lunedì 20 dicembre 2010

Futuristi in fuga su Marte


Chi ha staccato i microfoni a Futuro e Libertà? Com’è che l’interventismo dei suoi esponenti di maggior spicco è cessato dal pomeriggio del 14 dicembre? Dove sono finiti i queruli agitatori che avrebbero voluto placare la loro sete giustizialista con una rigenerazione catartica del centrodestra espellendo dalla vita politica l'odiato Caimano? Spariti dalle tv, dai giornali, dai siti web sui quali imperversavano, contraddicendosi l'uno con l'altro, a tutte le ore del giorno e della notte. Credo si siano allontanati dalla politica virtuale per rientrare in oscuri anditi dove, certamente, staranno meditando intelligentissime riapparizioni. Nessuno di loro, beninteso, ha promesso di riguadagnare la scena perduta, ma non è possibile che dopo tanto discettare di sistemi massimi e minimi adesso, per via di una battaglia perduta (ancorché con perdite ingenti), vogliano limitarsi a nuotare sotto il pelo dell'acqua. È questione di tempo, vedrete, ma certamente riemergeranno. Il problema sarà semmai da quale pulpito tenteranno di rinnovare i fasti del recente passato.

Dopo Mirabello e Bastia Umbra sembrava che la presa del Palazzo d'Inverno fosse imminente, ineluttabile, indiscutibile. E invece abbiamo visto come è andata. Sorge a questo punto il sospetto che i numerosi riflettori che hanno abbagliato i futuristi-libertari siano stati accesi per mettere in ombra il Cavaliere, il suo governo, la maggioranza, non perché il verbo finiano convincesse masse in attesa dell'illuminazione. Semplicemente perché un cavallo di Troia val bene un dispiego tanto imponente di mezzi quale non è stato riservato neppure al vecchio Pci che moriva per incarnarsi in una «Cosa» (così fu chiamata all'epoca la creatura partorita da Botteghe Oscure) dall'incerto e fragile avvenire. Abbiamo avuto l'impressione in questi ultimi mesi che sia dato più rilievo da parte dei media alle gesta di Fli, ai sospiri della sua improvvisata intellighenzia, agli alti lai di una nomenklatura che fino a poche settimane prima non faceva che cantare le lodi, anche con toni francamente imbarazzanti, di Berlusconi e del berlusconismo che ai contenuti della rivolta scatenata dal presidente della Camera nel Pdl.

Non essendo riuscito nell'intento, Fli è stato in poche ore abbandonato dai mezzi di comunicazione. Ingrati. Ci hanno campato per due stagioni e con l'approssimarsi dell'inverno gli hanno dato il benservito. Non si fa così. Non è bello, non è elegante. «Repubblica» e il «Fatto quotidiano», Raitre e SkyTg24 hanno scaricato frettolosamente coloro che avevano finito per adottare il linguaggio di D'Avanzo e di Travaglio, che come i due fogli della sinistra invocavano un repulisti repubblicano, legalitario, «responsabile», nemmeno fossero dei Saint-Just in sedicesimo, perché inservibili, ormai usurati. E adesso? Il «cattiverio» che tocca a chi fallisce si è dischiuso davanti ai fillini che hanno tentato senza riuscire nell'intento. Se la gratitudine è un sentimento della vigilia, come sanno bene Fini e i suoi, l'ingratitudine è la logica conseguenza di un servizio reso male. Un po' ci dispiace.

Come trascorreremo le serate senza qualche vecchio amico perennemente in video proteso a spiegarci la sua destra aperta, dialogante, europea, felice di essere uscito da una destra evidentemente chiusa, scostante, terzomondista? E che faremo di fronte al web senza bollicine, effervescente, rinfrescante che ci raccontava che la destra più destra è la sinistra la quale, naturalmente, prima che glielo raccontassero, neppure sospettava di esserlo? Quanta malinconia. Speriamo che ogni tanto qualcuno restituisca i microfoni a chi vorrebbe avere un futuro ed anche un po' di libertà. Siamo in democrazia, diamine. Per quanto dominata da un ingordo Caimano.

(di Gennaro Malgieri)

Consigli (forse) utili al centrodestra per la rivoluzione

Se Berlusconi tro­verà dieci piccoli indiani disposti a lasciare la Tri­bù dei Risentiti che vivo­no solo per vendicarsi e boicottare, riuscirà a go­vernare fino alla fine del­la legislatura. I dieci ri­convertiti non lo fareb­bero né per idealismo né per corruzione, ma per ragionevole oppor­tunismo, come già fece­ro passando con Fini perché non erano più garantiti nel listino bloc­cato. Se poi Casini capi­rà che non sposando il rancore dei black broc di Fini ma aprendo al centrodestra potrà ere­ditarne la guida, tanto meglio, soprattutto per lui. Altrimenti toccherà governare così, senza escludere il ricorso anti­cipato alle urne. Mesi fa previdi che nella miglio­re delle ipotesi Fini sa­rebbe passato da vice di Berlusconi a vice di Ca­sini, in un cartello etero­geneo coi numeri della vecchia An. Una bella carriera: da leader a se­guace, da statista a stagi­sta di Bocchino. Non è riuscito a seppellire Ber­lusconi, in compenso ha sepolto la destra. Una prece.

Ora, per il bene del­­l’Italia, dobbiamo augu­r­arci che il governo rien­tri nella piena facoltà di guidare il Paese. Ma poi lo guidi sul serio. Augu­rando lunga vita al go­verno e non lunga de­genza, vorrei però spo­stare l’attenzione sul do­po, invocando una svol­ta. La leadership di Ber­lusconi è stata ancora una volta vincente sui numerosi avversari. Ma intorno, diciamolo pu­re, c’èil deserto. Non mi riferisco al governo che nel complesso appare una buona compagine. Dico il Pdl e la classe di­rigente. E dico la politi­ca e i suoi contenuti. Non cito, per carità di patria, la cultura. Il Re Sole brilla sempre più nel suo splendido isola­mento, poi ci sono i suoi devoti con l’insolazio­ne da re, e intorno la de­solazione. Dalla sua par­te resta, e non è poco, un gran consenso di po­polo. Ad eccezione del­la Conferenza episcopa­le, larga parte dei poteri che contano sono anco­ra ostili, ora magari in modo soft .

C’è da aprire una nuo­va stagione politica. Che non vuol dire la campagna acquisti con la promessa di posti al governo. E non vuol di­re nemmeno legge elet­torale, di cui sono auspi­cabili modifiche, ma sal­v­ando il premio di mag­gioranza. Ma nuova sta­gione vuol dire pensare una linea politica, avvia­re vere selezioni di una classe dirigente, punta­re su nuove leadership. Una nuova fase della po­­litica e un nuovo stile, più sereno e più rigoro­so, eticamente respon­sabile. Anche nei gior­nali è tempo di aprire una nuova fase, più so­bria e meno gridata, più pensante e meno militante. Non si può rispondere al conformismo della stampa allineata con la rozzezza delle semplificazioni brutali. So di esprimere una voce in dissenso, e lo faccio ora che la bufera è passata e gli sfascisti di vetrine politiche hanno sfasciato la loro stessa immagine riflessa nei vetri. Ma un Paese non può tirare avanti affidandosi solo a un leader e alla sua promessa di campare 120 anni. Deve avere il coraggio di puntare sull’Italia, sulle idee, sui contenuti, sulla selezione delle élite e di nuove guide per il futuro. Allora davanti al popolo di centrodestra si aprono due ipotesi. Una è quella di pensare che dopo la democrazia plebiscitaria tornerà la democrazia cristiana, diversamente nominata e rappresentata. E allora la soluzione più pratica, che non piace a nessuno ma non spaventa nessuno, è Casini o qualcosa che gli somigli. Soluzione minimalista, che avrebbe il vantaggio di abbassare i toni, svelenire il clima, a prezzo di un moderato ritorno alla partitocrazia, ai compromessi e ai patronati economici (password: Caltagirone). Un Casini che sposi il Pdl, releghi Fini e Rutelli al rango di baronetti, notabili o vecchie zie nubili, e si accordi per governare con i Tremonti, i Letta e i Formigoni, riconoscendo il patrocinio a Berlusconi, dialogando con l’opposizione e stabilendo un patto con Bossi. Soluzione ragionevole ma esaltante come un brodino.

L’altra ipotesi più alta e più difficile è ridare carne, anima e vita al bipolarismo e alla politica. E dunque ritentare la rivoluzione italiana, dico italiana, non la rivoluzione liberale. Considerando concluso nel 2013 un ciclo al cui interno vi sono i protagonisti presenti, Berlusconi ma anche Fini e Casini, questa sinistra e Di Pietro. Ovvero, prendere lo spunto dal compleanno d’Italia e dalla crisi economica globale per ripensare in modo originale lo Stato sociale, in una versione più agile e incisiva, meno statalismo e più comunità, meno tasse e più incentivi. Portare fino in fondo le grandi riforme strutturali, insieme a un grande progetto sull’Italia superpotenza mondiale della cultura e delle arti, rilanciando l’Italia come nazione culturale. E insieme promuovere la rivoluzione del merito e la selezione delle classi dirigenti. Magari usando anche la riforma federale, che personalmente non mi entusiasma, come elettrochoc alle istituzioni per avviare dal basso e dal territorio una democrazia responsabile che selezioni la sua classe dirigente con i criteri del merito e dell’efficacia.

Ci sono più di due anni per affrontare la crisi governando il Paese e sul piano politico per ripartire da una minoranza costituente con un progetto del genere, politico e sociale, etico e culturale. Impresa quasi disperata, con questa penuria d’uomini, di senso civico e d’idee;ma in mancanza di alternative, val la pena di tentare. Quante probabilità di riuscirvi? L’8 per mille, tanto per restare credenti.

(di Marcello Veneziani)

sabato 18 dicembre 2010

Gianfranco, gli occhiali sopra il nulla


L’idea che qualcuno possa riconoscere in Gianfranco Fini un pensiero politico, mi ha sempre affascinato e il vedere oggi al suo fianco intellettuali e colleghi di partito un tempo suoi fieri avversari, mi conferma nell’idea che non c’è niente di più reale dell’illusione. Nel suo DoppiFini. L’uomo che ha detto tutto e il contrario di tutto (Vallecchi, 228 pagine, 16 euro) Luca Negri passa brillantemente in rivista un trentennio e passa di politica finiana e si sforza di cavarci una logica: cosa nasconde, sembra chiedersi, questo funambolismo? Si sa che la natura ha orrore del vuoto e, come ogni giornalista che si rispetti, Negri cerca delle risposte. Si può essere, cito a caso, fascista e antifascista? Contro gli omosessuali e a favore degli omosessuali? Contro l’immigrazione perché corrode la nazione e a favore dell’immigrazione perché rinsalda la nazione? Contro la magistratura politicizzata e per la magistratura che fa politica? Cosa c’è dietro, di fianco, davanti?

Nel quindicennio che ha visto lo sdoganamento dell’allora Movimento sociale e l’ascesa politica di Fini, l’unico dato certo è che come segretario di partito è riuscito nell’incredibile impresa di farsi mangiare il partito stesso dal suo alleato di riferimento. Non è accaduto alla Lega di Bossi, non è accaduto all’Udc di Casini: avevano un progetto e un’idea politica e li hanno difesi, pagando dei prezzi, facendo delle scelte. Fini si è lasciato guidare dalla convinzione che un professionista della politica, quale lui si picca di essere, non avesse bisogno di alcuna strategia, potendo contare sulle proprie capacità tattiche. Ha avuto così, e così ha garantito, incarichi importanti e ministeri, in una logica di delfinato, l’unica che conosce per averla praticata con successo, che nella sua testa lo vedeva biologicamente vittorioso. Alla fine si è ritrovato senza regno e senza buona parte della corte, tutto sbagliato e tutto da rifare e, insomma, si ricomincia da capo. Rifondare un partito, diventare opposizione... L’uomo che volle farsi re, potrebbe essere il titolo del nuovo film destinato a sostituire i Berretti verdi della sua giovinezza cinematografica e politica.

Tanti anni fa, mi capitò di definire il Fini allora in corsa per la segreteria missina «un paio di occhiali sul nulla». A qualcuno, molti anni dopo, sembrò ingeneroso: era divenuto vicepresidente del Consiglio, aveva il secondo partito della coalizione, ministri di Alleanza nazionale, l’erede del Msi che fu, erano presenti nell’esecutivo... Il fatto è che si trattava di risultati talmente inimmaginabili ai tempi di quel giudizio, che per essi si poteva tranquillamente parlare di miracolo, elemento che non attiene alla politologia, anche se aiuta.

Va detto altresì, per capire meglio quella definizione, che il nulla, come pensiero politico, ha una sua logica e una sua grandezza. Nell’Italia terminale della Prima Repubblica qualsiasi scelta ideologica, di programma, di alleanze, di strategie avrebbe comportato per l’allora Msi la necessità di un ripensamento critico su se stesso, un sicuro, ulteriore ridimensionamento elettorale a breve termine, un incerto futuro in ripresa a lungo. Scegliendo di non scegliere, scegliendo cioè il nulla, Fini si attestò su una linea funeraria: celebrava le esequie del suo partito, ma ritardava il più possibile il momento del trapasso.

Poi arrivò Tangentopoli e un Msi escluso da tutti i giochi si ritrovò improvvisamente in corsa. Nei due schieramenti che andavano formandosi, il nulla finiano si rivelò un elemento vincente: permise un’alleanza con soggetti non propriamente omogenei (l’anti-italianità della Lega, il capitalismo all’americana di Forza Italia, residui e spezzoni socialisti e democristiani) favorì in un partito orgoglioso quanto sterile in termini di leadership, una concezione gregaria nei confronti del partner più forte della coalizione.

Il capolavoro del nulla fu infine Fiuggi. Così come l’eredità fascista era stata l’unica identità a cui Fini aveva ancorato un Msi ridotto al lumicino, o a fuoco fatuo, vista la logica sepolcrale che ne era alla base, il tributo antifascista fu visto come la sola via d’uscita dal rischio della ghettizzazione sempre, della non accettazione ancora. Cosa questo dovesse e potesse significare in termini politici venne considerato secondario. L’importante era togliersi la camicia nera. Al resto, semmai, si sarebbe pensato dopo. Così, non pensando, il nulla politico celebrò un nuovo soggetto e costruì il proprio trionfo.

Successivamente cominciarono i guai: il «ribaltone», la sconfitta elettorale, il potere giudiziario che sembrava aver messo alle corde Berlusconi... Fini commise allora il suo primo e unico errore, quello di pensare. Pensare politicamente, s’intende. Ritenne cioè che da numero due della coalizione potesse divenire numero uno, o quanto meno smarcarsi: fu il tempo della Coccinella e dell’Elefante. Si sa come finì.

Dopo di allora Fini tornò al nulla da cui era partito e che conosceva come le sue tasche, e per più di un decennio l’ha praticato da par suo. Era un nulla che però lasciava sul terreno alcuni elementi su cui ci si sarebbe dovuti invece interrogare per tempo. Un partito senza identità, per esempio, e senza prospettive autonome, non più identificabile, sottostimato in termini di potere reale. Una sensazione di debolezza, di tutela altrui, in secondo luogo, complice una insufficienza della sua classe dirigente. Ancora, un complesso d’inferiorità culturale, estrinsecantesi in puro e semplice becerismo intellettuale o in supina accettazione della cultura altrui, vista come legittimante della propria recente e improvvisata democraticità. In ultimo, una leadership più interessata al proprio immediato tornaconto, nel senso nobile del termine, che non al patrimonio di una forza politica in quanto tale.

Il risultato finale del nulla politico consisté nell’annullarsi completamente come partito... Avvenne, per la verità, un po’ obtorto collo, ma opporvisi a quel punto avrebbe implicato un pensare politicamente, cosa che, abbiamo visto, Fini non è in grado di fare. Si preferì la favola della cofondazione (e invece, naturalmente, era una colonizzazione), nuovi intellettuali di riferimento gliela spiegarono con la teoria che così si usciva anche, e definitivamente, dall’equivoco post-missino che di fatto ancora impiombava le sue ali di leader, e, come sottofondo, rimase il «mantra del delfino», ancora più delfino visto che Bossi e Casini avevano rifiutato di farsi inglobare nel progetto unitario. Ci fu persino chi teorizzò l’idea della «presa dal potere dall’interno», ma qui siamo sì alle comiche finali...

Ciò che è venuto dopo, è storia risaputa, di cui nel suo libro Luca Negri, come dicevamo all’inizio, cerca di capire il senso: avrebbe dovuto chiedere lumi a quella canzone di Vasco Rossi: «Voglio dare un senso/ un senso a questa storia/ anche se questa storia/ un senso non ce l’ha»... Politicamente parlando, s’intende.

Il fatto è che le uniche tattiche che Fini sa praticare, pensando siano delle strategie, sono quelle già ricordate del delfinato e del nullismo. Come ne esce è un disastro, perché comporta un’elaborazione di pensiero che non gli appartiene; una certa pigrizia fisica e la presunzione, invece tutte sue proprie, complicano poi il tutto. Detto in altri termini, si può anche ipotizzare una destra nuova, di governo o di opposizione (in fondo c’è ancora chi si chiede se ci sia vita su Marte...) e si può anche pensare che la possa incarnare un leader senza idee. Resta però da chiedersi se la tendenza al nullismo non sarà più forte. Quanto al delfinato, Fini ha sessant’anni e sempre di più comincia ad assomigliare a Carlo d’Inghilterra. Senza Camilla, è vero, ma con un cognato.

(di Stenio Solinas)

venerdì 17 dicembre 2010

Fini, il leader in declino


Una fotografia, la rappresentazione di un declino politico. Almeno così io l'ho interpretata. Con un tanto di malinconia che mi si è accesa nel ricordo di un passato assai più promettente di quanto fa presagire il presente. Vedere Gianfranco Fini seduto tra Luciana Sbarbati e Giorgio La Malfa, degnissime persone e la senatrice repubblicana persino amica, mi ha fatto capire che l'ex leader di An, convocato come gli altri alla riunione indetta da Casini per dare vita a un coordinamento parlamentare preludio della costituzione di un non precisato Polo della nazione, mi ha fatto capire che una lunga stagione di passioni e prospettive è definitivamente alle nostre spalle. Nostre, nel senso di chi ha condiviso l'idea, un po' romantica se si vuole, di una rivoluzione conservatrice che da destra muovesse per conquistare l'Italia nel nome di una concezione della politica che coniugasse valori tradizionali e progetti modernizzatori.

Quel tavolo apparecchiato dai fantasmi del pentapartito, riemersi dopo 20 anni dal catabombale destino nel quale erano stati precipitati dalla storia, mi è sembrato una sorta di vendetta perpetrata contro chi aveva contribuito alla dissoluzione di un mondo per inventarne uno nuovo. E Fini, in questa wagneriana ipostatizzazione del passato che torna, mi è sembrato il convitato più improbabile, ma anche il più inquietante.

Forse mi sbaglio, ma se l'avvenire di chi per ventitré anni ha tenuto nelle sue mani la destra italiana si lega ora a quello di raccogliticci epigoni del centrismo decadente, vuol dire che la politica italiana, al di là del berlusconismo, che pure si dà morto, e sepolto, è impossibile che vada oltre la palude contemporanea, mentre c'è assoluto bisogno che si contruiscano nuove prospettive per l'Italia che non può restare avvinta a stereotipi.

Sono loro, a cominciare da Fini, che lasciano a Berlusconi solo ad immaginare un Paese che sia capace di reagire ad una possibile (per quanto remota) deriva sinistrorsa; sono loro, i cultori di un neo-nazionalismo senza spirito nè argomenti, ad accellerare la disfatta di una nazione che invece avrebbe bisogno di ritrovarsi e non di disperdersi nei rivoli di un partitismo patetico e paradossale allo stesso tempo nel momento in cui la gente chiede unità d'intenti nel misurarsi con problemi decisivi per il futuro.

Che cosa ci fa Fini in quella compagnia? O meglio che ci fanno Casini, Buttiglione, Rutelli con Fini posto che la sfida a cui mi riferisco è di carattere essenzialmente valoriale? Non vedete come stridono le immagini di un'eticità perduta sullo sfondo di un relativismo prossimo al nichilismo? Laicisti e cattolici per mettere in difficoltà ancora una volta il Pdl? Per uno Stato nuovo, per un'economia diversa, per una società organica? Ma tutto questo non c'entra niente con un Polo che s'intitola alla nazione senza declinarla. Sa di vendetta, piuttosto, contro un voto parlamentare che ha sancito la saldezza di una maggioranza ancorchè striminzita, ma politicamente promettente, dal momento che esssa impedisce pateracchi partitocratici, governi istituzionali, esecutivi di emergenza. E Fini, ancora, per quel tanto di destra che gli rimane nel cuore, come si colloca in quella fotografia, mentre anche i suoi intellettuali più avveduti gli suggeriscono un po' di prudenza nel disegnare il suo personale cammino? Ce lo chiederemo a lungo nei prossimi mesi anche se per molti non ne vale certamente la pena.

(di Gennaro Malgieri)

mercoledì 15 dicembre 2010

Silvio il costruttore Fini il distruttore: duello tra opposti


Ho provato a guardare in faccia Fini e Berlusconi alla vigilia del duello finale. Li ho guardati mentre parlavano alla gente, alle telecamere, ma non ho badato a quel che dicevano. In fondo erano abbastanza scontati i loro messaggi, era più significativo notare quel che esprimevano le loro facce, i loro gesti e le loro smorfie. Delle parole pronunciate ho conservato solo il timbro di voce, la modulazione e gli sguardi che le accompagnavano, senza curarmi dei loro argomenti. Mi interessava vederli dal punto di vista umano. Guardarli rispetto alla loro vita, alla loro verità.

Per calarmi di più nella loro vita ho cercato di pensarli più giovani, li ho proiettati nel loro passato, li ho immaginati perfino bambini, e poi tornando al presente li ho visti tanto invecchiati. Ma ho notato una differenza abissale tra i due. Berlusconi tenta, anche in modo artefatto e grottesco, di resistere alla vecchiaia e alla morte, lo vedi che difende a morsi e sorrisi la vita, con un impeto, una determinazione assoluta. Fini invece sembra passato dalla parte della morte; la sua faccia lunga e ormai rugosa, i suoi occhi, perfino i suoi sorrisini, lanciano un solo messaggio lugubre: devi morire, vieni via con me, non puoi sfuggire, ti porterò con me nella tomba.

Non è solo la lotta per la sopravvivenza del governo che inchioda uno a difendere la vita del governo e l’altro a volerne la morte. No, c’è un messaggio che travalica la vicenda del governo e si fa personale, autobiografico. In Berlusconi c’è l’horror vacui, appena esorcizzato e mascherato nell’ottimismo iperdentato; in Fini c’è cupio dissolvi, appena mascherato e alleggerito dal viso beffardo, con le sopracciglia che si alzano per rimarcare il sorriso. Alle spalle del primo c’è l’indole di chi ha sempre fondato, costruito, piazzato. Alle spalle dell’altro c’è l’indole di uno che si è sempre opposto, ha votato contro, ha frenato e disciolto. C’è asprezza in entrambi, e vistosa memoria di torti subiti, si notano le cicatrici della lotta; ma si vede la differenza tra uno che combatte per la vita e l’altro per la morte.

In Fini le rughe che scendono accanto alle labbra segnano un incattivimento e una sete di vendetta; nel suo sguardo si nota una meticolosa ferocia, una voglia di farla pagare, un risentimento d’inferiorità a lungo covato. Non c’è l’ambizione della conquista, il progetto futuro, la tensione ideale verso il nuovo; c’è una studiata, sofferta, biliosa, carica di odio unita a una punta di sadismo, interamente rivolta al passato. Ma lo vedo lontano dal suo passato giovanile, lontano dai suoi, ricordo la dolcezza di sua madre, le tagliatelle caserecce preparate con le sue mani e mangiate con lei a casa di Patrizia... Passato sepolto.

In Berlusconi lo sguardo è alterato dal lifting, sembra la maschera del Casanova di Fellini o di un Luigi XIV del nostro secolo, con la chirurgia estetica al posto della parrucca e del trucco pesante. Ma si nota nel movimento degli occhi e nel serrare le labbra la disperata tenacia di chi vive in stato di assedio e non rinuncia a una sconfinata ambizione; il petto è gonfio come se sotto la giacca ci fosse una corazza, un giubbotto antiproiettile, qualcosa di coriaceo per difendersi. A volte ha la stessa espressione di un anno fa: un altro duomo gli ha lanciato in faccia un ex alleato. Sarà vanaglorioso ed egocentrico, ma si nota che difende quel che ha costruito, lotta per la vita. E sotto quintali di cerone è più autentico, più passionale, c’è più umanità dell’algido rivale che usa a rovescio le parole responsabilità, legalità, correttezza istituzionale.

Li guardo e non penso alle loro posizioni in politica, li guardo a cavallo della loro vita. Uno ha esagerato, in tutto, ha strafatto, ha parlato troppo, ha fatto di tutto e di più. Ha pure frequentato troppe cocottes; qualcuno dirà, meglio pagarle per una sera che sposarsele... Ma ha pure costruito imprese, imperi, reti, squadre, alleanze, partiti, maggioranze, governi, e a rovescio ha seminato promesse, ricchi premi e cotillons, pasticci e scheletri nell’armadio. È l’uomo che ha dato il suo nome agli ultimi sedici anni d’Italia, nel bene e nel male. L’altro invece ha fatto sempre troppo poco, ha giocato sempre di rimessa, ha vissuto da secondo, ha detto molto ma non ha mai fatto nulla, non ha sbagliato perché non ha osato o inventato qualcosa, ha comiziato per una vita ma non ha mai governato neanche un condominio, ha ereditato partiti e li ha seppelliti, ha ricevuto presidenze, rendite di posizioni, patrimoni immobiliari dal vecchio partito. Raramente ha detto nei suoi primi quarant’anni di vita politica qualcosa fuori luogo; anche quando esaltava Mussolini lo faceva nel quadro del suo contratto di impiego come segretario del Msi. Solo negli ultimi due anni ha pazziato, ma per una vita ha detto solo misurate ovvietà, nullità incravattate...

Ora li vedi nemici, il Troppo e il Nulla, interpreti del film Mors tua vita mea (o mors tua voto mio). È l’ultima puntata di una soap opera durata sedici anni; tanto, anche se meno di Beautiful. Il colpo di scena è il titolo sbagliato, perché la fine del ciclo berlusconiano comporterebbe la fine del suo frutto avvelenato, il finismo. Non capisci la ragion politica, o addirittura la ragion patriottica, di questo conflitto. Capisci che c’è solo un’origine e una motivazione personale. Tifi per la vita contro la morte, s’intende; ti auguri che i becchini restino a mani vuote, auguri all’Italia che la vita vinca sulla morte. Ma con l’augurio che poi si viva e non si sopravviva. E si pensi davvero al futuro.
P.S. A Pier Ferdinando Casini ricordo solo il suo anagramma: «Se andrai con Fini perdi». Si dimetta dall’agenzia di pompe funebri.

(di Marcello Veneziani)

venerdì 10 dicembre 2010

Una vergogna di sindaco, un fighetto che lavora solo per la sua setta


Il più arrabbiato per la parentopoli del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è uno che nell’efficacia della destra sociale al potere ci aveva davvero creduto, prima di vedere come è stata gestita la Capitale in questi due anni e mezzo: Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista di Panorama, cresciuto da irregolare tra le file del Movimento sociale e il Secolo d’Italia. “Sono deluso come uno che scopre violenze terrificanti dentro casa sua e si chiede: e io, povero fesso?”.
Buttafuoco, i numeri sono da ufficio di collocamento: 854 assunti all’Atac e 1400 all’Ama da quando Alemanno ha vinto le elezioni.

È tipico della sua cultura che ha radici settarie. È la vergogna dell’Alemannismo, anzi la vergognissima.

Si aspettava qualcosa di diverso?

Hanno cercato di farsi democristiani a suon di clientele familistiche. Non ci sono giustificazioni, a maggior ragione per chi è cresciuto in questo mondo. Chissà come starà soffrendo Pino Rauti.

Anche quella destra, quindi, al potere si è comportata come tutti gli altri.

Eppure erano quelli che mordevano la realtà, che andavano sui marciapiedi, ma per altre storie.

Come reagisce, secondo lei, la base elettorale di Alemanno a questa politica delle clientele?

Non esiste più un’area culturale di riferimento. Gli attivisti del Movimento sociale non votano più per nessuno.

Neanche lei?

No.

Ma che destra era quella da cui viene Alemanno?

La destra sociale è solo un artificio, non c’entra col conservatorismo né col moderatismo: è una dottrina politica che nasce nel solco del Novecento e che ha avuto una sua ragione d’essere nella militanza in favore del popolo e delle sue priorità. L’idea di farne una destra arriva a posteriori, è posticcia.

Era poco destra e molto sociale.

Per dirla con Antonio Pennacchi, è stata un’esperienza politica assolutamente di sinistra. Fondata sull’emancipazione, la tutela dei lavoratori e l’idea di dare un futuro a chi aveva difficoltà a ritagliarsi uno spazio nella società italiana.

Esiste ancora questa visione ?

Solo in certe analisi di Gianni De Michelis o di Massimo Fini, nelle pagine di Pennacchi, nelle atmosfere di qualche ambiente. Ma è un mondo che è finito nel secolo scorso, che forse sopravvive da qualche parte fuori dal perimetro europeo.

Un bel cambiamento rispetto alla parentopoli di oggi?

Già. Non è certamente il Movimento sociale di Beppe Niccolai, né quello di Giorgio Almirante e tantomeno di Pino Rauti.

Hanno piazzato figli, nipoti, mogli e persino una ex cubista nelle municipalizzate.

Tipico. Si sono ritrovati fra le mani un giocattolo che è diventato l’arma con cui si stanno massacrando.

Colpa dell’influenza berlusconiana del bunga bunga?

No, assolutamente. Si fanno del male da soli.

Qual è la differenza tra Alemanno e l’altro uomo di destra che ha guidato il Lazio, Francesco Storace?

Storace non aveva la tribù, è più simpatico, più ruspante. Alemanno si è infighettito parecchio e i suoi uomini sono sempre stati settari… Chissà ora quanti anatemi mi lanceranno.

Qual è stato l’errore più grande di Alemanno?

Il sindaco di Roma deve fare il sindaco di Roma. Invece che fa? Politica: costruisce il suo gruppo, piazza i suoi uomini, coltiva il suo giardino di consensi. Avrebbe dovuto occuparsi delle strade, delle buche, del traffico.

Chiudere le buche porta più consensi di qualche centinaio di assunzioni?

Certo! Ma Gianni si ubriaca facilmente: è bastato che gli arrivasse all’orecchio che forse il Cavaliere voleva lui come erede. O che i delusi di Fini intasassero i centralini del municipio urlando “Gianni aiutaci tu”. E la fine risulta imbarazzante. È diventato un interventista politico, politichese e politicuzzo. Flavio Tosi, per dire, è un sindaco di tutt’altro livello.

Cadono già le prime teste, come quella del capo-scorta di Alemanno, Giancarlo Marinelli.

Marinelli è stato un vero signore ad andarsene. Ma sono altri che si devono dimettere.

Cioè Alemanno?

Certo. Marinelli gli ha dato una bella lezione. Ma io, che amo molto i retroscena, sono convinto che dietro questa operazione si debba temere un’aggressione più dall’interno che dall’esterno.

Complottista.

No, hanno fatto tutto da soli. Ma c’è chi è pronto ad approfittarne.

Facciamo i nomi.

L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Aspetta in un angolo, con l’acquolina in bocca, immaginandosi già la campagna elettorale come prossimo sindaco di Roma. Ho notato strane mobilitazioni. È nell’aria: non può stare con le mani in mano.

E chi lo dice?

Se ne parla negli ambienti di città, dove ci si annusa, ci si cerca, ci si dà appuntamento: dove si decidono le cose più concrete.

Quindi Alemanno è considerato spacciato?

Ha preso una brutta botta. Pari all’appartamento di Montecarlo di Fini.

Qui i favori ai parenti sono molti di più.

Lo dico col cuore, è una vergogna totale. Dalla casa di Montecarlo, alle suocere in Rai, a Parentopoli sono colpi durissimi. Ti hanno levato un mondo, un partito. Con chi ne parli? Cosa fai? È fi-ni-ta!

Ma Fini potrebbe ancora intercettare i delusi?

Sì, se intende Massimo. È l’unico Fini che riconosciamo. Gianfranco no.

Signorelli: il mostro nero che non aveva colpe


Ieri la mia giornata è cominciata nel segno del lutto. Quando alla mattina ho aperto il computer, era già arrivata la mail della mia amica Silvia Signorelli dove mi annunciava che suo padre, Paolo Signorelli, era morto la sera prima. Aveva 76 anni. La lotta corpo a corpo con il tumore, lotta che da oltre quattro anni Paolo conduceva con grande coraggio e dignità personale, s’era conclusa. Scompare uno dei protagonisti più marcati della storia della destra italiana del dopoguerra, uno che a metà degli anni Ottanta venne indicato da alcuni magistrati d’accusa come il mostro dei mostri e che per questo s’è fatto dieci anni di cella: e non c’era ignominia della destra estrema che non gli fosse attribuita, dall’aver ideato la “strage di Bologna” all’essere stato mandante dell’assassinio di alcuni magistrati famosi. Tutte accuse da cui verrà definitivamente assolto.

Tra i Cinquanta e i Sessanta Paolo era stato uno dei fondatori e uno dei ragionatori principali del gruppo di estrema destra “Ordine nuovo”, una molecola che s’era staccata furiosamente dal corpo del Msi perché giudicato troppo accomodante e pantofolaio. Non è che Paolo avesse deciso di scherzare col fuoco, di più. Era un nemico frontale della democrazia di massa, era uno che non rinnegava nulla del “fascismo eroico”. Era uno che non si sarebbe messo i guanti bianchi ove avesse avuto di fronte quelli della sinistra. Al tempo della mia giovinezza politica, loro di “Ordine nuovo” agli occhi di noi studenti di sinistra erano dei “Démoni” in carne e ossa. Il capo dell’ “Ordine nuovo” di Catania, la mia città natale, andava in giro con un pugno di ferro in tasca. Di tanto in tanto irrompevano nelle sedi nostre e non avevano l’aria di scherzare.

Quel capo catanese di “Ordine nuovo” diverrà poi uno dei consiglieri politici di Arnaldo Forlani. Era stato Paolo Signorelli a farlo espellere da “Ordine nuovo” perché estremista e inattendibile. Quanto a me, di Signorelli e della sua bellissima famiglia ero divenuto amico da una quindicina d’anni. Di quella storia che così tanto mi appassiona che avrei voluto scriverci un libro, la storia prima dell’odio frontale e poi del riavvicinamento umano tra “noi” di sinistra e “loro” di destra, la vicenda di Signorelli è una pietra miliare. Mi spiego.

“Paolo Signorelli, il Teorema, il Mostro, il Caso”. Era il titolo di un quaderno edito nel 1988 dal Comitato di Solidarietà pro Detenuti Politici che aveva come prefatore una figura adamantina del mondo radicale, Mauro Mellini. Signorelli era divenuto “il Mostro” nel 1986, quando lo condannano a 12 anni perché corresponsabile della strage di Bologna. Più tardi gli appiopperanno una condanna all’ergastolo. Come scrive Mellini, il curriculum e la silhouette di Signorelli lo facevano “un personaggio fatto apposta per le stragi, il terrorismo, l’eversione sanguinosa”. Uno più mostro di questo professore di liceo che alla politica e all’ideologia la più furibonda dedicava ogni spasmo della sua vita e della sua passione? Impossibile. Un personaggio letterario, insomma: un mandante che era assieme “tenebroso” e perfettamente riconoscibile. Uno che ce l’aveva scritta in faccia la professione che gli era più congeniale: quella di imputato. “Di professione imputato” è il titolo del libro che Signorelli scrive quando tutte le accuse sono cadute, quando il professore di liceo non è più il “Mostro”, ma uno che s’è fatto ingiustamente dieci anni di cella. Una copia di quel suo libro Paolo me la mandò il 25 giugno 1996 con la dedica: “Forza Uomo!”.

Era successo difatti, ed era la prima volta nella storia del secondo dopoguerra, che un protagonista acerrimo della storia della destra la più risoluta divenisse l’oggetto di una campagna di solidarietà che metteva fianco a fianco uomini di sinistra e uomini di destra. C’è che nel processo contro Signorelli le accuse e i fatti non vanno d’accordo. C’è che agli occhi di molti le accuse contro di lui appaiono insussistenti. Una cosa è l’avere scherzato con il fuco, e Signorelli lo ha fatto; tutt’altra cosa è avere detto a Pier Luigi Concutelli “Vai e uccidi il giudice Occorsio!”, e di questo non c’è nessuna prova. Scatta la campagna in nome della verità e della giustizia. Entra in campo “Amnesty International” a denunciare che il detenuto Paolo Signorelli è stato privato dell’assistenza sanitaria di cui aveva bisogno. La moglie di Paolo, Claudia Signorelli, manda una lettera ai familiari delle vittime della bomba di Bologna dicendo che il loro dolore è interamente condiviso da lei e da suo marito. Signorelli denuncia “per calunnia” i magistrati di Bologna che lo accusano.

A metà del 1987 cominciano i digiunti congiunti di alcuni dei “nostri” e di alcuni dei “loro”. A far partire la sequenza dei digiuni è nientemeno che il futuro sindaco di Roma, Francesco Rutelli. Poi il deputato missino Tommaso Staiti e il deputato radicale Emilio Vesce, e il giornalista Giorgio Pisanò, e mentre arrivano le adesioni di Enzo Tortora e dell’attrice Ilaria Occhini e di Sergio D’Elia, ex terrorista di Prima linea e in quel momento segretario federale del Partito Radicale.

La prima volta nella storia d’Italia, che “noi” e “loro” fossimo l’uno accanto all’altro. Altro che di avere scherzato con il fuoco, Paolo Signorelli verrà assolto da ogni cosa. “Noi” e “loro” lo festeggiammo in una sala attigua a Porta Portese, un pomeriggio di 14 anni fa. Paolo era sorridente, orgoglioso, uno che non rinnegava niente. Asperrimo com’era, io gli ho voluto bene come lo si deve a un avversario leale e umano. Addio, Paolo.

(di Giampiero Mughini)

Quella Carta non è un vangelo


Un bell’applauso per la Costituzione. Se vuoi figurare da buono e giusto, copriti dietro la Costituzione. Da Fazio alla Dandini, dalla Scala ai Tetti universitari, dalla Camera ai Teatrini, dalla Scuola ai Cortei, citare la Costituzione e magari leggere un suo articolo garantisce l’applauso automatico del pubblico e la finta commozione del presentatore. Ricorda Petrolini: Costituzione! Bene, bravo bis. Costituzzione, per dare più forza, Bravo! Grazie!... e via dicendo. Un paese di pappagalli ammaestrati. Anche la mobilitazione di piazza della sinistra di domani ha come parola chiave e titolo di accesso la Costituzione.

Ora non aspettatevi che io sberleffi la Costituzione; mi limito a coglionare gli usi impropri e meccanici, gli abusi e la retorica che fioriscono intorno alla parolina magica. Non disprezzo affatto la Costituzione. Articolo primo, perché è la Costituzione del nostro Paese e va rispettata. Punto secco. Articolo secondo, perché è una buona Costituzione, con principi validi, e fu una buona sintesi, il miglior compromesso possibile fra le culture più significative del tempo: la cultura cattolica e i suoi principi cristiani, la cultura liberale e i suoi principi laici, la cultura socialista e i suoi principi egualitari. Accanto alle tre culture visibili c’era pure un convitato di pietra, innominabile ma presente nella Carta: era la cultura della nazione e dell’umanesimo del lavoro, della funzione sociale della proprietà e della partecipazione agli utili, della salvaguardia dell’ambiente e dell’economia sociale di mercato. Ma non si poteva citare perché ricordava Gentile e Rocco, Bottai e il passato Regime, anche se poi dal Concordato al Codice, dalle leggi in difesa dell’ambiente alla riforma della scuola, molto della Legge veniva da lì. Infine, ci piacerebbe che la Costituzione fosse rispettata in tutti i suoi articoli e non solo in quelli che si citano. Per esempio il diritto alla vita e la sua difesa, la tutela e la promozione della famiglia, il rispetto dei doveri, il riconoscimento della partecipazione, la regolamentazione di partiti e sindacati... Pensate che il primo a citare gli articoli della Costituzione nei dibattiti politici, a portarla nell’arena polemica dell’opposizione, fu uno che era fuori dell’Arco costituzionale. Dico Almirante, che chiedeva l’osservanza degli articoli 39,40 e 46 della Costituzione. Dunque, rispettiamo la Costituzione, perché è la nostra legge e perché lo merita.

Ma come tutte le carte e i compromessi, non fu dettata sul Monte Sinai da Dio in persona, e nessuno può arrogarsi il ruolo di Mosè. Le costituzioni possono mutare nella parte più dinamica, sono figlie della storia e non reliquie eterne. La forma parlamentare della nostra repubblica può ad esempio evolvere in forma presidenziale, il riconoscimento della privacy, i diritti dei single e degli omosessuali, all’epoca non previsti, sono oggi inevitabili; la denatalità e la senilità della nostra popolazione vanno tenute in conto, così come la considerazione che la Repubblica fondata sul lavoro non è più costituita in maggioranza da lavoratori, tra pensionati, ragazzi, disoccupati e persone a carico.

Modificare la Costituzione non è peccato mortale. Ma il punto non è ancora questo. Il punto è proprio quello da cui siamo partiti. Si può davvero pensare che un paese debba sentirsi unito e solidale nel nome della Costituzione, si può davvero credere che l’amor patrio si riduca al patriottismo costituzionale, come pensano in troppi nei Palazzi, da Napolitano alla sinistra tutta e ora a Fini?

No, per tre ragioni. Primo, perché ciò che unisce un popolo non può derivare dall’alto, da una Carta voluta dai partiti, ma deve venire non dirò dal basso ma dal profondo, dalla vita, la storia e l’anima di un popolo.

Secondo, perché la Costituzione è una Legge, un sistema di regole da osservare e da rispettare, ma le regole non suscitano amore, non generano una comunità calda e partecipe. La Costituzione è un regolamento per sentirsi concittadini, ma non è l’essenza dell’italianità e della cittadinanza. Sarebbe come dire che l’anima di una città è nei cartelli stradali che regolano la circolazione, tra permessi e divieti; o al più che la sua essenza sia nelle mura di cinta e non nelle piazze, nelle chiese, nelle torri e nei campanili, nella vita e nelle persone che la abitano e la animano. Terzo, perché la Costituzione è nata appena il 1948, è troppo recente per suscitare l’amor patrio, soprattutto per un paese speciale, così ricco di storia come l’Italia. No, il patriottismo costituzionale è la riduzione di un amore a carta bollata, di un’appartenenza a un regolamento, di una grande storia millenaria a una piccola repubblica sessantaduenne. L’unico vero patriottismo che può suscitare amore è il patriottismo della tradizione, che comprende la nostra vita, la nostra memoria storica e le nostre culture, le nostre tradizioni civili e religiose, la nostra lingua e i nostri usi, i nostri artisti e letterati, sovrani e condottieri e il popolo nella sua integrità, le diverse italie che compongono l’Italia e ne fanno la ricchezza, la vita e il carattere. In una parola la civiltà. Se permettete, l’Italia è Dante prima di Calamandrei. Voi che vi credete depositari della Cultura, avete un’idea così tristemente notarile dell’amor patrio, negando la cultura e la civiltà che lo sostanziano. Restituite l’amor patrio alla luce del paesaggio, alla natura e alla cultura, non sequestratelo nei regolamenti, nelle aule e nei tribunali. Lasciatelo correre per le vie e le campagne, per il mare e per i monti d’Italia, non chiudetelo nei Palazzi, tra i custodi della Costituzione. L’amor patrio è anima e corpo, non è carta e articoli di legge.

(di Marcello Veneziani)