martedì 8 dicembre 2009

Quell’odio civile che ci fa sembrare un Paese mafioso


Ora che il ciclone mafioso e violaceo si è abbattuto, si possono contare i danni. Due grandi vittime ha mietuto l’uragano ma nessuna delle due è Berlusconi, che anzi dalle piazzate mediatico-giudiziarie e dai pentiti è uscito rafforzato, psicologicamente ferito ma politicamente ed elettoralmente ringalluzzito. No, le due vittime, a cui se permettete tengo di più del premier, sono l’Italia nel mondo e l’Italia in casa sua, spaccata in due dall’odio civile. Non perdonerò mai a chi ha raccolto, enfatizzato, creduto o almeno usato le chiacchiere di Spatuzza, la gravissima responsabilità di aver fatto precipitare la considerazione dell’Italia nel mondo, la sua immagine e la sua credibilità. Già eravamo sulla brutta china da tanto tempo, e poi ancor più da quest’anno, dopo la Primavera di Noemi, l’Estate di Patrizia e l'Autunno di Spatuzza. Senza dire delle mezze stagioni dei Lodi, Mondadori e Alfano. Ora andiamo verso l’inverno, la quarta stagione, e mi preoccupano i cappotti e gli scheletri che affolleranno l’armadio Quattrostagioni del nostro Paese. Vista la progressione delle stagioni, dopo la mafia verrà il satanismo? Il logo mafia attecchisce che è una meraviglia nel mondo; basta citarlo, anche con un film, anche con un pettegolezzo, anche con l’ultimo e il meno credibile dei pentiti, e il mondo ne parla, fa copertina, lo riprende e lo rimbomba. Perché conferma uno storico e mitologico luogo comune sul nostro Paese e tutto un apparato di simboli e di liturgie: la mafia è uno dei marchi più riconosciuti nel pianeta, esportato ovunque dalla Russia alla Cina; e Camorra-Gomorra o per i buongustai del ruspante la ’ndrangheta, sono i marchi associati. Pochi magari ricordano che la sua reintroduzione a pieno regime in Italia, direi la sua legittimazione, non fu a livello locale ma avvenne a livello internazionale, con lo sbarco americano in Sicilia nel ’43; evento glorioso, per carità, ma con il sostegno indispensabile di Cosa nostra da Lucky Luciano in giù. Gli americani ci portarono la libertà ma ci restituirono anche la mafia, assente o sottotraccia negli anni del prefetto Mori e del fascismo.
Sarà difficile risalire la china di Paese mafioso, oltre che puttaniere e corrotto. Di questa fama dobbiamo essere tristemente grati a quanti, seguendo l’esempio di Tonino Di Pietro che comprò pagine sui giornali internazionali per sputtanare Berlusconi, sputtanando semplicemente l’Italia, hanno lavorato alla demolizione dell’immagine internazionale del Paese. Vorrei dire loro: anche l’odio più feroce e perfino più motivato verso un premier non potrà mai giustificare il danno inferto al Paese, agli italiani e ai rapporti internazionali.
Ma il primo, gravissimo danno internazionale si accoppia ad un secondo, gravissimo danno: ho vissuto da ragazzo gli anni di piombo, gli anni delle stragi, la lotta antifascista e anticomunista, il tempo del terrorismo e della caccia al fascista. Ma vi posso dire che non ho mai respirato come adesso un clima di odio generale. Sì, generale. Quello di allora era l’odio tra due minoranze militanti, e magari la ghettizzazione e la criminalizzazione di una; ma il corpaccione del Paese non era in fondo toccato fino a questi livelli. La grande maggioranza degli italiani, la borghesia, era temperata e prudente, nutriva dissensi ma sapeva trasferirli nella fiction dell’ideologia o del ricordo storico. Ma quando si tornava alla realtà, ci si poteva intendere sul resto. Ora invece l’odio attraversa l’intera società, si è fatto etnico e razziale, la razza dei berluscones; divide le cene e i salotti, gli autobus e i treni, insomma è un odio da passeggio e da diporto, da lavoro e da dopolavoro. Vi assicuro di aver visto inermi e rispettabili lettori del Giornale, trattati il giorno della manifestazione no-bidè (ricordo che devo la definizione al mio salumiere), come una cosca criminale. Mi hanno fermato un gruppo di lettori del Giornale, rispettabili professionisti, a passeggio per Campo de’ Fiori, romani e calabresi, e si sono avvicinati a me con fare guardingo, come si avvicinano i dissidenti in un regime autoritario. Il dato paradossale è che i clandestini in questione erano filogovernativi, stavano con la maggioranza degli elettori. Ma dovevano nascondersi. Mi hanno detto che hanno passato brutti momenti perché hanno acquistato il Giornale e vista la riprovazione dell’edicolante, hanno rafforzato la dose con Libero, aggravando così la loro posizione. Sono stati costretti a nasconderli, perché considerati provocatori da una turba di squisiti sprezzanti.
Un odio violaceo; in fondo il viola, che nella vita e nel calcio è un colore bello e nobile (lo dico anche da tifoso della Fiorentina), a teatro e in politica è un rosso andato a male, inacidito e un po’ jettatorio, un rosso bilioso, che si è fatto blu di rabbia. Ma non è la manifestazione il problema; è il clima che si respira, l’odio, le deposizioni spettacolo, i giornali usati come clavi e marchi identitari, come si usa con le mucche. Di tutto questo, certamente soffrirà l’agibilità politica del governo Berlusconi, ma il consenso - al contrario - non viene scalfito, semmai si rafforza. Tanto più che le parole di Spatuzza erano commentate dai fatti di due boss mafiosi arrestati e dalla considerazione, comune ma espressa anche dal capo dell’Antimafia, Grasso, che mai la mafia ha subito tanti colpi come ora, sotto la coppola, o la cupola governativa, di don Silvio Berlusconi.
Devo ammettere una cosa: a me consola poco sapere che il suo consenso è in crescita; mi preoccupa di più il crollo d’Italia, nell’immagine internazionale e nella guerra civile interna. Chi vota Berlusconi o peggio scrive per il Giornale, è trattato dai credenti violacei del potere mediatico-giudiziario - più appendice politica di sinistra - come un picciotto, un criminale, un affiliato a Cosa nostra. Trenta milioni di mafiosi abitano il nostro Paese, insieme a tre milioni di virtuosi; il resto mancia. Il Giornale è stato promosso dagli esimi colleghi in viola, dal manganello alla lupara. Chiudo il pezzo scritto con un computer a canne mozze. Baciamo le mani.

(di Marcello Veneziani)

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