martedì 9 marzo 2010

Il Tar di Roma ha messo a nudo il vero pasticcio tra Fi e An


La decisione del Tar del Lazio di bocciare il ricorso del Pdl apre una nuova settimana di tensione politica legata alle ultime fasi del cosiddetto “caos liste”. Scampato il pericolo per i listini dei candidati Formigoni e Polverini, che potranno presentarsi alle elezioni regionali, il destino della lista Pdl di Roma e Provincia non è ancora chiaro. L’analisi politica di quello che sembra essere il momento più difficile del partito di Berlusconi, dalla sua fondazione a oggi, è però pienamente attuale. Se da un lato, alla vigilia di questo incredibile caso, circolavano diverse voci sui malumori del Presidente del Consiglio, tentato dall’ipotesi di “riazzerare il partito”, dall’altro, nei giorni più difficili e nei quali era importante serrare le fila, Gianfranco Fini non ha esitato a dichiarare: «Il Pdl, così com’è, non mi piace». Questi segnali di malessere - dice Marcello Veneziani - non sono però «il frutto di una “fusione fallita” tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, né lo scontro tra due nomenclature, ma qualcosa di più profondo».

Come esce il Pdl da questa vicenda?

Innanzitutto distinguerei tra il caso laziale e quello lombardo. Il “pasticcio” di Roma è dovuto a uno scollamento preoccupante del partito locale. Là dove la leadership spetterebbe agli ex An mancano dei soggetti in grado di organizzare il partito e le conseguenze sono evidenti. Diversa la situazione in Lombardia dove si avverte la presenza reticolare di un partito compiuto nel quale la presenza di Formigoni è un collante notevole. Qui il problema non è stato il dilettantismo o la disorganizzazione, ma la particolare attenzione che in questa occasione è stata riservata alla procedura di consegna delle liste. Difficile credere, come si è letto, a un presunto e improvviso crollo dell’attenzione da parte dei partiti, dopo anni di straordinaria precisione.

In che senso, secondo lei, le divisioni e i problemi del Pdl vanno al di là delle differenze tra Fi e An?

Di fatto la tensione tra i due partiti che hanno portato alla nascita del Pdl non è politica e sorpassa gli antichi steccati. Non si spiegherebbe infatti come mai c’è una componente della vecchia Alleanza Nazionale che oggi è molto più vicina a Berlusconi che a Fini. Il fatto è che non ci sono due visioni che si scontrano e che faticano a integrarsi. An, infatti, era già stata privata di una linea politica fin dagli ultimi tempi in cui la guidava Fini, mentre Forza Italia non ha un suo profilo politico culturale e si identifica pressoché totalmente nella monarchia berlusconiana. Le similitudini con il Pd non sono poi così poche.

Cosa intende?

I due grandi partiti che in questi anni si stanno contrapponendo sono due contenitori vuoti che vivono tensioni interne fortissime. Nel caso del Pdl questi problemi sono attutiti dalle vittorie e dal carisma del suo leader, ma entrambi devono guardarsi da partner molto motivati: Lega e Idv, che hanno una forza territoriale, o di piazza, notevoli.

Quali sarebbero allora i motivi di queste vittorie?

Il Pdl è costituito da due elementi fondamentali: un popolo di centrodestra sempre più omogeneo, in cui le differenze tra elettori di destra, liberali o cattolici sono sempre più sfumate, e un leader riconosciuto. Il problema sta nel mezzo: manca una classe politica omogenea, manca un disegno politico, un progetto culturale. Il populismo in pratica diventa una necessità, proprio perché non c’è una classe politica capace di portare avanti una sua linea e la democrazia interna è diretta e plebiscitaria.

Il fatto che Fini in questi mesi si sia ritagliato una posizione critica nei confronti del leader aiuta a creare dibattito e a formare un disegno politico oppure no?

È legittimo che il cofondatore del Pdl non viva all’ombra del leader e guadagni una posizione autonoma. Se però andiamo a leggerne i contenuti emerge subito tutta la sua fragilità. Da parte sua non c’è stata alcuna contrapposizione al fenomeno del berlusconismo, né il tentativo di rappresentare l’anima profonda del centrodestra. Con le sue posizioni si è invece collocato all’esterno del territorio elettorale e politico da cui proviene, guadagnando in visibilità mediatica, ma in scarsissima presa politica.

Ha rinunciato in pratica a essere un interlocutore per quel popolo di centrodestra di cui parlava prima?

Esattamente, ha reciso il legame con quella base sostenendo tesi laiciste o comunque lontane dalla storia e dall’identità della destra in Italia. Non si tratta però della cosiddetta “destra moderna”, alla Sarkozy, come si usa dire.

Cosa intende?

In estrema sintesi il programma di Sarkozy è basato sull’opposizione al pensiero francese figlio del ‘68. Fini ha invece parlato del ‘68 come della grande occasione mancata da parte della destra italiana. In questo modo finisce sempre più nella “terra di nessuno”.

Se questa è la sua fredda analisi dello stato di salute del Pdl, cosa si aspetta da queste elezioni? Il popolo del centrodestra a cui si riferiva prima potrebbe cedere alle sirene della Lega?

Gran parte del “popolo della libertà” è irriducibile alla Lega, ma c’è una cospicua area contigua al popolo leghista. Lo scoramento e la mancanza di riferimenti potrebbero portare a un travaso di voti, ma non sarà il “pasticcio” delle liste a spostarli. Verranno invece pagate le candidature sbagliate, come ad esempio in Puglia.

Da aprile in poi si aprirà l’ultima parte della legislatura, cosa ci si potrà aspettare da questo periodo libero, per tre anni, dagli appuntamenti elettorali?

Archiviate le regionali sarà il momento dei chiarimenti, senza dubbio, ma tutto dipenderà dal risultato. Una sconfitta del Pdl rinfrancherebbe i dissidenti, un buon risultato rafforzerebbe, ovviamente, il premier. I disegni post-berlusconiani sono comunque vivi, ma congelati fino al momento del ritiro dalla scena del Presidente del Consiglio.

Berlusconi sarà comunque in prima fila in questa campagna elettorale o sarà più defilato del solito, temendo un risultato deludente?

L’impressione è che la prudenza di Berlusconi nasconda il timore di risultati non eccezionali, anche se in questo momento sta contando di più la delusione per gli errori commessi e i conflitti con i dirigenti locali. Detto questo, ho l’impressione che la chiamata alle armi ci sarà comunque e il temperamento prevarrà, ancora una volta, sulla strategia.

lunedì 8 marzo 2010

Fini va via e il Pdl va in pezzi

È stato saggio il presidente della Repubblica nel firmare il decreto che riporta alla normalità la competizione delle regionali. Ha evitato una situazione pericolosa per il paese. Adesso Giorgio Napolitano dovrà osservare con cura le reazioni dell’opposizione. Sono molto irritate, perché pensavano di aver già vinto a tavolino in Lazio e in Lombardia. Antonio Di Pietro si distingue per la follia verbale: chiede la messa sotto accusa del presidente e ci chiama alle armi, però in modo democratico. Mi ricorda un dirigente comunista che, prima del 18 aprile 1948, strillava: «Faremo la rivoluzione, ma nell’ordine e nella legalità!».

È certo però che l’ultima fase della campagna risulterà molto avvelenata dagli errori marchiani del Pdl e dalla rissa sul decreto interpretativo. Ma a decidere saranno gli elettori, chiamati a votare in assoluta libertà. A vantaggio di chi? Nessuno può saperlo. Ci saranno italiani di centro-sinistra che non si asterranno, come avevano deciso di fare, e andranno a votare per protesta contro il decreto. E anche italiani di centro-destra che, per rabbia contro il pasticcio bestiale causato dagli incapaci della propria parte politica, rifiuteranno di recarsi al seggio.

Il tutto renderà ancora più incerto l’esito elettorale. C’è un solo leader che attenderà con indifferenza il risultato del voto. È Gianfranco Fini. Per lui la strada è già segnata: lasciare il Pdl nella fase successiva alle regionali e fondare un proprio movimento o un mini-partito. Il presidente della Camera non ha alternative. Se il Pdl vince, lui verrà mangiato vivo dal Cavaliere che gli farà pagare il conto di una guerriglia senza tregua. Se il Pdl perde, Fini sarà spinto comunque ad andarsene per non essere travolto dal crollo del partito fondato anche da lui.

Questo mi suggerisce l’osservazione distaccata di quel che vediamo in questa tormentata vigilia del voto. Il Cavaliere ha vinto il braccio di ferro per sistemare le crepe apertesi in Lombardia e nel Lazio. Ma l’intero edificio del Pdl sta comunque traballando. Il partito che doveva garantirgli ancora tre anni di governo tranquillo è profondamente mutato rispetto al marzo 2009, data della nascita. Di alcuni cambiamenti ho già scritto più volte sul Riformista: un leader sempre più anziano e debole, l’emergere improvviso delle correnti, l’esplosione di una giungla di clan locali e personali tanto rozzi e bellicosi da far rimpiangere le fazioni della vecchia Democrazia cristiana.

Oggi il crack burocratico delle liste in due regioni chiave ha messo in luce un ultimo dato allarmante. Il Pdl è peggio che un partito di plastica: è una costruzione quasi inesistente che, per di più, poggia sul vuoto. Mi rammenta un’azienda con un bel marchio, una pubblicità senza risparmio, molti possibili clienti, ma priva di tutto ciò che conta davvero. Ossia un prodotto convincente (il lavoro del governo), una squadra concorde di dirigenti, un complesso di funzionari e impiegati affidabili. Ecco il vuoto che mina la vita del Pdl.

Lo scrivo con rammarico, pur non essendo un elettore del centro-destra. Come cittadino di un’Italia già alle prese con troppi guai, mi auguravo che il vincitore delle ultime elezioni politiche fosse in grado di guidare al meglio la baracca nazionale. Qualche ministro, e cito per tutti Giulio Tremonti, si è dimostrato all’altezza del compito. Ma nel complesso il governo ha fatto flop. E temo che di qui al 2013, ammesso che il blocco guidato da Berlusconi riesca ad arrivarci indenne, le cose non potranno migliorare.

A questo punto, sarebbe bene per tutti che Fini varcasse il suo Rubicone e lasciasse il Pdl. Ha l’età giusta per farlo, 58 anni contro i 74 di Berlusconi. Possiede un plotone di parlamentari. Ha soldi a sufficienza per vivere fuori casa e non continuare a fare il bamboccione che si attarda a restare in famiglia. Del resto, come ci ha spiegato lui stesso, la famiglia di papà Silvio non gli piace più. La medesima solfa ce la ripetono ogni giorno i media finiani. Con una disinvoltura anche culturale che è piacevole leggere, ma alimenta un equivoco che rischia di diventare ridicolo.

Il Secolo d’Italia ci scodella di continuo una rivoluzione intellettuale conturbante. La nuova destra di Fini ha ormai un Pantheon zeppo di antenati che la storia dice attestati su altre sponde. Le ultime scoperte sono Mario Pannunzio, il fondatore del Mondo, ed Ennio Flaiano. Ma il catalogo è ben più ampio e un giorno bisognerà farlo. A dimostrazione che il revisionismo interessato non ha confini.

Ma sul giornale diretto da Flavia Perina si legge anche dell’altro. Giovedì 4 marzo mi ha colpito un editoriale di Enzo Raisi, parlamentare del Pdl e, credo, amministratore del quotidiano. È un manifesto schietto del finismo allo stato attuale. Ossia ancora nella fase di chi spera di rifondare il partito del Cavaliere. E per questo fa appello alle «intelligenze silenziose» del Pdl, perché «comincino a farsi sentire e a isolare l’estremismo dei cosiddetti falchi» provenienti da Forza Italia.

Questa linea mi sembra volutamente arretrata rispetto a quanto sta per accadere. Penso che, dopo le elezioni, Fini andrà via e il Pdl andrà in pezzi. Tanto che il Cavaliere dovrà per forza rimettere le mani dentro il partito. Per tentare un’altra delle rivoluzioni che, sino a oggi, gli sono riuscite. Avrà la forza di farlo? Gli auguro di sì. Anche Berlusconi dovrebbe aver capito che non si vive di solo leader. E un giorno, forse, dovrà ringraziare Fini per avergli aperto gli occhi.

(di Giampaolo Pansa)

Il vescovo fa politica, la Cei si dissocia


Alice nel paese delle meraviglie insegna che «è impossibile solo se pensi che lo sia». Alice nel paese dei balocchi insegna che è impossibile pensare alla Cei che si infila nelle strettoie delle polemiche sui decreti del governo, solo se pensi di vivere nella nazione che ha insegnato a dare a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio e per noi, laici ultramondani e competenti di Italia e non di anime, a Silvio ciò che è di Silvio. È troppo tempo che la Chiesa e le sue istituzioni secolari vengono strattonate e stropicciate alla bisogna quando una pezza in odor di spiritualità o solidarismo diventa necessaria per dare tono e costume alla propria azione politica. E così, forse sbagliando, ci siamo assuefatti al menar di danza per cui, ogni volta che la Chiesa parla di immigrazione, è il centrosinistra che la sfrutta a capocchia per criticare il governo, e ogni volta che la stessa Chiesa esterna sui temi etici è la volta della maggioranza che si intesta il catechismo a beneficio di supposte battaglie antilaiciste. Certo non si può negare ai vescovi italiani il diritto di dire la loro sui fatti della nazione che è luogo vivo della loro azione pastorale, basta fare il callo ai tentativi di strattonamento e manipolazione politica delle loro dichiarazioni, e si tampona il danno.

Ma una Cei occupata a criticare decreti in materia di norme elettorali, a nostra memoria, non la si è mai vista nemmeno ai tempi dei referendum del 1993, in piena crisi del sistema partitico italiano. Invece ieri è successo. Mentre le agenzie, tra un Vendola che sente puzza di fascismo e Di Pietro che bastona Napolitano, battevano che era una bellezza le frasi pronunciate a Radio Vaticana dal monsignore Domenico Mogavero, responsabile degli affari giuridici della Cei, ci siamo chiesti in tanti se il sinodo dei vescovi italiani si fosse improvvisamente trasformato in un centro di studi elettorali di orientamento grillista-metafisico. Mogavero prima ha statuito, come una Bonino qualsiasi, che «cambiare le regole del gioco mentre il gioco è in corso è un atto altamente scorretto», e poi non contento ha precisato, come un Bersani in trasferta a Mazara del Vallo, che abbiamo assistito a «un atteggiamento arrogante della maggioranza». Apriti cielo, a maggior ragione visto che parlava un uomo di Dio. Il popolo viola ha issato la croce, Di Pietro s'è fatto apostolo del vescovo antigovernativo, i residui cattolici del Pd hanno gonfiato il petto di commozione.

L'opposizione politica e massmediale, insomma, s'è gettata con la bava alla bocca su un ghiottone ghiottissimo, troppo ghiotto per essere vero. E infatti vero non era, se è vero – ma anche qui, parlando di verità al cospetto di uomini di Chiesa, dobbiamo fare attenzione – che subito dopo la Cei, quella vera, ha stoppato il vescovo esternatore affrettandosi a chiarire che «la Cei non ha espresso e non ritiene di dover esprimere valutazioni» sulle questioni di procedura elettorale (come se noi ci si mettesse a sindacare sulle procedure elettorali del Conclave, per dire). Questo piccolo infortunio, che avrà i suoi doverosi strascichi polemici, segnala che la Cei, questa Cei dell'era Bagnasco, quando la storiaccia dell'affare-Boffo non ha esaurito la sua coda di veleni, vive ancora in uno stato pasticciato di assestamento, ondeggiando tra i pronunciamenti di neutralità politica, le sbandate antigovernative e i residui del dominio di Camillo Ruini, che invece aveva giocato la carta dell'impegno politico-civile della Cei come strategia di sopravvivenza e protagonismo dei cattolici italiani.

E guarda un po', sono proprio gli arcinemici del ruinismo, proprio chi accusava Ruini di eccessiva ingerenza negli affari politici italiani, gli stessi che hanno provato a sfruttare senza pensarci due volte le frasi di un vescovo sul decreto salva-liste per farne polvere da sparo nei loro comunicati stampa. Come dire: se i vescovi parlano di fecondazione assistita, fanno ingerenza, se parlano di norme elettorali, no. Assurdità che danno alla Cei una buona ragione in più per evitare, in futuro, gli scivoloni stile Mogavero.

(di Angelo Mellone)

venerdì 5 marzo 2010

La destra è finita quando ha dimenticato che nel dubbio si mena


Ce ne voleva di buona volontà per schifare aule sorde e grigie in ogni dove. Tanta ce ne voleva per questa destra al governo. E invece ci ritroviamo adesso a piangerli tutti questi candidati del Pdl, stampati sui muri del Lazio, sospesi nell'angoscia di un verdetto che, ci auguriamo, possa essere negativo per avere almeno uno choc. E buonanotte se, alla fine della fiera, sono stati spesi tanti soldi per pagare la propaganda elettorale. Viste le note spese, chissà cosa dovevano combinare poi, una volta eletti, per rifarsi la posizione.

E buonanotte al partito di plastica e, se fosse lecito usare la metafora di quel grande, sarebbe stato magnifico se Ignazio La Russa, invece che quel Siamo pronti a tutto! - sminuzzato dopo in un eufemistico ragionamento intra-metafora come quel grande appunto, davanti a tanta ignominia, avesse infine gridato: Viva la muerte! . L'accusa rivolta al ministro essere, insomma, il solito è immacolata medaglia. Altro che. Ed è stato l'infinito distinguo a rovinare l'effetto dello scatto. Siam pronti a tutto , in fondo, è già scritto nell'inno di Mameli. Alla morte, per giunta. E ci vorrebbe proprio lo choc. Non vorrei fare la parte dell'eversivo, ha appunto dichiarato a denti stretti il ministro della Difesa ma si capisce che ce ne vorrebbe d'eversione in quest'Italia. E noi che lo adoriamo Ignazio, sappiamo bene quanto valga la lezione dell'Asso di Bastoni: Nel dubbio, si mena . Ma quest'Italia diciamolo pure se lo merita proprio di ridursi così. Con queste parti, è il caso di dirlo, invertite .

Un ribaltamento di ruoli assai imbarazzante. E, infatti: i Radicali hanno fatto un figurone. Da squadristi, nientemeno. E i destri, invece, ridotti al lumicino una spicciolata raccogliticcia, con musi lunghi e natiche fresche d'intramuscolo messi intorno a un palchetto in piazza Farnese, da sembrare loro i veri Radicali. Tanto sono pochi e tristi i seguaci di Renata Polverini. Tutti in fila davanti a un microfono. Per svegliare le coscienze alle urgenze della democrazia e della Costituzione invece che fare il dovere loro. Aule sorde e grigie in ogni dove. Con bivacchi di manipoli. Manca poco e cominciano lo sciopero della fame. E già li vediamo certi candidati, con quei colli taurini e i ceffi un tempo ebbri difendere le folle di piazza del Popolo, adesso pronti a far bibita della propria pipì. A Roma, ha detto il nostro Ignazio, i Radicali hanno commesso un atto di violenza .

E ce ne voleva di fantasia per immaginare questo colpo di scena perché dopo tutta una vita a celebrare l'eversione, una magnifica esistenza forte di un lessico piuttosto connotato, dare una regolata al pantano della democrazia era il minimo da fare, ma con rispetto parlando si finisce sempre a far commedia. I più vecchi ricorderanno con divertita commozione quella pellicola, Vogliamo i Colonnelli, solo che ci vorrebbero i colonnelli veri e non un Gianni Alemanno preoccupato solo di piazzare un proprio candidato. Solo un nodoso ramo ghibellino, infatti, potrebbe farsi largo tra la montante marea di zoccole, gossip, processi a Berlusconi e bugie varie. E, invece, ci si accontenta di far Wille zur Macht con Pino Insegno. Ma veramente questo è quanto l'Italia si merita di essere se tutti vanno contro natura: i Radicali che una volta se le cercavano le legnate, francescanamente s'intende, adesso fanno i prepotenti. E i destri, lettori di Sorel, si sono persi il Dna. E s'è persa la nazione: l'Italia è solo una mutanda rotta.

Questo è il fatto. E l'altro fatto è che non ci si può permettere il solito marcio lusso: quello d'imborghesirsi. Il fascio perché, di fasci si tratta sebbene redenti, deve stare sempre in trincea. Deve territorializzare il campo di battaglia. Deve mostrare muso duro, deve ri-territorializzare anzi, non deve consentire ai grandi numeri arrivati col consenso di fare tana libera tutti. Insomma, si sapeva e non si sapeva che poteva finire così. Specie che nessuno pi va a dormire a via dei Cerchi, a depositare emblemi e liste. Si sa e non si sa che continuerà così. Anche perché nel dubbio, nessuno più mena. Cominceranno a farlo solo i Radicali.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

La dolce (amara) vita di un satirico geniale

A vederlo con gli occhi di oggi, sembrano finti quei baffi neri, quegli occhiali neri e quelle sopracciglia nere un po’ all’insù, montati su un naso importante. Ricorda le maschere di gomma rese famose nell’avanspettacolo dai fratelli de Rege. Finto e mascherato sembrava pure il suo nome e il suo cognome: Ennio Flaiano è nome da classico latino o da filosofo stoico dell’antichità. Non è difficile immaginare Lucio Anneo Seneca che scrive lettere a Flaiano anziché a Lucilio. Lui stesso, del resto, raccontò che un giornalista inglese scambiandolo per un autore latino lo tradusse con Ennius Flaianus: «È probabile che io sia un antico romano dimenticato dalla storia, a scrivere cose che altri hanno scritto molto meglio di me: Catullo, Marziale, Giovenale».
E invece Flaiano è stato un osservatore acuto e smaliziato del nostro tempo, nato a Pescara proprio cent’anni fa, il 5 marzo del 1910, e vissuto nella nostra repubblica terrena e italiana fino al ’72. Passò indenne a fianco di un secolo agitato, feroce e passionale. Visse in mezzo a due guerre, più rivoluzioni e intermezzi coloniali, attraversò con l’impermeabile il fascismo e l’antifascismo, l’Italia cattolica e l’Italia comunista, senza bagnarsi. Si trovò per puro caso a Roma il giorno della marcia su Roma. Aveva dodici anni e di quel 28 ottobre ricordava la vetrina di una farmacia in via Tomacelli che esponeva una serie patriottica di profilattici, marca Fascio, marca Ardito, tra nastri tricolori. Non erano in camicia nera. Agli altri l’epopea della storia, a lui l’ironia del dettaglio.
Scrisse perfino, lui totalmente immune, sul più razzista dei fogli fascisti, Il Tevere di Telesio Interlandi e poi si ritrovò nel dopoguerra tra i radical chic dell’Espresso e i progenitori più sobri del Mondo. Ma passò indenne anche da quelle passioni. «La verità è che i contemporanei siamo appena un migliaio». Accanto a lui si sbranavano e si accapigliavano, lui continuava con ironia e distacco a fumare e a descrivere i risvolti minimi della vita, i vizi privati e le ossessioni minute. Descriveva lo Spirito del Tempo mediante la vita quotidiana. Rispetto al fascismo come all’antifascismo, rispetto alla Chiesa e alla Sezione, Ennio Flaiano restò imperturbato e indifferente. Lui pescarese, con il concittadino d’Annunzio non c’entrava nulla; al lato eroico preferiva il lato grottesco, all’esaltazione lirica del Vate preferiva la malinconia asciutta del satiro. E così, da viaggiatore distaccato, attraversò, schivandole, e un po’ schifandole, non solo le stagioni ideologiche del nostro Paese, ma anche i generi e i mondi della letteratura, dell’arte e del cinema.
Flaiano fu scrittore di frammenti, giornalista letterato, critico teatrale e autore cinematografico. Realizzò perfino un memorabile documentario televisivo, Oceano Canada. Uno scrittore eclettico che oscillò tra il Premio Strega e Alberto Sordi. Il primo lo vinse con Tempo di uccidere che gli pubblicò Longanesi, di cui scrisse uno splendido necrologio, descrivendolo fin nei suoi odi, mai personali «così allegri e impetuosi... un ammiratore dell’intelligenza altrui». Sordi invece fu lui a lanciarlo nel grande cinema. La fama di Flaiano è associata alla Dolce vita di Fellini, di cui scrisse la sceneggiatura che narrava un po’ autobiograficamente di un giornalista venuto a Roma dalla provincia. Della dolce vita Flaiano fu pure sacerdote nel tempio pagano di via Veneto. A lui si deve anche la nomea del Paparazzo: una società sguaiata, scrisse, merita fotografi petulanti: «Il fotografo si chiamerà Paparazzo», dal nome di un albergatore calabrese. «Emigrato intellettuale senza speranza di tornare», ma anche senza voglia, Flaiano ebbe un rapporto di amore-disprezzo per Roma e i romaneschi. Ma anche per l’Italia, in cui si sentì sempre un marziano e un allogeno benché profondo conoscitore degli indigeni: non sono fascista, non sono comunista, non sono democristiano - scrisse una volta - detesto il paternalismo e la città natale, non amo il calcio e non so cantare.
Per molti, notava Flaiano, l’italiana non è una nazionalità ma una professione. E in una pagina che sa di oggi: «Da parecchi anni l’Italia è stata invasa da un barbaro autoctono. Questo barbaro assedia la città dall’interno delle mura. Chiamatelo provinciale, neoricco, cafone \, per me resta un barbaro». Raccolse in versi nel fatidico 1968 una sequela di luoghi comuni che sono rimasti quasi tutti ancora intatti, del tipo venezia è da salvare, l’edilizia è in crisi, le acque sono inquinate, i treni ritardano, gli ortofrutticoli danneggiati dall’Unione europea (allora si chiamava Mec), la famiglia in crisi, il comune di Roma aumenta il disavanzo.
Corrosiva la sua satira sul comunismo, sui vantaggi di dirsi comunisti e di fare i radical chic. «Vogliono la rivoluzione ma fanno le barricate con i mobili degli altri». I fascisti, invece, restano per lui «una trascurabile maggioranza» nel Paese e Mussolini «era un tiranno accomodante e pieno di buona volontà... Non è da escludere che travolto dai nazisti, sarebbe diventato lui il presidente del Comitato di Liberazione».La sua prosa fu amara e lieve, acuta e dimessa, mai pomposa. Il suo pessimismo, anziché appesantire, donava leggerezza alla sua pagina, scansando intenti pedagogici ed enfasi costruttive, anche perché si accompagnava a quella capacità epigrammatica e sintetica che fu il dono di grazia di una generazione: quella dei Maccari, dei Longanesi e dei Montanelli. Come loro, Flaiano fu uno scrittore sprecato, dissipatore di talento in battute e in dispersive attività, poligrafo ai danni della sua stessa vita; o vivente ai danni della sua stessa prosa. Flaiano, il più scettico e antiprofetico degli intellettuali italiani, predisse e precorse l’avvento di un Paese scettico, annoiato e cazzeggiante. La sua prosa fu come un caffè, amara e scottante, ristretta, aromatica e un po’ eccitante; una delizia breve. Di lui ci resta l’ironia malinconica dell’intelligenza. Flaiano fu portatore sano d’italianità.
(di Marcello Veneziani)

giovedì 4 marzo 2010

Quella epopea nell'agro pontino specchio dell'orgoglio fascista

Lungo gli argini del Canale Mussolini, anche se oggi non ci sono i nidi degli aironi bianchi, né fanno il bagno i ragazzini, ci si inebria del profumo intenso degli eucalipti mentre il ronzio delle idrovore ti ricorda che al di là di quelle Acque Alte c'era la palude dove si rotolavano le bufale e le colonie di zanzare che assalivano le lestre. Poi la melma divenne una terra nuova, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce che lì volle la sua città di fondazione per le migliaia di persone arrivate dal Nord. «Canale Mussolini» è l'ultimo libro del fasciocomunista Antonio Pennacchi, pontino doc, che ha fatto della storia di questa terra il suo must.
«Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo».
Addirittura Pennacchi?
«E perché? Ognuno ha una mission. Steinbeck diceva che un uomo deve piantare un albero, avere una casa e fare un figlio. Ecco, io da bambino, non avevo chiaro come, ma sapevo che volevo raccontare la storia della mia famiglia, degli zii, del podere...».
E gli altri libri?
«Tutti in funzione di questo».
Però ha iniziato tardi a scrivere?
«Vero, mi sono sottratto al mio compito e mi sono dato alle lotte, ai casini... Il mio diletto era leggere, studiare, la scrittura invece è una condanna, un demone, un dovere e questa storia dovevo proprio scriverla. Sentivo che se mi fossi sottratto all'impegno, questa epopea sarebbe andata persa e ciò non doveva accadere».
Quindi ora il ribelle Pennacchi si sente pacificato?
«La storia l'ho raccontata, adesso facesse quel c... che le pare...certo spero vada bene...».
Premio Strega compreso?
«Lasciamo perdere lo Strega, spero vada bene perché ho 60 anni e non c'è stato giorno che non ho avuto il pensiero di arrivare a fine mese. Comunque dopo questo libro, posso morire tranquillo... altrimenti dovevo rinascere».
Per essere un rompiballe come ora o cosa?
«Essere un monaco. Questa vita se n'è andata facendo il guerriero, in un'altra vorrei essere monaco e tacere».
Lo faccia.
«No, perché il dolore ti dà uno sguardo lucido, surreale, io ho avuto due infarti, ho tre bypass, un piede di qua e uno di là nella fossa e ho tanta rabbia dentro anche se so che incazzarmi non mi fa bene».
Ma perché è arrabbiato?
«Ma lei li legge i giornali?».
Veramente ci scrivo...
«Quindi sa che quello che scrivete sono tutte fregnacce, e quando mi prendono in giro io divento una bestia».
Torniamo a Littoria, qualcuno dice che lei ha un'ossessione agro-pontina.
«Cambiamo domanda se no dico parolacce. Non dico quello che penso di chi mi fa questa accusa.... Comunque sto in buona compagnia, anche Dante era ossessionato da Firenze e Steinbeck ha concentrato i suoi romanzi tra Salinas e Monterey. Gli scrittori veri scrivono di pancia, raccontano quello che conoscono. Io le storie non le invento, le raccolgo per terra, anzi, mi vengono addosso».
Fascismo compreso diventato per lei quasi una questione di "educazione sentimentale"?
«Ma andassero affan....Io non sono fascio, io sono comunista, ma non mi si può dire che il fascismo era tutto cattivo o tutto buono, quando l'intero popolo italiano era fascista. Non erano tutti cattivi, il male sono stati la dittatura, le leggi razziali e perdere le guerre...».
Il buono è stato il progetto del Duce, la bonifica fatta dai cispadani, gli extracomunitari d'antan a cui lei rende quasi omaggio?
«Il fascismo ha levato le terre e le paludi ai ricchi e le ha date ai poveri, a quei 30 mila tra veneti, friulani, romagnoli che per fame hanno trasformato in terra fertile la melma, una palude piena di zanzare, diventando nemici dei "marocchini", gli abitanti dei monti Lepini che guardavano storto noi polentoni, contadini che puzzavamo di fame, e le nostre donne, forti e decise alla guida dei carri, allegre e spavalde nei balli davanti al podere».
Crede che questo "giardino terrestre", famoso per la sua architettura razionalista, non sia stato mai tanto considerato per pura ideologia?
«Intanto in Italia non si sono mai fatti i conti con il fascismo e molte cose sono state rimosse. L'ideologia? - urla Pennacchi - Basta etichettare la gente, io non sono fascio, resto un materialista storico, sono per l'egualitarismo assoluto, sono un marxista eppure ho amici fascisti, persone per bene, e conosco compagni che andrebbero messi al muro.... E poi chi vietava ai fascisti o agli scrittori nati qua di scrivere la storia dell'Agro pontino? Credo ci siano molto conformismo mentale e tanta pigrizia intellettuale: la gente cammina al centro della strada, ai lati vanno in pochi. Scoprire la poetica della quotidianità non è da tutti, invece vanno raccontate le storie, la vita di ognuno perché è sempre unica... E io ringrazio Dio perché riesco a farlo».
«Canale Mussolini» è dedicato a Gianni: quanto le manca suo fratello?
«A Birà.....» Non aggiunge altro l'arrabbiato scrittore ex operaio Antonio. Piange.

mercoledì 3 marzo 2010

Quegli 007 liberi di fare quel che vogliono

L’operazione della Guardia di Finanza contro una rete di trafficanti d’armi è un segnale importante. E politico. Per decenni gli 007 iraniani in Italia hanno fatto, letteralmente, quello che hanno voluto. Un network, poderoso quanto «fantasma», ha sorvegliato gli oppositori (uno è stato anche assassinato), ha acquisito tecnologia proibita, si è rifornito di armi. Non va dimenticato che l’Iran è stato colpito da un embargo fin dai primi giorni della Rivoluzione – 1979 – e dunque i suoi emissari si sono dovuti impegnare per comprare il materiale bellico. Pochi sono abili come i khomeinisti nei traffici di questo tipo. E l’Italia ha tollerato – per troppo tempo – solo per guadagnare dei contratti.

TRE FILONI - Il network nel nostro paese si sviluppa lungo tre filoni che spesso si intersecano. Il primo ruota attorno a personaggi in contatto con le rappresentanze diplomatiche. Il secondo coinvolge pasdaran e iraniani che vivono da anni nel nostro Paese: figure che si muovono con coperture classiche (import/export, piccoli commerci, trasporti). Il terzo è composto da 007, nella duplice veste di controllori degli esuli e di procacciatori di tecnologia.

LE BASI NEL NORD - Il punto di forza geografico è, ovviamente, il Nord dell’Italia. Di solito gli iraniani stabiliscono contatti con piccole imprese, attraverso le quali possono arrivare ai grandi gruppi. E’ un’azione paziente ma che porta dei frutti. Inoltre i trafficanti coinvolgono nostri connazionali: guadagnano bene e fanno gli intermediari. A questo fine i khomeinismi hanno intrecciato relazioni – lo ripetiamo, da decenni – con italiani vicini ad ambienti estremisti (di sinistra e di destra). Trovano un terreno comune nella «lotta al sionismo e all’America», quindi si trasformano in soci. Gli arresti – specie dei due 007 – provocheranno irritazione a Teheran. E non sono da escludere ritorsioni. Ogni volta che un paese occidentale ha messo in galera un iraniano, il regime ha reagito arrestando qualche cittadino di quel paese con false accuse di «spionaggio».

martedì 2 marzo 2010

Spaesati, insicuri e isolati. Ci manca la vera comunità


Esce oggi il nuovo libro di Marcello Veneziani Amor fati (Mondadori, pagg. 242, euro 18) di cui, per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo un capitolo sui legami che vincolano una vera comunità. Al centro del denso saggio filosofico c’è il concetto di destino che «radica l’essere nel divenire, dà senso all’accadere, connette l’esistenza a un disegno e a una persistenza». Un antidoto, dunque, al senso corrente in cui predominano l’automatismo della tecnoscienza e dell’economia; e in cui il pensiero è ridotto a ludico solipsismo. Chiude il volume una rassegna di vite esemplari, in un senso o nell’altro, vere e proprie figure del destino nella mitologia contemporanea: da Michael Jackson ad Albert Camus, passando per Madonna, Che Guevara, James Dean, Lucia Bosè, Alain Delon e Ingmar Bergman.

Nell’epoca spaesata, la comunità esiste come residuo possente che dà sostegno alla vita reale, è presente come lutto e orfanità ma anche come aspirazione comune. La famiglia, il gruppo, la città, l’associazione, la rete, la patria, l’ecclesia, benché in crisi, sono gli unici contesti in cui si esprime la vita, senza dei quali non avrebbe senso né sostegno la persona. Si è persona in relazione all’altro, perché persona – lo dice il suo stesso etimo – esige qualcuno che ci osservi. Siamo persone rispetto a qualcuno. Persona indica un carattere, una modalità specifica di presentarsi, perfino una maschera, che ha senso solo in rapporto col mondo; altrimenti non si è persone, ma solo individui. La persona esige relazione e la vita esige legame sociale. L’io prende corpo e misura rispetto a un tu, si qualifica e si definisce rispetto a un tu, e dentro un noi. E tuttavia, l’orizzonte comunitario sembra retrocedere al passato, sfumare nelle superstiti isole dell’ideologia, fino a diventare la proiezione onirica di solitudini a disagio. La famiglia è vissuta come luogo di evacuazione e tempo di smobilitazione, le associazioni sopravvivono se diventano occasionali e laterali luoghi di socializzazione o di rappresentanza degli interessi singoli; le città e le nazioni si riducono a sfondi paesaggistici, display o location; le religioni sono ricacciate nel privato come sette recintate, separate dal vivere civile e comune.

Una vera comunità non può essere sconfinata, universale, coincidente con l’umanità, perché la comunità delimita un noi e lo distingue dal resto; ma non può essere neanche il suo rovescio, una setta, una tribù, un circuito chiuso. Se è comunità esige sia una separazione sia un’apertura, è sempre un essere-con ma a viso scoperto, a cielo aperto. La comunità ha un territorio, delinea un confine e può avere anche un suo cuore segreto, ma non ha cinte murarie entro cui barricarsi. La comunità designa un’appartenenza, ma non preclude alla differenza. Altrimenti è una fortezza che si reputa assediata, non è un luogo di primaria esperienza del mondo ma una cittadella di reclusi, ostile al mondo. Comunità è comunicare. Si può essere congrega di asceti e ordine di cavalieri, ma non si può essere comunità civica chiusa all’esterno. La comunità è delimitata ma aperta. Se non subisce assedi, non può murarsi dentro.

La comunità non esclude al suo interno la solitudine, come l’essere in società non scongiura l’isolamento. Essenziale è la distinzione tra solitudine e isolamento, come ben distinse Hannah Arendt. La solitudine può essere un’indole, un’esigenza, una scelta, una conquista, perfino una beatitudine (Beata solitudo, sola beatitudo); l’isolamento è invece una perdita del mondo e una sconfitta, un impoverimento e un’emarginazione, un’inadeguatezza, una condanna e una sofferenza. L’isolamento non è la solitudine involontaria di cui scriveva Hume, perché non è sempre né solo inflitta dalla società. È una solitudine sgraziata, a volte subita a volte interiore, cioè covata nel proprio seno, irriducibile all’emarginazione e all’ingiustizia sociale. In una comunità è possibile la solitudine ma non l’isolamento, perché isolarsi presuppone la fuoruscita, la perdita, l’esclusione dalla comunità. In una società si può essere soli ma anche isolati; in una comunità invece si può essere soli ma non isolati, perché se si è veramente isolati si è già fuori dalla comunità. In una società è possibile distinguere una sfera pubblica e una sfera privata, anzi la società sorge su quella distinzione; una società malata non distingue, non tutela o addirittura inverte i rispettivi spazi che attengono alla vita pubblica e privata. In una comunità, invece, l’orizzonte privato tende a collimare con l’orizzonte pubblico, o quantomeno ad armonizzarsi e a riconoscere uno spazio comune in cui confluiscono e interagiscono il pubblico e il privato.

Prodotto tipico e contagioso dell’isolamento è l’insicurezza, che tende a espandersi. Le società prive di destino e di comunità pullulano di singoli isolati, sono abitate da milioni di eremiti – diceva Montale – che vivono il loro isolamento in piena folla. L’isolamento produce paura, genera domanda di sicurezza. Si tratta di domande di origine metafisica e psicologica, prima che sociale e militare, che investono il senso e l’identità, l’incertezza dell’esistenza in un orizzonte labile e l’incedere del vuoto e del nulla; ma il gigantesco, capillare sradicamento di ogni domanda in rapporto al destino costringe a dirottare le domande d’insicurezze sul controllo delle risposte e a circoscriverle nell’ambito della pubblica sicurezza. Accade allora che l’insicurezza si riduca a incolumità, la metafisica a ordine pubblico e l’incertezza della vita in rapporto al destino si trasfiguri, fingendo di assumere concretezza, in paura sociale dello straniero, del criminale, del pedofilo, in generale del disordine e dell’anomia. In un percorso inverso e paradossale rispetto alla critica alla religione degli illuministi e poi di Feuerbach, accade che si proietti in terra un bisogno di cielo, e si invochi il vigilante in luogo dell’angelo custode, si installi una ronda o una postazione di pubblica sicurezza laddove manca un’edicola sacra e protettiva; si risponda con l’ordine poliziesco a una domanda di ordine esistenziale e si prometta tutela dei singoli da ogni prossimità inquietante mentre la domanda da cui sorgeva l’insicurezza era incentrata sul bisogno di comunità. Non è l’estraneo che spaventa, ma è il venir meno di quel che è nostrano a disorientare.

Le comunità soffrono meno di queste paure rispetto alle società spaesate perché sono rassicuranti, familiari e calde; l’insicurezza si accompagna all’isolamento. L’assenza degli dei, del fato e della comunità viene compensata con il raddoppio della vigilanza. La perdita d’identità è risarcita con l’aumento dei controlli.

L’estensione della società al pianeta, lo sconfinamento del locale nel mondiale e la rete globale di relazioni telematiche rendono sempre più evanescente l’appartenenza stessa a una società. Più la società si estende e più perde ogni traccia di contorno, fino a realizzare l’idea popperiana che la società sia solo un’astrazione platonica e che esistano soltanto gli individui con le loro dirette e occasionali relazioni. Se la società è un concetto astratto, il mondo non è fondato sui legami ma è regolato da leggi e contratti, le consonanze si fanno solo sincronie, perché sono fondate soltanto sul temporaneo convergere di interessi e apprensioni; le relazioni non prevedono comunanza ma tecnologia. È la tecnica a rapportarci al mondo; le comunanze al più consentono di stabilire rapporti sentimentali nell’ambito dell’affettività privata.

A uno sguardo più attento, potrebbe perfino modificarsi la considerazione da cui siamo partiti circa il tramonto della comunità; a tramontare sembra essere piuttosto la società che cede il passo a una frammentazione di meteoriti individuali o tribù microsociali e di solitudini globali, mentre la comunità resiste almeno in tre ambiti: come nostalgia del passato, come prospettiva del futuro e come sentimento intenso nel presente. La comunità abita in interiore homine, come vuoto e come attesa, ma anche come percezione di legami elettivi e naturali che sentiamo come fondativi della nostra vita e del suo senso. Per questo, la comunità oggi acquista vigore proprio nella solitudine, come invocazione, memoria e pre-sentimento. Viceversa diventano pericolose, quanto artificiose, le pseudocomunità che sorgono dall’isolamento perché sono agglomerati ringhiosi di risentimenti ed emarginazioni che armano le frustrazioni fino a renderle militanti. Tanto sono aggressive le pseudocomunità di clan, di club o di quartiere quanto sono fittizie e interiormente vuote. Possono attenere tanto a un villaggio quanto a un branco o a un collettivo. Reti effimere, occasionali, hobbystiche, orgiastiche, emozionali, virali... La comunità sorge da un’esigenza naturale che si costituisce in orizzonte culturale. Entrambi la radicano nel tempo e nello spazio. Il nesso tra natura e cultura è l’orlo del destino.

(di Marcello Veneziani)