martedì 16 novembre 2010

Caro Tremaglia da Salò, come puoi perfino tu rinnegare i vecchi ideali?

Egregio onorevole Mirko Tremaglia, lei ha concluso il suo intervento allo storico incontro di Bastia Umbra con un «alla faccia di Berlusconi!», facendo venire giù il fastoso e tecnologico teatro (già, ma chi ha pagato tutta quella berlusconiana grazia di Dio?) per gli applausi.

La cosa mi ha lasciato un po’ perplesso. Forse alla sua veneranda età ha dimenticato un particolare non proprio trascurabile. È solo grazie al disprezzato Berlusca che lei, un «ex ragazzo di Salò», è potuto assurgere ai fasti di un ministero ancorché senza portafoglio nel 2001-2006; e per di più l’abominevole uomo di Arcore la difese quando veniva accusato di aver fatto giungere al governo il primo «ex repubblichino» nella storia della Repubblica italiana «nata dalla resistenza». Ed è grazie a questa insperata poltrona che lei è riuscito a coronare il sogno della sua lunghissima vita: quello di concedere il voto agli italiani all’estero, benché con una legge tanto pessima nel suo meccanismo e nella sua attuazione pratica che riuscì a portare - con sospetto di brogli - più voti al centrosinistra che al centrodestra nelle elezioni del 2006, contribuendo concretamente a far vincere l’Ulivo di Prodi & C. Nonostante ciò, non venne cacciato a pernacchie dal centrodestra medesimo.

Oggi, dunque, onorevole Tremaglia, lei prorompe in un «alla faccia di Berlusconi!» per lasciare il Popolo della libertà e passare a Futuro e libertà. Benissimo. Ma si è mai chiesto chi è che guida il Fli? Non sarà per caso quel signore che ha portato lei e tanti altri in questo stesso Pdl sciogliendo Alleanza nazionale, e con questo Pdl vincere le elezioni del 2008 e farla rieleggere in Parlamento? Forse sì. E illustre onorevole, caro, vecchio, smemorato «ragazzo di Salò», padre di quell’unico e insostituibile Marzio che il fato ha sottratto a lei e a noi troppo presto, non si ricorda per ipotesi cosa questa guida, questo condottiero, questo duce democraticissimo, ha affermato in merito a certi argomenti ai quali lei dovrebbe essere particolarmente sensibile? Ad esempio, il fascismo: «Fu il male assoluto», ebbe a dire nel 2003.

Ad esempio, rincarando la dose, la Repubblica sociale nelle cui file armate lei militò: «Una pagina vergognosa della storia italiana». E infine, per chiudere degnamente il cerchio: «L’antifascismo è un valore» e sinonimo di democrazia, e la resistenza anch’essa lo fu, a parte qualche trascurabile eccezione che voleva farci diventare un Paese stalinista. Però, nonostante tutto, come costui ha scritto all’Anpi di Bologna pochi giorni fa, «commemorare gli eroici combattenti partigiani che si opposero ai rastrellamenti degli antifascisti è un dovere delle istituzioni».

Onorevole Tremaglia, devo dedurre che anche lei la pensi ormai così, nonostante che a tali rastrellamenti magari ha pure partecipato. Sicché, non ritiene, onorevole fillino, che suo figlio Marzio, che quale assessore alla Cultura della Regione Lombardia volle creare - forse anche pensando a suo padre - un istituto per la storia della Rsi, oggi diretto dal professor Roberto Chiarini, si stia rivoltando nella tomba?

(di Gianfranco de Turris)

lunedì 15 novembre 2010

Siamo arrivati al crepuscolo di una nazione


I colori sono quelli del crepuscolo. Sbiadite perfino le recenti prove di fiducia dei cittadini in un sistema che, per quanto claudicante, aveva reso riconoscibili gli schieramenti in campo e la lotta politica sembrava avviata ad incanalarsi secondo canoni che non avrebbero tardato a consolidarsi, ascoltiamo scomposte grida che gelano i pensieri, proprio come al tramonto di una stagione che presto mostrerà gli sterpi nudi, cadenti appesi agli alberi dove pure erano fiorite speranze che per debolezza ritenevamo potessero durare la lungo. Da settimane stiamo evocando scenari fantasiosi, mentre la realtà è la visione del vuoto che abbiamo davanti. Non c'è nessuno che può dirsi soddisfatto, neppure i congiurati incapaci di intravedere sorti magnifiche e progressive dopo aver consumato i loro rancori, i risentimenti sedimentatisi negli anfratti delle loro cattive coscienze.

Si dirà che prima o poi doveva smorzarsi l'entusiasmo coltivato per quasi due decenni. Era fisiologico ed inevitabile. E ci eravamo andati perfino preparandoci all'inevitabile evento. Ciò che non potevamo prevedere era l'indecenza del contesto nel quale si è affollato di tutto, dalle corti dei miracoli e quella puttaneria che sempre si situa al centro delle compagnie morenti seguendole negli ultimi scampoli di vitalità che mostrano. Fosse soltanto il crepuscolo di un governo, di una coalizione, di una maggioranza, di un regime, potremmo cavarcela con una scrollata di spalle immaginando l'arrivo di un'alba nuova. Si tratta invece del crepuscolo di una nazione di fronte alla quale le sollecitazioni al senso di responsabilità hanno acuito l'odore del sangue, eccitando i cacciatori sulle tracce della selvaggina agonizzante. Non c'è stato niente da fare: che il Paese finisca devastato come finiscono tutti i bordelli; saranno le generazioni future a rimettere a posto i cocci.

Seguono delusioni, amarezze, improperi e molti sarcasmi. Ma tutti hanno qualcosa da temere nella livida luce che precede il buio. Volete che il tremebondo centrosinistra gioisca davvero per una crisi che nessuno sa che piega prenderà? Pensate che i terzopolisti nutritisi parassitariamente all'ombra di un bipolarismo rissoso non temano per le loro posizioni di rendita? Siete convinti che il Grande Accusatore, il Moralizzatore neo, ex e post, riuscirà laddove hanno fallito tutti i suoi predecessori dello schieramento avverso? Vi illudete che la creatura malformata, gracile, prematura troverà lo slancio vitale, prometeico per sfidare gli zeloti?

Non accadrà niente di tutto questo. La decomposizione è incominciata e nessuno sa dire quando terminerà. Chi ha messo in gioco i destini dell'Italia - e sono in tanti, naturalmente - non creda di guadagnarsi una facile assoluzione. Quale che sia la conclusione della crisi, nessuno ne uscirà bene. La comunità nazionale subirà più di tutti lo sbrego alla ragionevolezza che si è consumato e tenterà di vivacchiare come potrà sempre che un qualche tsunami non se la porterà via: le frattaglie politiche galleggeranno sopra le acque fino a quando qualcuno non s'incaricherà di raccattarle e riporle in una capiente discarica, senza correre il rischio di proteste improprie.

La fine di una stagione lascia inevitabilmente spazio a malinconie che non si assorbono in un lamento. Restano anche pezzi sparsi di tormento ricordando ciò che è alle spalle di chi ha ritenuto che un'altra Italia poteva vedere la luce. Qualche imbecille parla di Terza Repubblica. Ma bisognerebbe prima seppellire la Seconda. Malauguratamente per chi si è illuso, essa non è mai nata. Celebriamo, pertanto, un funerale senza il morto. Al crepuscolo, quando le ombre s'intrecciano, può anche accadere che la realtà si confonda con la fantasia.

(di Gennaro Malgieri)

Consolazione per Montezemolo, riserva della Repubblica sportiva


A chi somiglia di più, Luca Cordero di Montezemolo? A Gianfranco Fini, quando si rivolta sdegnato, tipo “che fai, mi cacci?”, contro il leghista Roberto Calderoli che lo ha invitato a dimettersi dopo lo sconcertante fallimento dell’ultima gara di Formula 1 che è costato il Mondiale alla sua Ferrari. Oppure al Cav., quando si oppone alla tribù padana secondo i canoni della più limpida apologetica berlusconiana: “Ci dispiace invece vedere che c’è qualche politico che, stando alla finestra, una volta è pronto a saltare sul carro del vincitore, l’altra reclama la ghigliottina quando le cose vanno male”. Comunque la si voglia vedere, Montezemolo non è ancora entrato nelle paludi della politica e sembra già volerne uscire dichiarando non bonificabile la zona. Quale Canale Montezemolo riuscirebbe ad arginare la fanghiglia su cui galleggia il Palazzo in questi giorni? LCdM ha potuto sperimentare su di sé l’effetto derivato dall’uso politico di disgrazie sportive.

Sebbene l’Italia sia graniticamente ferrarista, in molti devono aver condiviso il languore sanguinario riversato da Calderoli sul capo della Ferrari: tiè, potere forte che non sei altro, nemico della sovranità popolare, avvoltoio senz’ali sulle carcasse del nostro potere in disfacimento temporaneo, nell’attesa che la fenice di Arcore rinasca una volta in più nel suo nido rovente. Così dettano le viscere, e sono istinti due volte fallaci. Perché Montezemolo non è un potere forte, semmai è un professionista apprezzato che guarda in modo ingenuo la politica; e perché chi gode nel vedere il riflesso grigio proiettato su di lui dalla delusione ferrarista non fa che replicare lo schema dei forsennati antimilanisti impegnati da quindici anni nel tifare contro la squadra di Silvio Berlusconi. Con il risultato che numerosi berlusconiani di altra fede calcistica hanno preso a tifare Milan per un malinteso senso della propria militanza.

Certo, se Montezemolo avesse vinto il Mondiale e ne avesse fatto la cornice ammiccante d’una candidatura in politica non avremmo perso l’occasione di sorriderne. Con lui o suo malgrado. Gli avremmo ricordato che di Cav. ce n’è uno solo e basta. Adesso che lo vediamo triste ci viene da solidarizzare, e da dirgli che i sondaggi non smetteranno di raffigurarlo come un uomo popolare e affidabile. E la politica? Non tutte le riserve della Repubblica sono destinate a nobilitarla allo stesso modo. E poi il suo non è un consenso che si conti nelle urne o si pesi sul mercato parlamentare. E’ un’altra cosa, più vaporosa e aggraziata, è l’immagine di uno che nello sport sa vincere anche perché immalinconisce quando arriva secondo o terzo. Mentre in politica bisogna sempre dire d’aver vinto.

(di Alessandro Giuli)

domenica 14 novembre 2010

La suocera (e i cognati) di Zapatero


Sono uno dei pochi (o dei tanti?) che non hanno visto la prima puntata di “Vieni via con me”, il programma di Fazio & Saviano. Pensavo di annoiarmi di fronte alle invettive politiche della coppia, tutte contro il moribondo Berlusconi. Ma così mi sono perso Roberto Benigni, l’attore che considero il comico numero uno nel mondo.

A risarcirmi ha provveduto Michele Santoro. Nell’aprire l’ultimo Annozero, ha ripresentato una parte dello show di Benigni. Provo a raccontarlo con i poveri mezzi della carta stampata, pur sapendo che le parole messe nero su bianco valgono zero rispetto alle immagini. Dunque, Benigni ci rivela che Bersani possiede l’arma letale per mandare al tappeto il Caimano. Deve infiltrare ad Arcore non una gemella di Ruby, bensì una ragazza del Partito democratico.

Certo, ma quale ragazza? Benigni suggerisce la Rosy Bindi. Lei si ribella, non vuole saperne, è una signorina morigerata, non farebbe la escort neppure per vincere le elezioni. Ma Benigni insiste: guarda, Rosy, che a Silvio piaci tanto, parla sempre di te. Presentati bene: molto truccata, scollatura abbondante, un po’ di ciccia messa in mostra. Quando Silvio, arrapato, ti toccherà il sedere, devi gridare: lumaconi, porcelloni, adesso vi castigo, ho registrato tutto! E se la polizia ti becca, continua Benigni, ti difenderai così: attenti a come vi muovete, io sono la suocera di Zapatero, qui scoppia un incidente internazionale!

L’incolpevole Bindi e il povero premier socialista spagnolo, già pieno di guai dalla testa ai piedi, sono serviti a Benigni per fare una cosa che in Rai non succede neppure se casca il mondo. E con il mondo vanno per aria anche i boss di viale Mazzini: il presidente Garimberti, il direttore generale Masi, il capo della Rete Tre l’immarcescibile Ruffini, giù giù sino al capostruttura Mazzetti, quello che Santoro aveva messo dietro il filo spinato.

In Rai la satira è vietata, tranne nei casi che sia diretta contro il Caimano, odiato dai sultani rossi. Costoro sono i padroni dei tanti talk show in mano alla sinistra guerrigliera. Quelli che con i soldi pubblici, le tasse e il canone pagati dai noi contribuenti fessi, si sono dati una missione fanatica: spedire all’inferno Berlusconi e il centrodestra.

Con l’andare del tempo, si è consolidata una situazione assurda. La Rai non possiede più tre reti, ma due e mezzo. Perché la Terza e un pezzo della Seconda, appaltato a Santoro, sono stati privatizzati. E risultano un’azienda a sé, dove i gestori fanno il cavolo che vogliono. Un cavolo ben pagato.

Mi è stato raccontato che i sultani rossi non sono mai stati gasati come in questi ultimi tempi. Vedono vicino il loro trionfo, la sconfitta del Caimano. Si considerano dei padreterni, liberati da ogni obbligo nei confronti dei pennacchioni di viale Mazzini. Irridono Masi e sostengono che cadrà insieme a Berlusconi. Sanno di avere alle spalle un pubblico militante e lo eccitano in molti modi. A cominciare da quello di far credere che sono loro l’unica isola di libertà in un paese soggiogato da una dittatura di destra.

Bisogna riconoscere che i sultani rossi sono dei furboni. E hanno goduto, e godono, di un grande vantaggio. Il centrodestra non ha mai saputo contrapporgli nulla che abbia la medesima forza. Berlusconi è ritornato a Palazzo Chigi più di due anni fa, con una maggioranza straripante. In Rai poteva fare quel che voleva. Non gli sarebbe costato nulla varare un paio di programmi da opporre a quelli dei sultani. Però non ci ha pensato o non ci è riuscito. Mostrando di essere un premier impotente, almeno su quel terreno. Lì non c’è Viagra che tenga.

Se non sbaglio, esiste un solo talk show che non dipenda dalla fazione rossa della Rai. È quello di Gianluigi Paragone, ma va in onda tardi e non ne parla nessuno. Qualcuno mi obietterà: c’è anche Bruno Vespa. Ma il suo Porta a Porta è diventato la terza Camera, ha l’obbligo dell’imparzialità e non può fare nulla contro i televisionisti guerriglieri.Questi si muovono come i khmer rossi nella Cambogia di Pol Pot. Non tagliano la testa agli avversari, però attaccano con la stessa rapida sfrontatezza, provocano il nemico, assaltano a sorpresa. “Vieni via con me” è l’esempio più chiaro di questa tattica. Se la Bindi è la suocera di Zapatero, Fazio & Saviano sono gli astuti cognati del capo spagnolo. Persino più sinistri di lui.

Nella prima puntata, i cognati avevano celebrato Nichi Vendola, mostrandolo mentre leggeva l’intero elenco degli insulti che perseguitano i gay. Per la seconda ripresa, Fazio & Saviano hanno invitato due leader avversari di Berlusconi, Gianfranco Fini e Pigi Persani. Per fargli illustrare, e non è uno scherzo!, i valori della destra e della sinistra.

Venerdì, quando si è saputo dello scoop, ha preso il via la solita commedia. Masi ha detto di no, che non potevano farlo. La ditta F&S ha replicato di sì. Il capo della Tre, Ruffini, ha diffuso una proclama demenziale: «La presenza di Fini e Bersani non può che dar lustro alla Rai e al programma». Infine, i due boss invitati hanno informato la nazione che loro se ne fottono della dirigenza Rai e si presenteranno.

Non è una piccola bega televisiva. La vicenda è un esempio di quale paese sia diventato l’Italia. Una babele dove a comandare sono soltanto i distruttori. Mentre la Casta si riempie la bocca con la parola “legalità” e al tempo stesso ne fa scempio. Come il Fini doppiolavorista. Lui avrà il bacio di Fazio e di Saviano, pur essendo incollato a una poltrona che non merita più.

(di Giampaolo Pansa)

Fazio e Saviano? Trucchi da sinistrina

Pietrangelo Buttafuoco è amico di Roberto Saviano. Quanto invece non lo sia di Fa­bio Fazio lo si è capito leggendo la sua «Fenomenologia di un presentatore: il Signor F», pub­blicata nell’ultimo Panorama , nella quale ha applicato le cate­gorie che Umberto Eco usò per Mike Bongiorno al conduttore di Vieni via con me. Dopo l’invi­to a Fini e Bersani, l’autore di Le uova del drago e Fimmini ag­giorna la sua critica.

«Vieni via con me» è un pro­gramma di approfondimento culturale?

«Di culturalismo».

Che sarebbe?

«La pretesa della mezza calzetta di atteggiarsi a ac­culturato. Il culturalismo è un vezzo tipico della sinistri­na».

E la cultura?

«Se la fai non la enunci».

Qui fa da giustificazione per invitare Fini e Bersani.

«Escamotage. Trovatine. Da che mondo è mondo a si­nistra sono bravissimi a or­chestrare gli affarucci loro. Che tempo che fa potrebbe essere un programma di me­teorologia. Detto questo, tanto di cappello...».

In che senso?

«Nel senso che a destra do­vrebbero imparare. Cioè: non è che quelli di destra non lo fanno perché sono le­ali. Ma perché sono idioti. E politicamente, e cultural­mente. E, dunque, anche te­levisivamente. Non riesco­no a fare una trasmissione che incida nel dibattito. I po­litici del Pdl sono ancora convinti che più tempo stan­no nei telegiornali, più de­terminano le svolte. Invece, mezzo minuto di Fazio e die­ci secondi di Santoro cancel­lano dieci ore di dichiarazio­ni di Bonaiuti».

Invitare anche Bossi e Ber­lusconi sarebbe...

«Un colpo di genio. Anzi, mi permetto un suggerimen­to agli autori. Se Fazio fosse coraggioso - e Berlusconi an­cora spiritoso - dopo i trenta­due modi per insultare un omosessuale letti da Vendo­­la, dovrebbe chiedere al pre­mier di presentarsi con i cin­quanta insulti che gli sono stati applicati. Berluskaiser, Berluskaz, Al Papppone, Na­no, Banana e via elencan­do... » .

Persino Garimberti ha det­to che il pluralismo si fa ag­giungendo voci e non sot­traendone...

«Per allargare gli inviti ser­ve coraggio. Fazio non rie­sce a confrontarsi con chi sta fuori dalla sua parroc­chia ».

L’operazione qual è?

«Una grande paraculata ti­pica di un bravo parroco che organizza lo spettacolino al­l’interno del proprio orato­rio».

Lei ha applicato la «Feno­menologia di Mike Bon­giorno» a Fazio.

«Perché entra perfetta­mente nello schema di Um­berto Eco. Il culturalismo evolve: ai tempi di Mike biso­gnava sapere l’altezza del­l’Everest. Ora che cosa con­tiene l’ultimo libro del prio­re di Bose, Enzo Bianchi».

Edmondo Berselli scrisse che «lo studio di Che tem­po che fa è santuario e cena­colo dei ceti medi riflessi­vi».

«L’egemonia culturale del­la sinistra nacque da una ge­nerazione che, avendo avu­to professori di destra, di­ventò di sinistra. L’ulteriore tassello conformista è fatto da gente come Fazio che, avendo avuto prof di sini­stra, è di sinistra. Immune da qualsiasi istinto di disub­bidienza».

Per ora «Vieni via con me» sembra un «Rockpolitik» senza Celentano...

«Ci andrà, ci andrà. Dipen­de dagli accordi che farà sua moglie ».

Non ne sarei così sicuro. Sa­viano aveva bisogno di usci­re da «Gomorra»...

«Tutto doveva fare tranne cadere in questa trappola. È diventato una figurina tra tante, un vuoto retorico là dove la sua forza doveva es­sere solo verità, eversiva per­fino, ma verità. Con la sua faccia passa questo messag­gio: che Falcone è stato am­mazzato da Berlusconi. Ora, danni ne ha fatti, ma non si può caricarlo di tutti i pregiudizi ideologici del­l’epoca. Se aveva voglia di fa­re tv, Saviano poteva farla da solo. E non certo a Raitre, dove c’è il salvagente del pa­raculismo ideologico».

Quando dice i motivi per la­sc­iare l’Italia, Fazio è credi­bile come uomo da tv civi­le?

«Tecnicamente è una mo­sca cocchiera: si mette sulle spalle dei mostri sacri, Beni­gni, Celentano, Saviano, Carla Bruni, e orchestra l’epifania di sé vicino a loro. Per cancellare l’effetto Fa­zio non c’è che una strada: lanciarne uno peggio di lui. E siccome la destra al merca­to del peggio eccelle, potreb­be trovare subito la soluzio­ne».

Lei il nome ce l’ha già?

«Ho quello per la trasmis­sione: Andate via con lui ... Comunque vorrei fare una postilla... ».

Prego.

«Mi auguro che Saviano non legga questa intervista come una macchinazione del fango. Perché sono dalla sua parte. Per dirla con Gian­franco Fini, che è un uomo di raffinata cultura, “Ami­cus Plato sed magis amica veritas” (Mi è amico Platone ma mi è più amica la veri­tà)».

Fabio Fazio, fenomenologia di un presentatore


ALLORA: «BELLEZZA MODESTA». E su questo ci siamo, perfino molliccia e goffa è la sua immagine, adorna com’è di peletti prepuberali. Poi: «sex appeal limitato». E su questo è meglio sorvolare. Quindi, un «gusto discutibile». Quanto a cravatte, per dire, eguaglia un Gianfranco Fini. E, infine, una «certa casalinga inespressività». Anche su questo il parametro si parametra. Sembra sempre sul punto di porgere lo stantuffo per sturare il lavandino, ma col gesto eroico di chi vuol celare l’affondo di una spada, la famosa Durlindana del culturalismo da pisello piccolo, non aggressivo. Abbiamo elencato le categorie identificative dell’everyman, l’uomo assolutamente medio, teorizzato nel 1961 da Umberto Eco a proposito di Mike Bongiorno, e siccome non ci mancano certo le corna, certi di fare un piccolo dispetto che mai e poi mai il grande semiologo vorrebbe adesso fare a chi lo rannuvola d’incenso, queste stesse categorie, giusto a distanza di molti anni (un’era fa), le abbiamo appena prima sovrapposte all’italiano degli italiani di oggi, al campione assoluto della furbizia pop, ovvero il signor F, Fazio Fabio.

Tutte «le virtù morali e intellettuali in grado medio» del Mike di ieri ancora oggi, sempre secondo la lectio di Eco, si replicano nel cerimoniere di Che tempo che fa e Vieni via con me. E il teorema, in bella forma, sull’uomo idolatrato da milioni di persone – quello che così recita: «Deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere trasmette una mediocrità assoluta e un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costrizione o finzione scenica» – vale ieri come oggi, ed ebbe valore per Mike come adesso per questo straordinario presentatore, giustamente pagato 2 milioni di euro l’anno, su cui lo spettatore italiano vede glorificato il ritratto del proprio limitato orizzonte etico ed estetico.

Il professore Eco non ci concederebbe mai l’avallo di una simile sovrapposizione iconica, ovvero un Fazio Fabio in luogo di un Rischiatutto. Avendo però nel frattempo rivalutato Mike Bongiorno, potrebbe magari perdonarci, perché elevare le virtù in grado medio dell’everyman al canone del civismo pedagogico, a quella paideia fatta di Costituzione e generico ambientalismo (così come di generico femminismo, generica filantropia e generica sinistrina è fatta l’opinione pubblica media dell’italiano medio) è un capolavoro dell’acchiappacitrulli niente male.

È la banalità di sinistra che coincide con la banalità nazionale. Non è un qualcosa di traducibile nella scheda elettorale e nessuno si meravigli se adesso lo proponiamo noi il teorema nel considerare l’italiano medio ovviamente di sinistra, anzi, di sinistrina. Quelle massaie che vedono Rete 4, infatti, sono le stesse che poi si sintonizzano su Raiuno o su Raidue, dove nella palude postprandiale non mancano le commoventi ed edificanti morali omosessualiste, le prediche slowfood, gli anatemi solidaristi.

Ed è per questo che il furbissimo Fazio Fabio, italiano medio, riesce a camuffare perfino Belzebù, se nella prima puntata di Vieni via con me butta in mezzo alla scena una suorina giusto per prendere al laccio chiunque, perfino uno smaliziato come Giovanni Valentini che, su Repubblica, esalta la «tv civile fatta con la giovane precaria, il pensionato e la suora impegnata nel sociale». Nessuno che abbia informato Valentini e lo spettatore della cruda e poetica identità della suorina: Giuliana Galli, potentissima vicepresidente della Compagnia di San Paolo, legata alla Banca Intesa, praticamente un banchiere.

Banalità di sinistra amplificate dalla granitica immobilità del – e citiamo ancora Eco – tipico «aristotelico per difetto», quello per cui A è uguale ad A e «tertium non datur». Quello che non fa ridere quando viene detto da Silvio Berlusconi trova, al contrario, la propria impennata comica con Roberto Benigni. Lo stilema è lo stesso, l’operazione è uguale, tutti e due fanno fare all’incolpevole Rosy Bindi la figura della racchia, ma si sa: Benigni e Berlusconi possono ballare insieme. Solo che l’uomo medio di sinistra questo non lo sa, anzi, non vuole saperlo.

Al tempo del Mike, la tv non era ancora diventata il cuscino trapuntato di colte sfumature, quello che è Fazio Fabio, cuscino di pregiate natiche. Come possiamo non fare ancora un parallelo tra il Bongiorno di allora, stigmatizzato da Eco, servile verso i miti del proprio tempo («Alla signora Balbiano d’Aramenga bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic)»), e la stucchevole intervista a madame Carla Bruni del signor Fazio Fabio?

Pregiate natiche, si diceva. Cui dedicare l’ammicco, il gesto ruffiano, quel far sempre finta di mettere da parte la politica, e se qualcuno fa una battuta per buttarla in politica, Fazio Fabio fa la finta di essere sopraffatto, come quando ogni volta che Luciana Littizzetto dice «culo» lui fa la faccia di quello travolto dalla parola culo. Imperdibile, a questo proposito (nel senso del sentirsi sopraffare, per carità), l’incontro con Giulio Tremonti.

E fa finta di essere nel pieno della cultura il Fazio Fabio, ma ancora una volta con quella preterizione della grammatica tv già collaudata nella Fenomenologia di Mike Bongiorno: «Mi di-ca un po’, si fa tanto parlare oggi di questo futurismo» ripete lo schema, come quando smozzica la domanda, un po’ per volta per fare la finta dell’educato conduttore.

La cultura è come il sesso, non si dice quando si fa, ma se il tanto vituperato Augusto Minzolini si mette alle spalle la Treccani, Fazio Fabio, che è furbo, fa un’operazione più sapiente e si circonda solo di gente che cita a orecchio libri mai letti. E hanno voglia, perciò, gli italiani medi, a immedesimarsi nel classico genere di sinistrina del mangiare pulito, dell’usare poco il telefonino e dell’ammorbidire l’animo dell’uomo con la musica di Claudio Abbado, come se la musica fosse una cosa di sinistra e non un neutro assoluto. Come Mike Bongiorno, anche Fazio Fabio dimostra «sincera e primitiva ammirazione per colui che sa».

A partire da L’Orecchiocchio, un programma di Raitre dell’era precedente ad Angelo Guglielmi di Mario Colangeli dove con Fazio Fabio emergevano Lella Costa e un delizioso Daniele Luttazzi, presentato nei corridoi di viale Mazzini come «consigliere comunale della Dc, area dorotea», tutte le trasmissioni del nuovo Mike fino al suo geniale Sanremo (l’aggettivo però riguarda Agostino Saccà che ebbe l’idea di metterlo lì) hanno sempre avuto questa dogmatica del valore medio e del luogo comune travestito dal fuori del comune. Se possiamo azzardare un’eresia rispetto alla lettura ortodossa di Eco cui ci siamo costretti, con Fazio Fabio, rispetto a Mike, avanza un René Magritte in piena regola. Con i suoi Renato Dulbecco a Sanremo, infatti, sembrava strappare una supplica. E perciò: «Questa non è una pipa». E dunque: «Questo non è un presentatore». A tenere il pennello in mano, quella volta, era Saccà, adesso che il pizzetto di Fazio Fabio è sempre di più un’epifania della sinistra.

A volte fa un mestiere non suo, l’intervistatore professionista, come con Sergio Marchionne, a volte sonnecchia nel suo essere metodico, quasi un ordinato compilatore di fogli protocollo in una giornata di compito in classe. In ogni sua apparizione però mantiene la promessa di una personalità assolutamente servizievole, sa, infatti, farsi spalla su cui far scivolare la grandezza del suo eventuale ospite.

Senza le asperità del diverso. Alla Mondadori, divisione libri, dove pure lo venerano tanto fa fare soldi con i libri, democraticamente corretti, presentati di volta in volta, ancora adesso non sono riusciti a fargli invitare Antonio Pennacchi (di cui teme le invettive da comunista, sia chiaro) e rischia perfino di risultare ingrato il Fazio Fabio, lui così morbido, lui che dovrebbe apprezzare quello che disse e ripete sempre Gian Arturo Ferrari, ex direttore generale della divisione Libri del Gruppo Mondadori: «Non si sente alcun bisogno di fare in Italia Apostrophe (il sofisticato programma francese dedicato ai libri, ndr). Abbiamo già la più bella trasmissione di libri ed è Che tempo che fa». Senza le asperità, senza il minimo sospetto di una funzione critica. Questo si chiedeva a suo tempo a Mike, questo offre oggi Fazio Fabio che, come Bongiorno, è solo un posto mancato di senatore a vita. Quando con Roberto Saviano hanno duettato sul «vado via dall’Italia perché» e sul «resto in Italia perché», hanno copiato Ficarra e Picone nel celebre e poetico rimbalzo «mi vergogno di essere siciliano perché» e «sono fiero di essere siciliano perché», poi hanno invitato Nichi Vendola a fare l’elenco insultante di 32 modi di dire omosessuale.

Se Fazio Fabio non fosse dunque furbo, e se Berlusconi avesse voglia di essere spiritoso, dovrebbe prenotarsi in scena, nella prossima puntata, e davanti a Saviano e Fazio Fabio recitare tutti i modi in cui viene insultato: Al Tappone, Berluskaiser, Berluscaz, Nano e così via di Banana e Banana. Ma finirebbe che verrebbe giù tutta la Fenomenologia. E al professore Eco ne deriverebbe l’obbligo di scrivere un aggiornamento.

(di Pietrangelo Buttafuoco)

L'altro Mussolini: storia del fabbro di Predappio


L'altro Mussolini. Alessandro non Benito. Il padre non il figlio. Il fabbro di Predappio non il giornalista. Il socialista. Poi il duce del Fascismo. Il volto meno noto della famiglia che ha diviso gli italiani. Il volto meno noto di un cognome cui viene associato sempre e soltanto l'artefice della marcia su Roma. Vittorio Emiliani, ex direttore del «Giorno» e del «Messaggero» ha scritto la biografia di uno dei personaggi meno noti della storia italiana a cavallo tra Otto e Novecento in Romagna. «Il fabbro di Predappio» (Il Mulino, pp. 188, euro 15) è una lettura accattivante e piacevole perché ha l'aria di un racconto.

L'autore esce dal paludamento accademico che normalmente richiede al lettore uno sforzo di concentrazione e di interesse preciso e offre invece una scrittura leggera per una trama che assume i contorni di una storia di famiglia, infarcita con ricordi tramandati dai propri nonni e bisnonni. Originario di quelle zone, Emiliani rievoca i racconti di chi conobbe direttamente il fabbro di Predappio e lo stesso Duce, nei suoi anni dell'adolescenza e della gioventù. E questo, pur ridimensionando inevitabilmente il valore e lo spessore storico della sua opera, restituisce nitidezza di contorni, freschezza dei particolari.

Alessandro Mussolini è il fabbro che non è mai stato. Un uomo del popolo. Un uomo di estrazione povera che tale è rimasto negli anni. Una bottega che non entrò mai completamente in attività, un'incudine che rimase spesso fredda senza ricevere i colpi del martello. Colpi che il fabbro decise di muovere però in politica, una passione che non lo abbandonò mai, neppure negli anni del crepuscolo. La «pulètica», come ebbero a definirla i suoi compaesani, che non lo fece diventare mai ricco, come accadeva nei borghi onesti di una volta, e ne prosciugò ogni energia. Mussolini senior, socialista convinto, fece della propria generosità uno scopo di vita e ciò lo portò ad aiutare tutti ma a restare costantemente senza un quattrino. Era donna Rosa Maltoni, la moglie, a mantenere la famiglia grazie alla propria professione di insegnante e proprio quando morì, ancor giovane, i problemi emersero nella loro drammaticità.

In questo grande affresco, ovviamente, balugina a più riprese la figura del futuro Duce, all'epoca anch'egli socialista convinto, compagno di quel Pietro Nenni, anche lui romagnolo, con il quale trascorse gli anni dei suoi esordi in politica. Due strade che poi presero differenti direzioni per due figure importanti quanto diverse nella storia d'Italia. Benito è molto più che un'ombra nella biografia dal padre Alessandro. E' una presenza costante. Permanente. Occupa e attraversa molte delle pagine di Emiliani, che evidentemente non ne ha voluto sapere di concentrarsi solo sui comprimari di casa Mussolini e non se l'è sentita di fare a meno del personaggio più discusso, controverso, che ha rappresentato pur sempre una parte importantissima della storia del nostro Paese.

(di Stefano Giani)