giovedì 5 novembre 2009

Amore e teste mozzate nel medioevo fantastico

Tutti sono in attesa, fra un anno, della prima delle due parti della pellicola che il regista spagnolo Guillermo del Toro, splendido specialista di film fantastici, sta girando basandosi su Lo Hobbit.
La popolarità di J.R.R. Tolkien non accenna a diminuire, i suoi fans si moltiplicano sempre più, ma quanti di essi si chiedono da dove il professore di Oxford attingesse le sue fantasie, che basi avesse la sua immaginazione, quali le radici della sua personale mitologia? Per capire meglio di che stoffa siano fatte le trame tolkieniane è imprescindibile ricordarsi cosa egli fosse: non un romanziere di professione, ma un docente di anglosassone, un linguista, un medievista, un mitologo. E da queste sue competenze traeva il materiale grezzo che poi, filtrato dalla propria sensibilità, sedimentato nel terriccio della propria mente (come diceva) si trasformava alla fine negli sfondi, nei personaggi e nelle storie esposte nelle sue opere. Non dunque mere fantasticherie quelle di Tolkien, ma Vera Fantasia dalle nobili ascendenze culturali.
Per capire bene quel che intendiamo dire sono utili, anzi indispensabili, i due inediti di Tolkien appena pubblicati: La leggenda di Sigurd e Gudrùn (Bompiani), di cui si è già parlato su queste pagine, e Sir Gawain e il Cavaliere Verde (Edizioni Mediterranee) in libreria da oggi. In essi si trovano le fonti della ispirazione alto e basso medievale della sua narrativa. Tutti, o quasi tutti, i suoi simbolismi provengono dalla storia, dalla letteratura e soprattutto dalla mitologia medievali.
Tolkien non soltanto studiò e insegnò queste materie, ma le amò, furono la passione di tutta la sua vita. Ecco spiegato il motivo per cui volle reinterpretare le saghe norrene, riscrivendole con sue modifiche e contributi ne La leggenda di Sigurd e Gudrùn, ed ecco perché volle riscrivere poeticamente in un inglese più comprensibile ai lettori del Novecento un poco noto ma straordinario poema cavalleresco del XIV secolo come Sir Gawain e il Cavaliere Verde di cui aveva preparato un’edizione critica del testo originale nel 1925. Il testo rimase inedito fino al 1975, anno in cui il figlio Christopher lo diede alle stampe insieme alle versioni di altri due poemetti altomedievali, anch’essi di autore anonimo (forse lo stesso per tutti e tre): Perla (un viaggio mistico nel Paradiso) e Sir Orfeo (una versione cavalleresca del mito greco), anch’essi inclusi nella edizione italiana, tutti splendidamente tradotti da Sebastiano Fusco.
Sir Gawain e il Cavaliere Verde racconta di una duplice sfida: quella del cavaliere misterioso tutto di color verde che in sella ad un cavallo anch’esso verde entra a Camelot e sfida i presenti a decapitarlo. Solo Gawain accetta e lo decapita: il Cavaliere Verde raccoglie la sua testa, monta in groppa e gli dà appuntamento fra un anno per restituirgli il colpo, secondo l’etica cavalleresca. Questa è la prima sfida, esteriore. La seconda è personale, perché Gawain messosi in viaggio dodici mesi dopo raggiunge un castello dove trova ospitalità: qui dovrà resistere alle lusinghe della bella signora, moglie del castellano, che invano tenta di circuirlo in maniera sempre più sfrontata. Gawain resiste e alla fine la dama gli consegnerà una sciarpa che lo renderà invulnerabile. È grazie ad essa che Gawain supererà la prova della decapitazione da parte del Cavaliere Verde, il quale alla fine si rivelerà essere un’altra persona. Quale qui non diremo.
Il poema è una miniera di simboli: dal cavaliere senza testa (che Tolkien definisce un troll) al suo colore: il verde, come spiega Franco Cardini nella postfazione al libro, ha molti sensi, dalla putrefazione/morte al rigoglio/vita, sino a quello della lussuria (il Green Man è infatti anche simbolo della fertilità).
Di tutto ciò Tolkien farà uso nei suoi romanzi, tenendo presente che la cavalleria da lui descritta è una cavalleria cristianizzata, ma anche che le prove cui viene sottoposto Gawain/Galvano possono essere interpretate sia alla luce di un’etica «pagana» che «cristiana».
(di Gianfranco de Turris)

mercoledì 4 novembre 2009

Con un miliardo di dollari la Cina si compra la Moldova

La notizia è passata inosservata. Quasi nessun giornale o tg l’ha data. Anche le testate economiche hanno sorvolato sul fatto che la Cina ha prestato alla Moldavia un miliardo di dollari (un ottavo del Pil del Paese), pagabili in 15 anni al tasso favorevolissimo del 3 per cento. I primi 5 anni a interesse zero. Praticamente Pechino ha “comprato” il Paese più povero d’Europa. Grazie alle sue ingenti risorse finanziarie, il colosso asiatico è riuscito così a inserirsi nel cuore del Vecchio continente, in un sottile e pericoloso gioco che rischia di scontentare non solo l’Unione europea e gli Stati Uniti (che contano sulla Moldavia non più comunista come una fedele pedina nell’area), ma anche “l’alleato” russo, da sempre potenza di riferimento in queste zone al confine fra Oriente e Occidente.

Nell’accordo con la Moldavia, Pechino si impegna a garantire il finanziamento di tutti i progetti infrastrutturali messi in cantiere dai moldavi ben oltre il miliardo già affidato. Il fido sarà canalizzato attraverso la COVEC, il colosso cinese delle costruzioni, specializzato in progetti di modernizzazione energetica, sistemi idrici e industrie ad alta tecnologia. E così oltre al contributo finanziario, la Cina si assicura gli enormi appalti necessari per modernizzare un Paese che oggi è ancora prevalentemente agricolo e che, al di fuori della capitale Chisinau, è attraversato da strade quasi integralmente sterrate. Un Paese quindi tutto da costruire.

La rivelazione

A rivelare i termini dell’accordo un diplomatico indiano, M.K. Bhadrakumar, che narra la vicenda del sorprendente finanziamento in un articolo apparso su “Asia Times”. S’intitola “La Cina inzuppa il dito nel Mar Nero”, anche se la Modavia non ha sbocco al mare. Tuttavia il confine a sud è lontano solo una manciata di chilometri dal Mar Nero. La Moldavia è collocata in una zona strategica: fa infatti da ponte fra l’Ucraina, Paese slavo, e la Romania, nazione latina integrata nell’Ue. I moldavi hanno vissuto per oltre 50 anni sotto il tallone sovietico. L’Urss ha fatto di tutto per slavizzare questo piccolo Paese di lingua romena, ma senza successo. Nel 1991, con il crollo del comunismo, gli eredi del vecchio regime hanno comunque tenuto le redini del potere fino al settembre scorso, quando per la prima volta un primo ministro non comunista, Vlad Filat, si è assunto la responsabilità di traghettare la Moldovia al di fuori delle secche postsovietiche. Ma non sarà facile. Filat infatti si trova ingabbiato in una situazione economica a dir poco disastrosa. Chisinau dipende per il 100% dal gas russo e, a causa dei metodi arretrati utilizzati in agricoltura, dipende dall’estero anche per parte del fabbisogno alimentare. Inoltre incastonata fra Moldavia e Ucraina c’è la delicata questione delle piccola repubblica secessionista della Transnistria, dove i russi mantengono basi militari e un controllo totale. In questo contesto l’entrata in scena della Cina complica ancora di più le cose.

L’unico giornalista italiano a riprendere la notizia del megaprestito cinese è stato Maurizio Blondet, nel suo sito Effedieffe.com. Giornalista controverso, ma attento alle novità sul fronte della geopolitica, Blondet sostiene che la mossa di Pechino è stata concordata con Mosca. Il fine sarebbe quello di allontanare il Paese dalla morsa della Nato, che già punta sull’annessione di Georgia e Ucraina. Tanto più che le prove di una “rivoluzione arancione” anticomunista, eventualmente teleguidata dall’estero, si erano avute nell’aprile scorso, quando dopo la vittoria elettorale dei comunisti, una folla di giovani ha assaltato il parlamento. Poi nel luglio scorso nuove elezioni avevano decretato un relativo successo dei partiti liberali e nazionali, portando all’attuale governo di coalizione guidato da Filat.

Situazione difficile

Ma la situazione è più complessa di quella descritta da Blondet. Non è affatto detto infatti che la Cina abbia deciso di investire in Moldavia in accordo con il Cremlino. I rapporti fra Pechino e Mosca infatti, nonostante i sorrisi di facciata, non sono così idilliaci. Ad esempio, dopo mesi trattative non si è ancora giunti ad un accordo sul prezzo delle forniture di gas che la Russia dovrebbe fornire alla Cina. I mandarini di Pechino negli ultimi tempi hanno ottimi rapporti con gli Stati Uniti. Al contrario, i segnali che la Russia manda a Washington sono tutt’altro che rassicuranti e da più parti si parla di una nuova guerra fredda. La Moldavia, certo, è solo un piccolo tassello in questo grande gioco geopolitico. Ma è un tassello importante, da non sottovalutare.

(di Andrea Colombo)

Chiuso il «sogno imperiale» resta una crisi di identità

Un bilancio del primo anno della presidenza Obama deve necessariamente partire da qualche riflessione sulla presidenza di George W. Bush. Quando conquistò la Casa Bianca, nel novembre dell’anno scorso, Barack Obama ereditò i risultati politici e militari di quella che fu probabilmente la più ideologica fra le presidenze americane della seconda metà del Novecento.

Bush, il vice-presidente Dick Cheney e il corteo dei neo-conservatori che marciava con loro alla conquista del potere, non avevano soltanto un programma politico, ma anche una visione del mondo e soprattutto del modo in cui gli Stati Uniti lo avrebbero governato.

Cheney, in particolare, voleva rafforzare i poteri della presidenza a scapito del Congresso: una linea «bonapartista» che avrebbe permesso al monarca elettivo di svolgere con la necessaria efficacia le sue funzioni imperiali. I neoconservatori volevano «normalizzare» il Medio Oriente, da Bagdad a Teheran.

Gli strateghi della geopolitica volevano trattare la Russia e, se possibile, la Cina alla stregua di potenziali rivali da contenere e accerchiare con un anello di Stati vassalli e basi militari. I teorici del libero mercato, le banche e le grandi industrie volevano allentare ulteriormente le briglia sul collo della grande finanza e rompere i laccioli ambientalisti che Clinton, con qualche ambiguità e reticenza, era pronto ad accettare. E gli evangelici, infine, volevano un’America moralmente sana, purgata dell’aborto e delle esecrande ricerche sulle cellule staminali, pronta ad accogliere trionfalmente la seconda venuta del Cristo.

Gli attentati dell’11 settembre fornirono argomenti, giustificazioni, alibi e dettero un colpo di acceleratore alla svolta imperiale della politica estera americana. La guerra afgana fu il prologo e quella irachena il primo atto di un dramma in cui l’azione, nel copione preparato dai registi, si sarebbe spostata successivamente a Teheran, Damasco, Pyongyang. Beninteso tutti gli altri, dalla Russia all’Arabia Saudita, da Parigi a Berlino, avrebbero capito la lezione.

I risultati furono alquanto inferiori alle aspettative: la guerra civile in Iraq, la sostanziale secessione del Kurdistan iracheno, il progressivo distacco della Turchia dal suo maggiore alleato, il decollo del programma nucleare iraniano, l’aumento dell’influenza iraniana nella regione, la riconquista talebana dell’Aghanistan, la destabilizzazione del Pakistan, la crisi dei rapporti con la Russia, le fiammate di nazionalismo religioso in Palestina e in Libano, la nascita di un fronte anti-yankee in America Latina e, da ultimo, una crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia nazionale.

Ho elencato così i problemi e le aree di crisi in cui il nuovo presidente è immediatamente intervenuto, dopo la sua elezione, per modificare o correggere le politiche del predecessore. Gli effetti non sono, per il momento, incoraggianti. Gli americani abbandoneranno l’Iraq, ma resteranno verosimilmente in alcune basi e dovranno vivere con un regime traballante, continuamente insidiato da una strisciante guerra civile. In Afghanistan Obama è nelle stesse condizioni in cui fu il presidente Lyndon Johnson nel 1966 quando i soldati americani in Vietnam erano 200.000 e il generale Westmoreland chiedeva rinforzi: un ricordo che domina come un incubo le sue riflessioni. In Pakistan, dove il governo ha risposto alle sollecitazioni della Casa Bianca cercando di sloggiare i talebani dalle suo regioni occidentali, è scoppiata una ennesima guerra asimmetrica. Le truppe vincono bombardando il proprio Paese, ma i talebani colpiscono con i loro attentati le retrovie urbane delle forze combattenti. In Palestina la macchina dei negoziati di pace è continuamente inceppata dal rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti coloniali nei territori occupati.

Ma esistono anche segnali meno negativi. Nel momento in cui Obama ha deciso di rinunciare alla costruzione di basi anti-missilistiche in Polonia e nella Repubblica Ceca, i rapporti con la Russia sono nettamente migliorati. A giudicare dalla maggiore sobrietà con cui gli Stati Uniti amministrano i loro rapporti con l’Ucraina e la Georgia, Obama non vuole accerchiare la Russia e spera piuttosto di servirsi della sua collaborazione per affrontare i problemi delle aree più difficili del grande Medio Oriente: Afghanistan, Iran, Asia Centrale.

I negoziati con l’Iran sono difficili, ma sono finalmente cominciati, e non è poco. Il clima delle relazioni con l’America Latina non è più quello degli anni in cui l’intero subcontinente respingeva sdegnosamente a Punta del Este i progetti economici pan-americani del presidente Bush. Oggi i rapporti con Cuba e con il Venezuela dipendono da Hugo Chávez e da Raúl Castro più di quanto dipendano dalla buona volontà di Washington. Se il caudillo venezuelano e il fratello del lider maximo lo volessero, il disgelo sarebbe possibile. E con la Cina infine le relazioni, per il momento, sono quasi idilliache. Il Grande Debitore e il Grande Creditore sanno di essere legati da un patto di mutua convenienza e che ogni gesto ostile dell’uno contro l’altro avrebbe un effetto boomerang.

Ma i nemici di Obama non sono soltanto al di fuori dei confini americani. Sono anche fortemente presenti e organizzati all’interno del Paese. Ce ne siamo accorti anzitutto quando il presidente ha chiesto al Congresso la grande riforma sanitaria che aveva promesso agli elettori durante la campagna elettorale per dare una copertura ai circa 45 milioni di americani che ne sono privi. Sapevamo che si sarebbe scontrato con la lobby delle industrie farmaceutiche e della compagnie di assicurazione. Non immaginavamo che i suoi avversari sarebbero riusciti a fare leva sulle fobie antisocialiste dell’America per mobilitare contro la riforma persino il popolo minuto della classe media, vale a dire coloro che sono maggiormente vittime ogni giorno delle lacune del sistema.

Dietro questa offensiva si nasconde probabilmente un dissenso più profondo sul concetto che gli Stati Uniti dovrebbero avere del loro ruolo nel mondo o, nel linguaggio preferito al di là dell’Atlantico, della loro missione. La presidenza Bush ha rappresentato l’«America imperiale», insofferente di vincoli e trattati. E i suoi maggiori esponenti, fra cui l’ex vice-presidente Dick Cheney, vedono nel giovane presidente nero una intollerabile minaccia al «destino manifesto» della grande nazione. Forse dovremo giungere alla conclusione che la vera crisi dell’America, in questo momento, non è economico-finanziaria ma identitaria. Il Paese deve decidere che cosa sarà e farà nel secolo da poco cominciato e il futuro sognato da Obama è radicalmente diverso da quello di Cheney e dei suoi partigiani.

La crisi della maggiore potenza mondiale e il modo in cui verrà risolta non possono non avere grandi ricadute sulla intera situazione mondiale. E’ questo il momento in cui l’Europa dovrebbe avere le sue idee, i suoi disegni, le sue proposte. Legato dai lacci degli euroscettici e tenuto a bada dai lillipuziani del presidente ceco Vaclav Klaus, il Gulliver europeo è stato fino a ieri muto e impotente. Domani, dopo la scelta del suo presidente e del suo ministro degli Esteri, dovrebbe essere in grado di fare sentire la propria voce. Ci piacerebbe ascoltarla.

(di Sergio Romano)

Dies Victoriae

Un politico arci-italiano nei meriti e negli errori

Che non si debba aspettare oggi per collocare Bettino Craxi (assieme a chi? Ovvio, Benito Mussolini e Silvio Berlusconi) nella casella dei leader a più alto tasso di italianità del Novecento, va da sé. Ma come spesso accade nel Monopoli della politica italiana, quando ancora il fuoco delle passioni non s’è spento, si corre il rischio di passare dall’esecrazione alla beatificazione, da Vicolo Corto a Piazzale della Vittoria, senza passare per il “via”.

E la figura di Craxi, socialista e modernizzatore, garibaldino e proudhoniano, patriota a modo suo e partitocratico alla moda della prima Repubblica, non sfugge. Craxi è stato il bersaglio di tante monetine piovute sulla storiaccia di Tangentopoli: quelle scagliate all’uscita del Raphael e quelle della dannazione in vita. Oggi, sarà perché la sinistra italiana soffre di una complessa anoressia di leadership e l’Italia nel suo complesso sta sviluppando un singolare vagito di nostalgia per la prima Repubblica, è giunto il momento della canonizzazione. Craxi santo della politica? Di certo questo leader politico, che quando spuntò a capo del Psi alla fine degli anni Settanta nessuno avrebbe scommesso più di un soldo bucato sulle sue capacità, accumula meriti e demeriti come possono fare solo i leader di peso.

La modernizzazione della sinistra

Il merito principale di Craxi, e della giovane banda di politici e intellettuali che ha fatto da contrappunto alla sua vita politica negli anni Ottanta, è stato quello di imprimere alla sinistra non comunista italiana un percorso di velocissima modernizzazione, ponendo il suo Psi in prima fila nell’interpretazione - secondo la formula stranota dei “meriti e bisogni” - di ciò che si andava muovendo in Italia, la cetomedizzazione, la laicizzazione dei costumi e l’esplosione dei consumi, il tramonto della visione classista della società, la necessità di riformare le istituzioni della politica e quelle dell’economia. Craxi è stato il primo che ha assestato un colpo duro agli equilibri congelati dalla politica italiana all’ombra della Costituzione, ha coltivato il sogno presidenzialista e ha ridato lustro al sentimento patriottico nella versione del “socialismo tricolore” che tanto piacque a un intellettuale come Giano Accame e che portò il segretario socialista a un’apertura di credito verso i postfascisti del Msi almirantiano.

Lottò come un leone contro il Pci, lo sconfisse nella battaglia epocale contro la scala mobile, ingaggiò un corpo a corpo con la Dc di Ciriaco De Mita, intuì le potenzialità della televisione commerciale nelle forme berlusconiane ma, arrivato al dunque, quando avrebbe dovuto portare all’incasso la vittoria ideologica sui comunisti, crollati assieme al muro di Berlino, e sui democristiani, ossificati nella palude del governiamo, fu sconfitto. Non dai giudici manettari, come è facile pensare, ma dai suoi stessi errori. Dall’incapacità e impossibilità di correggere la degenerazione di un sistema dei partiti che, nella ricerca furiosa delle risorse del potere, aveva perso ogni controllo, infilandosi in una deriva non più emendabile di corruzione generalizzata ed esplosione del debito pubblico. E anche in questo alternarsi di grandi visioni e grandi abissi sta l’italianissima leadership di Craxi.

(di Angelo Mellone)

lunedì 2 novembre 2009

Mr Tiscali si finge ambientalista ma ha cementificato la Sardegna

Lo scorso 17 ottobre Repubblica denunciava: «Sardegna, torna il cemento sulle coste. Il consiglio regionale annulla i vincoli: si potrà edificare a meno di 300 metri dal mare». La norma contestata prevede la possibilità d’ampliamento fino al 10% delle case nella fascia dei 300 metri dal mare, ma solo per interventi che migliorino la qualità architettonica e applichino le norme sul risparmio energetico. Due giorni dopo La Nuova Sardegna, del gruppo l’Espresso, faceva da megafono a un indignato Renato Soru. In prima pagina: «Soru: costruiranno ovunque». A pagina tre: «L’ira di Soru contro il cemento: con questa legge dimenticatevi le spiagge più belle dell’isola». Insomma, lui, Mr. Tiscali, strenuo difensore del bello e dell’ambiente incontaminato; l’altro, Ugo Cappellacci, super tifoso di gru e cazzuole. Ma è proprio così? No.
Si dà il caso che la giunta Soru, al governo della Regione dal 2004 al 2008, abbia dato il nulla osta a tonnellate di cemento, gran parte in riva al mare. Ma come? Non è stato l’Obama di Sanluri, nel 2006, a far approvare il celebre Piano paesaggistico regionale (Ppr), testo che impone precisi vincoli allo sviluppo edilizio dell’isola, finalizzato a tutelarne la bellezza paesaggistica e l’equilibrio ambientale? Vero. Ma è vero anche che, attraverso lo strumento delle «intese» o degli «accordi di programma», lo stesso Soru abbia riempito di benzina i serbatoi delle ruspe. Prego si scavi, quindi, per tirar su una quantità di metri cubi di molto superiore a quelli che sarebbero stati approvati con le vecchie leggi. Qualcuno ha fatto il calcolo: 1 milione e 300mila metri cubi di cemento spalmato qua e là. Sotto i riflettori, moltissime «intese-lasciapassare». Vediamone alcune.
Vicino a Sanluri, nel comune di Collinas, il governatore ambientalista ha dato il via libera al faraonico progetto turistico «Monte Concali»: 740 ville unifamiliari e bifamiliari con giardini e piscine private, due campi da golf di 18 buche, albergo a cinque stelle, beauty farm e impianti sportivi. Interessati 400 ettari di terreni agricoli per un investimento di 560 milioni di euro. Un mega piano fortemente voluto dalla multinazionale guidata dall’americano-irlandese Thomas Kane, a braccetto con il suo avvocato di fiducia, Paolo Fresco (ex presidente della Fiat), pronto a investirci del suo. Oppure: a Pula, vicino Cagliari, via libera a un progetto da 115 milioni di euro: 241 ville principesche pensate dall’architetto miliardar-proletario Massimiliano Fuksas, due resort con tanto di campo da golf disegnato dall’ex campione Gary Player, piscine, ristoranti, centro commerciale, centro benessere. Chi c’è dietro il progetto? La Is Molas spa, controllata dalla Immsi spa di Roberto Colaninno, papà di Matteo, ex ministro ombra del Pd per lo Sviluppo economico. Qui la giunta Soru ha pure stabilito che ville e hotel possono essere costruite senza valutazione d’impatto ambientale.
Proprio per questo motivo il progetto è ancora fermo a Bruxelles, dopo che alla fine della scorsa primavera l’Ue aveva addirittura aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia: il paradiso può attendere, quindi. Inoltre, a Tortolì, nulla osta al progetto Janas: su una superficie di 160mila metri quadrati, sorgeranno 182mila metri cubi di cemento per 1.697 posti letto di case vacanze, oltre a un centro artigianale. Costo: 100milioni di euro per un’operazione gestita dalla società Bilancia srl che fa capo al «re del mattone sardo» Giorgio Mazzella, presidente della nuova Banca di credito sardo, piccolo istituto che fa parte del gruppo Intesa San Paolo.
Non solo: nell’arcipelago de La Maddalena, isola di Caprera, i mattoni a un passo dal mare vanno benissimo. Qui, grazie a undici «intese» soriane, le capanne in legno col tetto di paglia stile Polinesia potranno addirittura tramutarsi in bungalow di cemento. A trarne vantaggio il Club Méditerranée, chiuso da anni proprio perché non riusciva ad ottenere l’autorizzazione per costruire un villaggio nuovo. Grazie alla giunta Soru l’ok è arrivato e le casupole potranno essere sostituite da costruzioni in muratura: nuovi volumi per 40mila metri cubi, pari a un incremento del 28 per cento. Per il colosso francese del turismo guidato da Henry Giscard D’Estaing, un investimento di oltre 40 milioni di euro per tirar su un albergo a cinque stelle lusso per oltre seicento posti letto. Il Piano urbanistico comunale (Puc) prevede l’inedificabilità sull’isola di Caprera? Non importa: grazie allo strumento dell’«intesa» il Puc può essere modificato e adattarsi così al volere della Regione.
Contro le ruspe a La Maddalena, tuttavia, ora s’è messa di traverso una nonnina: la 84enne Francesca Maria Piras, madre del consigliere comunale Antonio Ornano e proprietaria di un campeggio. La quale, siccome i termini per presentare ricorso al Tar contro le intese erano scaduti, ha persino scritto al capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nella sua denuncia c’è scritto: «Essendo tutti i progetti in contrasto con lo strumento urbanistico comunale de La Maddalena, lo strumento dell’intesa ha previsto che, pur di renderli ammissibili, si modificasse il Puc. Quindi, anziché adattare i progetti al Puc, si è voluto piegare lo stesso strumento urbanistico alle esigenze commerciali dei privati». Risultato: tutto fermo. Il Comitato tecnico regionale sull’urbanistica (Ctru), che avrebbe dovuto dare il via libera definitivo, ha infatti deciso di aspettare sia sul progetto Club Med che su tutti gli altri. Già, perché non è finita qui.
Nell’arcipelago, Soru ha dato il via libera anche per i seguenti cantieri. Isola di Santo Stefano: albergo di lusso con 120 camere per un totale di 200 posti letto a Cala di Vela Marina, 33mila metri cubi di costruzioni, più un porticciolo turistico con novanta posti barca per il progetto della famiglia dell’ex sindaco di La Maddalena, Pasqualino Serra. Abbatoggia: nel progetto del Touring Club, un albergo quattro stelle superiore con 185 camere e venti villini per quasi 500 posti letto. Villaggio Seis: rilevato anni fa dalla Immobiliare Lombarda spa di Salvatore Ligresti dal colosso Impregilo, si tratta di 134 villette per un totale di 60mila metri cubi. Hotel Cala Lunga: riqualificazione di un albergo di 74 stanze, costruzione di un porticciolo a Porto Massimo per il progetto di Sviluppo Vacanze spa, controllata dall’imprenditore Davide Cincotti. Hotel Nido d’Aquila: «quattro stelle» da ottanta posti letto che, dopo i lavori di riqualificazione, dovrebbe offrirne 118. Hotel delle Isole: oggi ha 12 camere, ne potrà avere 31 con 63 posti letto. Compendio Mordini: nell’ex quartier generale della Us Navy, dovrebbe sorgere una struttura di lusso di quasi 35mila metri cubi con 127 camere per dar da dormire a 250 persone. Cala Francese: ristrutturazione di un borgo minerario con la creazione di un centro di ristoro per i diportisti. Insomma, cemento, cemento, cemento.
(di Francesco Cramer)

La morte vista con gli occhi dei bimbi

Com’è la morte vista con gli occhi di un bambino? Del video sul delitto di camorra mi è rimasta impressa la curiosità del bambino in braccio a suo padre davanti al corpo ucciso. Era l’unico che guardava quel corpo in terra. Era forse l’unica traccia di umanità in quel filmato. Mi sono messo nei suoi occhi e ho provato a ricordare cosa fosse la morte con gli occhi estranei di un bambino, quando non c’era la morte pagliaccia di Halloween.
Tra le crudeltà del mondo passato ce n’era una più crudele di tutte: mandare i bambini dell’orfanotrofio ad accompagnare i morti ai funerali sontuosi. Assegnavano quei bambini in sorte alla morte, quasi che la perdita precoce dei genitori non fosse un dolore da alleviare ma una specie d’iscrizione in tenera età al circolo funebre e ai loro macabri rituali. Avevano perduto pure l’elementare diritto di bambini a spaventarsi della morte. Che sadismo costringerli a seguire feretri di sconosciuti e pregare per loro in virtù d’un vampirismo religioso; la convinzione magica che la preghiera di anime innocenti, pur forzata e svogliata, giovasse in modo speciale all’anima del morto privilegiato. Un’ingiustizia di classe più atroce di ogni sfruttamento minorile. I bambini poveri avevano almeno una madre, un padre e il calore di una casa, si perdevano tante cose concesse ai benestanti, ma le essenziali no; tutto poi è prezioso nella povertà, il rozzo giocattolo costruito con le proprie mani, il pane e pomodoro, le scarpe del fratello grande passate al piccolo. L’orfano viveva la stessa povertà, però privato di una famiglia e di una casa, e costretto ad una precoce dimestichezza con la morte, nel nome di quella tragica familiarità che gli aveva assegnato la sorte. La pietas verso il morto si nutriva di crudeltà verso quei bambini. Ma ingiusta era pure verso i morti poveri che non potevano permettersi il biglietto per il paradiso, con messe solenni in suffragio e preghiere corali d’infanzia.
Da bambino fui educato a rimuovere la morte, i suoi segni e i suoi riti. I bambini non vanno ai funerali, stanno lontani dalla morte. Sicché vedevo i morti e i loro congiunti come un’etnia distinta da noi vivi; consideravo i neri segni del lutto come l’appartenenza ad un’altra razza, di coloro che nascono con la morte impressa e sono suoi familiari. Nelle preghiere della sera, all’Ave Maria omettevo perfino adesso e nell’ora della nostra morte amen, sostituendo con ora e sempre, amen. Tra le prime esperienze indirette della morte ricordo un 30 agosto di tanti anni fa, la morte della madre di un amico che abitava al piano sotto il nostro. Ricordo quel pomeriggio con la salma in linea d’aria a tre metri da me, sotto la stanza in cui ero disteso a letto alla controra; non riuscivo a giocare, la realtà risucchiava l’immaginazione, vivevo un raccolto e muto orrore guardando il pavimento: mi dicevo, se fosse di vetro, se ci fosse una botola o una feritoia, mi troverei nella stanza della morta. Temevo le mosche come messaggere e reduci di quella dolorosa vicinanza, perché immaginavo che si fossero posate sul corpo della morta o sui volti tumefatti di lacrime dei suoi famigliari. Quella fisica prossimità con la morte mi sgomentava, come l’irruzione di un mistero tremendo tra le pareti domestiche, sotto il pavimento. Camminavo sopra la morte, fingendo noncuranza solo grazie a pochi centimetri d’ipocrisia fatta di cemento e mattoni. Fu un giorno doloroso, fino a che sentii scendere tra le scale la bara, intrasentii qualche pianto e intravidi il carro funebre sotto il portone di casa mia; un portone listato, con un panno funebre di quelli che vedevo nelle case dei morti, ed un tavolino per raccogliere firme di cui non capivo il senso, come l’affiliazione alla confraternita del dolore. Capii di averla scampata, provvisoriamente fortunato ad avere i genitori in vita, ma non esente dalla mortalità; capii che non c’erano due razze diverse d’uomini, quelli del lutto e quelli della vita, ma la cosa a turno ci riguarda tutti.
Poco dopo varcai per la prima volta con la mia classe il cimitero, dove incontrai un compagno di scuola che aveva perso sua madre e faceva quasi gli onori di casa. Lopolito Pasquale mi parve un bambino diventato d’un colpo adulto; portava le cicatrici del dolore nello sguardo e aveva una dimestichezza con i loculi, scherzava con le tombe e faceva un gioco macabro: avvicinava i suoi occhi ai tuoi fino al toccarsi delle fronti e ai due lati faceva buio con le mani: così, diceva, ti faccio conoscere la Morte. Alla luce del sole, io cercavo di trovare nelle sue pupille tracce del suo mistero doloroso, come se avesse una retina estroversa in cui si fossero impresse le immagini del suo lutto. Da un verso lo consideravo un segnato, un contaminato, quasi un «maledetto» dalla sorte; ma dall’altro lo invidiavo, perché aveva attraversato il tunnel della morte, era vaccinato, aveva superato la prova e il guado, come in una precoce prova iniziatica. In quella visita collettiva mi tenni lontano dal gentilizio di famiglia, quasi a rimarcare la mia estraneità alla città dolente, come la chiamava dantescamente mia madre.
Non avevo avuto esperienza famigliare della morte, i miei nonni erano morti prima della mia nascita. Quando uscii dal camposanto avvertii la dolce carezza della vita, amai il viavai, i traffici e i negozi, i rumori e perfino le sguaiate frasi dei ragazzi di strada; andai a giocare al pallone, divorai le castagne arrostite e fui felice di sentire a casa il consueto intreccio di voci, piatti e posate, e quell’animazione di una tavola composta da due genitori quattro fratelli e due zie vacantine. Un bambino smette di giocare quando capisce che la morte riguarda tutti, lui compreso. La morte fa diventare adulti e avvicina vecchi e bambini, come quando s’incrociano allo spettacolo i primi entranti e gli ultimi uscenti. Perché la morte, oltre che solitaria, è anche teatrale, come sanno le grandi civiltà che inscenarono cerimonie di morte. E a teatro riduce infine la vita, come sanno le grandi e le infime filosofie. Ma nei paesi in preda alla camorra la morte è solo la carcassa di uno scarafaggio che un attimo prima aveva sembianze e movenze umane.
(di Marcello Veneziani)

domenica 1 novembre 2009

Aborto

Dedicato a tutte le mamme coraggio!