sabato 24 aprile 2010

Cacciarlo non basta


Ma che fine farà Fini? Sembra soltanto uno scioglilingua. Invece è un interrogativo drammatico che si affaccia per la prima volta, come uno spettro maligno, agli spalti del castello incantato di Silvio Berlusconi. Urge liberarsi dello spettro, pensa il Cavaliere. Dunque è facile prevedere che, prima o poi, Gianfranco Fini e la sua pattuglia verranno cacciati dal PdL. Come avvenne molti anni fa al gruppo del “manifesto” buttato fuori dal Pci. A destra pochi ricordano quella vicenda. Eravamo nel 1969, un anno cruciale della Prima Repubblica. Con l’autunno caldo nelle fabbriche e la strage di piazza Fontana. In febbraio si aprì a Bologna il 12° Congresso del Pci. Venne confermato segretario Luigi Longo che guidava il partito dalla morte di Palmiro Togliatti. Poiché Longo aveva una salute malferma, gli fu affiancato un vicesegretario. Era Enrico Berlinger che cominciò allora la scalata al vertice del Pci.
In quel congresso, quattro compagni osarono l’inosabile. Ossia criticarono la prudenza del Pci nel condannare l’invasione sovietica di Praga, avvenuta nell’agosto precedente. Erano Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Massimo Caprara e Aldo Natoli. Come si regolò il Partitone rosso con i quattro dissidenti? Con una mano dura e veloce. Appena nove mesi dopo li radiò dal partito.
La requisitoria contro la Banda dei Quattro venne pronunciata da Alessandro Natta. Prima dinanzi alla Quinta commissione del Comitato centrale e poi di fronte al plenum del comitato. Natta eseguì il compito con spietatezza dottrinaria. Ed elencò una per una le colpe dei quattro. La più grave era di aver organizzato il dissenso dentro il sacro corpo del partito, proponendo “una negativa logica di gruppo”. In subordine, veniva l’accusa di arroganza e di seminare “confusione e germi di disgregazione”.

Dopo 40 anni
Da allora sono trascorsi quarant’anni, ma la requisitoria di Natta potrebbe essere ricopiata da qualche tribunale interno al PdL e scagliata contro Fini e il suo piccolo seguito. Con le stesse parole incalzanti: dissenso, logica di gruppo, germi di disgregazione. E con l’identica conclusione: la cacciata dal PdL. Se andrà così, il Cavaliere si beccherà l’accusa di essere un neo-stalinista. Ma a Fini toccherà quella di essere stato incauto, uno che se la è cercata. Tirando troppo la corda, per di più al riparo della poltrona di presidente della Camera.
Ho già scritto più volte di avere poca stima di Fini come leader politico. E ho anche spiegato il perché. Ma adesso nel rievocare la sua parabola discendente cercherò di essere il più freddo possibile. Ho cominciato a capire del tutto che cosa intendeva fare nel dicembre del 2009. Fu allora che Fini si lasciò sfuggire una confessione: «Vorrei che il PdL fosse come la Dc della Prima Repubblica, un partito del quale rimpiango l’ampio dibattito». Era chiaro che, per dibattito, Fini rimpiangeva la struttura correntizia della Balena bianca. E si proponeva di dar vita dentro il PdL almeno a una corrente: la sua.
Del resto, non poteva essere che questo lo sbocco della propria guerriglia contro Berlusconi. E di riflesso, contro il partito che anche Alleanza nazionale aveva contribuito a fondare. La guerriglia era già iniziata ben prima del dicembre 2009 e proseguì ininterrotta sino alle elezioni regionali del 2010 e ancora dopo. Arrivando al punto di scagliare addosso al Cavaliere e al gruppo dirigente del PdL l’accusa delle accuse: nell’Italia del nord siamo diventati la fotocopia della Lega, Umberto Bossi è ormai la stella polare del governo.
Fini e il suo gruppo di fedeli avevano un bisogno disperato di distinguersi da questa linea. Per farlo, occorreva una crisi o uno strappo all’interno del partito. Fini cominciò con l’annunciare la nascita di un gruppo autonomo alla Camera e al Senato, distinto da quello del PdL. Respinto in modo brusco dal Cavaliere, ripiegò sull’ipotesi di una corrente dentro il PdL. Per poi approdare al disastro di giovedì nel corso della Direzionale nazionale. Con un discorso da contestatore integrale. E soprattutto con i due scatti di rabbia rivolti contro l’augusta persona del Cavaliere.
Sono due sequenze che, grazie alle riprese televisive, stanno facendo il giro del mondo. Non capita tutti i giorni di vedere la terza carica dello Stato gesticolare infuriato contro il premier, suo sodale nel governo. Per poi alzarsi di colpo, precipitarsi sotto il podio e inveire sotto il naso del suddetto premier. Se mai un giorno il PdL chiuderà bottega, si dovrà dire che tutto è cominciato con quel frammento di cinema verità. La prova più eloquente che il Paradiso di Silvio è finito e il demonio si è insinuato tra gli angeli.
Che cosa accadrà adesso non occorre molta fantasia per prevederlo. Di sicuro, Fini non se ne starà zitto. Se si cucisse la bocca, farebbe karakiri, come i samurai sconfitti che si uccidevano con la propria spada. Dunque continuerà a parlare. E seguiterà a farlo da presidente della Camera, poiché non ha nessuna intenzione di rinunciare alla carica. Anzi, un Fini minaccioso ha già avvertito il ministro Sandro Bondi: «In Parlamento vedrete scintille!».
Eppure proprio qui emerge il tallone d’Achille di Fini, il suo lato debole. Nessuno può impedirgli di continuare la guerriglia. Ma molti, compresi anche parecchi dei suoi tifosi, dubitano che possa farlo dallo scranno di Montecitorio. Non soltanto perché sarebbe scorretto, secondo un minimo di galateo istituzionale. Ma anche perché, concionando tutti i giorni sulla carta stampata e alla tivù, rischia di svilire del tutto l’istituzione che rappresenta. Al punto di esporla a contestazioni accese. Quelle che di sicuro metteranno in scena i leghisti non appena Fini oserà affacciarsi al di là del Po.
È stato un giovedì nero quello del 22 aprile. Nero per tutti e non soltanto per i sostenitori di Fini e di Berlusconi. Nel giro di un paio d’ore si è chiuso, all’improvviso, un ciclo storico che durava dal 1994. Quando alla fine di marzo ho scritto su “Libero” che stava iniziando la Terza Repubblica, avevo visto giusto. Ma senza immaginare un avvio così rapido e tanto drammatico.

Tutti sconfitti
Dal match violento tra Fini e il Cavaliere usciamo tutti con le ossa rotte. Il presidente della Camera ha svenduto l’autorità del suo incarico. Berlusconi ha perso la propria sacralità una e trina: come premier, come presidente del partito, come capopopolo in grado di fare miracoli. Persino il Partito democratico non ha motivi per gioire. Condannare quanto è avvenuto come uno spettacolo indecoroso non gli salva l’anima. Dal momento che anche nella parrocchia di Pierluigi Bersani si tirano i piatti in faccia, sia pure al riparo dalle telecamere.
Ma è soprattutto Berlusconi a scoprirsi nei guai. Per la prima volta il suo carisma è stato incrinato. La rissa con Fini ha ferito anche lui. E sul fianco più difficile da difendere: l’attività del governo in una fase tanto pesante per il paese. Come il bambino della favola, Cravatta Rosa ha gridato: “Il re è nudo!”. Lo ha fatto con un elenco spietato dei problemi che l’Italia ha di fronte.
Fini finirà male. Anche se non sappiamo come. Forse verrà cacciato dal PdL. Forse sarà costretto a lasciare la poltronissima di Montecitorio. Forse la sua pattuglia dissidente resterà isolata dentro un mare di consensi per il Cavaliere. Ma comunque gli vada, rimane una certezza: una gran parte delle questioni indicate da lui devono essere risolte. In fretta. Con mano ferma. E con l’aiuto di tutti.

(di Giampaolo Pansa)

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