lunedì 26 ottobre 2009

Mio padre Ezra indagò sull’eccidio di Katyn

Abbiamo incontrato Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, nel suo castello di Brunnemburg in Tirolo. L’ombra del grande poeta sembra aleggiare in ogni pietra e in ogni angolo del castello millenario, che vide la stesura degli ultimi Cantos. Qui si custodiscono i suoi cimeli (dall’elegante cappotto ai mobili fabbricati da lui stesso) e una biblioteca straordinaria, divenuta tappa obbligata per studiosi di tutto il mondo. Mary ha dedicato la vita allo studio e alla traduzione delle opere del padre, una missione di cui fu investita dallo stesso Pound durante la Seconda guerra mondiale, quando era una ragazza appena quattordicenne.


Come colloca la figura di Ezra Pound nella letteratura del ‘900?

«I Cantos di Pound sono la Divina Commedia degli Stati Uniti d’America, anche se forse gli americani non l’hanno compreso. Pound voleva ripartire da Dante e quando scriveva era pieno di speranza per le sorti americane. Fin dal 1910-1911, con il testo Patria mia, auspicò un Rinascimento per l’America. Sentiva che l’America aveva bisogno dei Classici, questa era la sua ossessione: “The thought of what America would be like / If the Classics had a wide circulation / Troubles my sleep...”. Pound voleva consegnare all’America un poema nazionale, come Omero per la Grecia, Confucio per la Cina, Dante per l’Italia, ma la “questione Pound” negli Stati Uniti non è ancora risolta. Il famoso processo a suo carico non è mai stato celebrato e a lui non è mai stata restituita la personalità giuridica. Il suo nome continua a essere pietra di scandalo. La stessa critica universitaria è divisa in due: c’è chi lo considera un autore grandissimo e chi non accetta che neppure sia nominato. Continuano a perdurare i vecchi cliches secondo cui fu addirittura antisemita se non fascista. Ho avuto la fortuna di leggere i Cantos con un rabbino e mi ha confermato di non aver trovato nulla di antisemita nell’opera».

Ci racconta di quando fu incoraggiata da suo padre a tradurre i Cantos?

«Erano gli anni della guerra mondiale e abitavamo a Casa 60, a Sant’Ambrogio, sulle alture di Rapallo. Ero una ragazza senza alcun tipo di esperienza, ma un po’ “saputella”; avevo fatto appena la quarta ginnasio e, tra l’altro, essendo cresciuta in Tirolo, non conoscevo bene neppure l’italiano: ma lui si fidava. Per iniziare mi diede il II canto, che era stato tradotto da Luigi Berti e pubblicato su “Prospettive”, la rivista di Curzio Malaparte. Iniziai a leggere la traduzione, ma mi strappò la rivista dalle mani e mi disse: “No, no, prova tu, vedi se puoi far di meglio”. In precedenza, mi aveva proposto di tradurre delle poesie tratte da Catai, per esempio il “Lamento della Guardia di frontiera”, perché rappresentava bene il nostro stato d’animo nel tempo di guerra: “E dolori, dolori come pioggia. / Dolore nell’andare e nel tornare. / Campi desolati, senza gioventù...”. Poi mi fece continuare con i Canti Malatestiani. Ogni giorno dovevo consegnargli una pagina battuta a macchina e non dovevo mostrargli la traduzione prima di aver finito quella pagina. Traducemmo fino al canto XI, poi fu la volta del XX e del XXVII. Lì ci siamo fermati. Naturalmente poi sorse il problema di chi volesse pubblicarli in Italia. A questo riguardo voglio ricordare Vanni Scheiwiller, il suo affetto e la sua dedizione a Pound fu straordinaria».

Come erano le reazioni alle sue prime prove di traduzione?

«Alcune volte era soddisfatto, altre volte si arrabbiava e diceva che il mio lavoro era pessimo. Nella biblioteca conservo diverse lettere con moltissime annotazioni e correzioni al mio lavoro. Mi riconsegnava i fogli con le sottolineature e le sue impressioni e mi chiedeva di riprovare tenendone conto. Studiavamo insieme per trovare la migliore soluzione in italiano, amava le sperimentazioni. Voglio riportare un aneddoto interessante che risale al 1942. Lavorando sul primo Canto notai che si faceva riferimento a Tiresia nell’Inferno che incontrava per la “seconda volta” Ulisse. (“Venne Anticlea, che tenni lontana, poi Tiresia di Tebe, tenendo l’aurea verga, mi riconobbe e per primo parlò: / “Una seconda volta? Perché? Uomo di torva stella, / visiti i morti senza sole e questo regno infausto?”). Questa “seconda volta” non rientrava nel novero delle mie conoscenze. Con un po’ di pedanteria presi un’edizione dell’Odissea, probabilmente nella versione del Romagnoli, e mi misi a cercare senza raccapezzarmi. Quando lo feci notare a mio padre, lui sorrise. Non disse niente, ma mi guardò con uno sguardo ironico. Era lui stesso che tornava una seconda volta. Era lui stesso l’Ulisse: Pound è nel poema dal primo all’ultimo verso».

Quale fu il rapporto con la tradizione poetica italiana?

«Degli autori italiani naturalmente conosceva a perfezione Dante, mentre era meno interessato ai suoi contemporanei del primo ‘900. Amava la lingua italiana e aveva tradotto Il cantico delle creature di San Francesco perché era affascinato dalla poesia antica. Tramite Dante fu conquistato da Cavalcanti e in seguito tradusse Leopardi. La sua conoscenza dei poeti italiani forse si fermò a un’antologia del 1904 (un libro che sono riuscita a ritrovare: The italian poets since Dante di William Everett). Da quando aveva 19 anni mio padre si fece l’idea che la poesia italiana fosse andata in declino. Vorrei aggiungere che si soffermava volentieri a captare i suoni della lingua italiana, gli piaceva ascoltare le espressioni della gente comune, magari per poi inserirle nella sua poesia».

Può raccontarci di quando lo vide nel manicomio del Saint Elizabeth?

«Dapprima fu trattato molto duramente. Prima del manicomio lo rinchiusero in una specie di buco d’inferno, una vera “fossa dei serpenti”. In manicomio fu messo prima in una stanza comune, poi gli diedero uno spazio con le dimensioni di uno sgabuzzino. Potei vederlo solo nel 1953. Alcuni hanno riferito che vivesse in una specie di suite, che potesse lavorare indisturbato e con agio. Io ho visto quel luogo. C’era lo spazio per il letto (chiamiamolo letto, ma era più vicino a una branda), il tavolo e la sedia. Niente altro. La finestra era chiusa da un’inferriata. Nessuno poteva entrare. Io stessa dovetti guardarlo dalla porta. Con sé aveva una macchina per scrivere, delle scatole di cartone con dei libri, e tante volte dei resti di cibo che avanzavano alla mensa e che lui regalava a quegli stravaganti discepoli morti di fame che andavano a trovarlo. Era attento a questi dettagli, perché ricordava la fame patita in tempo di guerra».

Fu dura la vostra vita a Sant’Ambrogio, sopra Rapallo, negli anni della guerra?
«Sì, vivevamo con le carte annonarie. E mio padre voleva che ci attenessimo strettamente a quanto era prescritto dalla legge. Non voleva che frequentassimo il mercato nero. Ha sempre stimato l’onestà come una delle virtù più importanti. Ricordo che una volta venni rimproverata per aver comprato due uova al mercato nero. Con tutte le sue stravaganze Pound era il più ligio di tutti davanti alla legge. Stimava moltissimo la fedeltà alla morale pubblica. Era stabilito che si dovesse vivere con le tessere annonarie: bene, si doveva fare così, senza prendere scappatoie».
Come visse gli anni in manicomio?

«Visse quegli anni come in un’altra dimensione e si salvò concentrandosi sul proprio lavoro e preparando la sezione Rock drill dei Cantos».

Credo che Pound sia stato profetico per molti aspetti. Cosa ne pensa?

«Sì, certamente. Basti pensare al suo famoso tempus tacendi. Credo che all’origine della sua decisione di chiudersi nel silenzio ci fosse la consapevolezza di come il mondo contemporaneo stesse scivolando in una deriva di superficialità sempre più accentuata. Adesso sorrido quando raccolgo per strada il parere di persone che invocano il raccoglimento interiore e la ricerca di pace in un mondo così superficiale. Mio padre l’aveva capito quarant’anni fa. Pound fu profeta in campo economico. Si era reso conto di come il sistema fosse sbagliato, di quanto grave fosse il fenomeno della speculazione. Nei luoghi più terribili del suo inferno stanno gli usurai. Si era accorto che al sistema non importava più il destino della singola persona. Voleva che l’economia tornasse a occuparsi della persona. Pound era un uomo molto concreto e non andava troppo d’accordo con gli italiani che parlavano per astrazioni. Diede sempre la massima importanza al lavoro quotidiano e per lui il mondo ideale era quello agricolo. Voleva ritornare al mondo dei classici, a suo parere ogni uomo doveva essere in grado di essere anche contadino, doveva saper fare. Certo nasceva il problema che tutti avessero un pezzo di terra... Alcuni lo hanno accusato di essere quasi geneticamente ossessionato dall’economia, dal denaro: il cognome Pound è già un programma, suo padre poi aveva anche lavorato nella Zecca... Ancora, l’anno scorso sui giornali si è parlato diffusamente del massacro di Katyn. Pound citò questa immane tragedia nel Cantos: “D’altra parte Maukshk credeva di farmi un favore / facendomi includere nella commissione / che doveva ispezionare le fosse di Katyn” (Canto LXXVII). Maukshk era un impiegato del consolato tedesco in Italia che aveva cercato di fornire a mio padre un lasciapassare per visitare Katyn che poi i tedeschi gli negarono. Quando nel corso della guerra, la stampa italiana pubblicò le raccapriccianti foto delle fosse di Katyn, mio padre rimase molto impressionato e volle informarsi sui dettagli chiedendo di fare parte della commissione d’inchiesta internazionale della Croce Rossa. I russi però non diedero il permesso di lavorare alla commissione. Come molti altri era certo che i responsabili dell’eccidio fossero stati i russi. Nella sua opera Pound ha impiegato molte immagini forti, penso ancora al destino degli usurai nell’inferno, ma orrori come quelli di Katyn hanno superato di molto l’immaginazione del poeta».

La generosità è stato uno dei tratti dominanti della personalità di suo padre.

«Rimase colpito dal concetto di giustizia distributiva in Dante. Si spese per promuovere i giovani e li aiutava come pochissimi altri. Si potrebbe ricordare mio padre con l’appellativo: “Pound il generoso”. La storia della letteratura gli deve la scoperta o l’incremento decisivo di notorietà di Eliot, Joyce, Hemingway, William Carlos Williams, Hilda Doolittle, gli imagisti e moltissimi altri. Lui non dimenticò mai nessuno, mentre alcuni vollero rompere i ponti con lui. Per lui l’amicizia era un valore indiscutibile. Furono molti gli amici che sostennero la sua candidatura al prestigioso Premio Bollingen (poi assegnatoli nel 1949 per i Pisani), si opposero soltanto i critici letterari minori. Era invidia. Un tarlo sempre presente nel genere umano. L’ideale di amicizia in Pound superava i confini delle generazioni, delle lingue e delle razze. Voleva che gli artisti dialogassero tra di loro e si è attenuto a questo principio in ogni giorno della sua vita. C’era un solo tipo di persona che gli dava i nervi: il “furbo”, l’uomo che si adopera per tendere tranelli. Ecco di fronte a questo tipo di persone poteva esplodere...».

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