venerdì 30 gennaio 2009

Firenze 1944-45, intellettuali nella tempesta

Un saggio di Marco Cigni ricostruisce gli anni tumultuosi della città toscana nella Rsi

Discorrendo, una settimana fa, con Giampaolo Pansa, è capitato a chi scrive di convenire con lui su un’impressione comune. Si tratta dell’avvento, nelle redazioni come nel mondo universitario, di una nuova generazione che si potrebbe definire postideologica: una generazione di 30-40enni cresciuti quando il Muro era caduto e la Guerra Fredda volgeva alla fine, capaci di guardare anche agli eventi del fascismo e della guerra civile con un distacco impensabile non solo nei loro padri, ma anche nei loro fratelli maggiori. D’altronde, leggendo molta saggistica, nata in molti casi dallo sviluppo di tesi di laurea, si ha l’impressione che qualcosa stia effettivamente cambiando, almeno fra i giovani più colti. Un esempio in questa direzione è costituito dal saggio di Marco Cigni Il fascismo repubblicano fiorentino (Edizioni Becocci, pp. 192, € 10), appena edito da una piccola casa editrice del capoluogo toscano e nato dallo sviluppo di una tesi di laurea discussa al “Cesare Alfieri” col professor Luigi Lotti come relatore. Lotti, che ha firmato la prefazione dell’opera ed è stato a lungo preside della facoltà, si distingue da tempo per la capacità di guardare con serenità all’esperienza fascista (e anche neofascista). Più di vent’anni fa, nella relazione tenuta al convegno La Toscana nel secondo dopoguerra, organizzato nel dicembre 1988 dall’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione, ebbe il coraggio di sostenere che la scelta del Comitato toscano di liberazione di insorgere l’11 agosto 1944 nacque «da un errore di valutazione del Cln toscano che voleva fare un’insurrezione simbolica nel momento in cui i tedeschi avessero abbandonato la città». Negli stessi anni, aggiornando la gloriosa storia dei partiti politici italiani di Carlo Morandi, riedita dalla Le Monnier, Lotti si segnalava per l’obiettività con cui trattava l’evoluzione del Msi, di cui prevedeva la fine dell’emarginazione anche in seguito alla progressiva «storicizzazione del fascismo». Il noto saggio del politologo Piero Ignazi sul “polo escluso” era d’altronde ancora di là da venire.Più di recente, Lotti ha promosso per i suoi laureandi una serie di studi monografici sul fascismo fiorentino negli anni della Rsi, di cui non fa parte solo il saggio di Cigni. Prima di lui si era cimentata su un argomento analogo Monica Pieraccini, in uno studio di ancor più vasta portata, poi edito in un volume già recensito su queste pagine (Firenze e la Repubblica Sociale Italiana. 1943-1944 Edizioni Medicea, Firenze 2003). Rispetto al saggio della Pieraccini, il volume di Cigni non cerca di ricostruire l’intera vita sociale e culturale del capoluogo toscano, ma concentra la sua attenzione, come recita il sottotitolo, sull’analisi della «organizzazione politica e militare negli undici mesi della Rsi». Anche in questo caso, si tratta solo all’apparenza di un saggio di storia locale, per il ruolo nazionale svolto in questo periodo dal fiorentino Alessandro Pavolini, che era segretario del Partito fascista repubblicano. Sulle rive dell’Arno, facendo organizzare i franchi tiratori, che sparavano senza indossare un’uniforme, Pavolini scelse per la prima volta di adottare tecniche della guerriglia adottate fino allora solo dalla Resistenza. E proprio dall’esperienza del capoluogo toscano maturò la sua decisione di istituire le Brigate nere, contrapposte anche nella denominazionealle brigate partigiane. La ricerca di Cigni, che si basa in buona parte sulle carte dell’Archivio centrale dello Stato e di altri fondi archivistici, ma anche sulla testimonianza del capo ufficio stampa del Pfr, Mario Vannini Parenti, e sui bollettini dell’Istituto storico della Repubblica sociale italiana, fornisce un quadro quasi completo sul personale politico del fascismo repubblicano fiorentino. La ricostruzione è tutt’altro che apologetica, ma non irrispettosa della complessità delle motivazioni che accompagnarono anche nel capoluogo toscano l’adesione alla Rsi. Un caso tipico: i due segretari federali che si succedettero negli undici mesi della Rsi sulle rive dell’Arno: Gino Meschiari, uomo “idealista e moderato”, di estrazione repubblicana, che cercò di ripulire la federazione dai delinquenti comuni e si oppose alla fucilazione degli ostaggi, e il suo successore Fortunato Polvani, ex squadrista, che fu tra gli organizzatori dei franchi tiratori.Dalla ricca documentazione di Cigni trovano conferma impressioni che chi scrive si era sentito esternare da persone che avevano vissuto quegli anni, come il fatto che il fascismo repubblicano fiorentino avesse interpretato la svolta sociale della Rsi in chiave populista, senza riuscire a “sfondare” nel proletariato operaio, ma aprendo le sue file a un sottoproletariato fra cui non mancavano i pregiudicati per reati comuni (inquietanti i precedenti di alcuni membri della banda Carità e di Giovanni Martelloni, responsabile dell’Ufficio affari ebraici). Se una critica può essere mossa al saggio è quello di avere limitato la ricerca all’ambito politico-militare, escludendo un aspetto tutt’altro che minoritario del fenomeno: la collaborazione di numerosi esponenti della cultura alle iniziative della Rsi. Il fascismo repubblicano fiorentino non fu soltanto fanatismo politico e in certi casi delinquenza comune. Fu anche Gentile assassinato, fu Primo Conti, Ardengo Soffici, Giovanni Spadolini, Arrigo Serpieri, che parteciparono all’esperienza di Italia e Civiltà. Fu quella straordinaria e purtroppo dimenticata figura di esploratore e geografo che corrisponde al nome di Giotto Dainelli, podestà di Firenze durante la Rsi, ma anche successore di Gentile all’Accademia d’Italia, epurato ma infine riabilitato. Non sempre si può però parlare di una generica contrapposizione fra moderati ed estremisti. Esponenti del fascismo repubblicano furono infatti almeno due qualificati esponenti della destra culturale: Attilio Mordini, vicino per qualche tempo a Carità, e Aniceto Del Massa, incaricato da Pavolini, insieme al suo segretario Puccio Pucci, di organizzare un servizio di spionaggio nei territori occupati dagli alleati, la cosiddetta organizzazione Pdm, dalle iniziali di entrambi. Se nel caso di Attilio Mordini, futuro collaboratore dell’Ultima ed esponente di spicco di un certo tradizionalismo cattolico (quello non oltranzista e aperto al dialogo inter-religioso), sull’apprezzamento generale poté influire la sua giovane età, più complesso è l’itinerario ideologico di Del Massa. Nato a Prato nel 1898, cresciuto nel clima delle riviste fiorentine del primo Novecento, bulimico autodidatta poco incline agli inquadramenti ideologici, dopo la partecipazione alla grande guerra Aniceto Del Massa aderì al fascismo, divenne redattore del quotidiano La Nazione, ma soprattutto condivise con Arturo Reghini, inquieto intellettuale di estrazione neopitagorica e massone dichiarato, l’esperienza esoterica delle riviste Atanòr e Ignis, per poi confluire nel cosiddetto “Gruppo di Ur” con Julius Evola e René Guénon. Ma il suo impegno culturale non può essere ridotto solo a queste esperienze che, per lui come per altri intellettuali, rappresentarono senz’altro un episodio importante. Per esempio, fu anche un finissimo critico d’arte e la sua raccolta di disegni di Lorenzo Viani, edita con Hoepli nel 1942, costituisce una delle prime testimonianze sul maestro viareggino. Dopo la guerra Del Massa pagò anche con il campo di concentramento, prima a Padula e poi a Terni, e con l’epurazione il suo impegno politico, salvo riprendere l’attività giornalistica e divenire responsabile delle pagine culturali del nostro Secolo d’Italia, di cui mantenne la responsabilità fino al 1961. Negli anni della vecchiaia tornò agli antichi interessi esoterici, avvicinandosi al taoismo e all’antroposofia di Rudolf Steiner. Morì nel 1975, nella generale indifferenza, ma negli ultimi anni si è registrato un ritorno d’interesse sulla sua figura. Se Giuseppe Parlato, nel suo Fascisti senza Mussolini, ne ha ricostruito il ruolo politico al termine della guerra, studiosi come Angelo Jacovella, Gianfranco de Turris e Gennaro Malgieri hanno cercato d’inserirne l’esperienza all’interno di una più ampia componente spiritualistica della cultura italiana. Jacovella, che già nel 2000 ne aveva ricostruito il sodalizio e l’interlocuzione con Ezra Pound in un saggio pubblicato sulla rivista Atrium, ha pubblicato di recente, per le edizioni “La Finestra”, una raccolta di suoi scritti, Pagine esoteriche, con prefazione di Malgieri. E Gianfranco de Turris gli ha dedicato adeguata attenzione nel suo volume sul Esoterismo e fascismo (Edizioni Mediterranee), in compagnia di autori come Arturo Reghini, Julius Evola, Massimo Scaligero, Guido De Giorgio, Roberto Assagioli, il duca Colonna di Cesarò. Al tempo stesso, la Fondazione Ugo Spirito ha acquisito le vastissime carte personali di Del Massa, comprendenti, fra l’altro, diari e testi inediti di notevole valore. Ci sono forse le condizioni per uno studio biografico su uno dei non pochi intellettuali della destra italiana che, tra fascismo, guerra e dopoguerra, riuscirono a coniugare politica, esoterismo e cultura.

di Enrico Nistri (Il Secolo D'Italia)

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