potrà portare via un uomo grande dall'interno di un giornale? Sì, certo, c'è la sacralità della libertà di stampa, la salvaguardia del quarto potere, il giornalismo cane da guardia delle istituzioni, la lettura dei giornali come preghiera kantiana e mattutina dell'uomo laico, la tutela delle fonti e insomma tutto l'armamentario della libertà d'opinione e dello Stato di diritto, ma, appunto, dura lex sed lex. Detto nell'anno di grazia 2012, e visto il pasticcio politico-giuridico che ruota intorno al caso Sallusti, questo principio del Digesto sembra più, con rispetto parlando, una battuta di Totò.

Gli inventori del diritto romano sapevano benissimo che Summus ius summa iniuria, e non c'è bisogno di sapere il latino per capire di che cosa stiamo parlando. Nel tentativo di uscire dall'impasse, si violano le norme più elementari del vivere civile, della dignità professionale, del buon senso. Fino a ieri, quando si perquisivano le abitazioni dei giornalisti e si mettevano sotto sequestro i loro strumenti di lavoro, era tutto un gridare indignati all'attentato contro le libertà costituzionali, oggi si salgono le scale del Giornale in via Negri 4, si porta via, elegantemente blindato, senza manette, ma sotto scorta, il suo direttore e davvero non è successo nulla, davvero ci vogliono far credere che non si poteva fare altrimenti, meglio, non si doveva fare altrimenti? Ma davvero pensano i politici e i responsabili dell'ordinamento giudiziario che ci beviamo la favola del rispetto della legge? Favola, va da sé, che proviene da due caste braminiche che tutto sono tranne che eguali al semplice cittadino quanto a privilegi e guarentigie.

Diceva Thoreau che «sotto un governo che imprigiona ingiustamente, il vero posto per un uomo giusto è la prigione». L'essenza della vicenda Sallusti è tutta qui, ma siccome è talmente evidente, per l'uomo della strada, che andare in galera per omesso controllo di un articolo, è un non senso giuridico ed etico, si sarebbe preferito che Sallusti avesse acconsentito all'«aiutino», tanto la nostra classe politico-giudiziaria assomiglia ormai a un gioco a quiz corredato di pacchi regalo: grazie al jolly, pescato da noi, ti diamo i domiciliari, non sei contento? Così si dà anche il destro a molti servi di scena e di redazione di ironizzare, di fare la morale con il piglio dell'uomo di mondo, gli stessi che pur di far rimettere una querela darebbero in cambio la madre.
La fine di un regime politico la si vede anche da questo, dall'incapacità di misurare le azioni e le conseguenze, dal delirio cieco con cui si ignorano le più elementari regole del fair play, il gioco pulito, il tener conto delle storie, delle persone, di ciò che esse, nel grande come nel piccolo, rappresentano. La fine di un regime politico la si vede quando è incapace di legiferare, fare luce, evitare i fraintendimenti. Niente è più attuale rispetto all'attuale politica italiana del vecchio Tacito degli Annali: Corruptissima repubblica plurimae leges, quando lo Stato è corrottissimo le leggi sono moltissime. Sallusti si è sempre limitato a chiederne una: se sono colpevole vado in galera. Punto, tutto il resto è corruzione.

Per anni, quelli che adesso fanno i giustizialisti col botto si deliziavano con una frase di Gaetano Salvemini: «Se mi accusano di aver stuprato la statua della Madonnina del Duomo, per prima cosa fuggo all'estero». Ma, si sa, Salvemini era un sincero democratico e un vero antifascista. Qui invece c'è un Sallusti pericoloso criminale che non vuole sconti ma, guarda un po', la certezza del diritto. Pur di togliersi un peso, imponendogli quei domiciliari con cui pensano di salvare la capra giudiziaria e il cavolo della politica siamo certi che sarebbero andati a prenderlo persino dentro al Duomo di Milano, perché la sacralità dei luoghi alla fine è un optional rispetto al braminismo delle caste.

Un grande giurista, Salvatore Satta, ha scritto che «il giudizio è una pena, è la sola vera pena. Il genio di Pascal ha fissato per sempre questa verità in un sublime pensiero: “Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme di giustizia, perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per sedizione ingiusta”». Il caso Sallusti è la dimostrazione di uno Stato che il giudizio non sa nemmeno cosa sia. 

(di Stenio Solinas)

Un'altra vita, il denaro, Massimo Fini