martedì 20 aprile 2010

Non vogliamo i colonnelli


Per comprendere quali siano i rapporti tra il generale, Gianfranco Fini, e i suoi colonnelli è necessario tenere a mente due cose: la prima è che sono cresciuti quasi tutti nella militanza romana del Msi e si conoscono benissimo, la seconda è che sin da ragazzi Fini era il capo e loro i diadochi. Da sempre e senza eccezioni, legati l’uno agli altri da un patto generazionale e da un vincolo di solidarietà e sostegno reciproci. Fini era il capo indiscusso che garantiva l’equilibrio tra le correnti, ma senza le correnti non ci sarebbe stato un capo così come senza il capo le correnti sarebbero finite con il combattersi e l’annullarsi reciprocamente.

Questa profondissima empatia spiega la ragione per la quale la classe dirigente di An non si è mai rinnovata né modificata. Persino l’accentratissimo universo berlusconiano, nei suoi oltre quindici anni di storia, ha vissuto profonde modificazioni: oggi sono pochissimi i dirigenti sopravvissuti alla discesa in campo del 1994. Così non è stato per Alleanza nazionale e per i suoi colonnelli che sono lo stesso gruppo dirigente che alla fine degli anni Ottanta si condensò attorno a Fini sostenendolo nella definitiva presa del potere ai danni della vecchia classe dirigente missina: “I ragazzi di Sorrento”. Certo sono finiti nel sottoscala dei ricordi Publio Fiori, Domenico Fisichella, Gustavo Selva. Ma non è forse vero che non erano missini? Erano forse i coetanei di Fini? No. Gli unici a essere stati allontanati, nel corso degli anni, sono stati quegli uomini che paradossalmente rappresentavano le componenti culturali più nuove e contaminanti che si allearono con il Movimento sociale per costruire Alleanza nazionale.

Democristiani di destra nel tempo dimostratisi incapaci di costruire un proprio recinto di potere dentro An e per questo spazzati via dalla violenta contesa che ha sempre caratterizzato la vita del partito, tra le correnti e i tre colonnelli che le guidavano. Racconta Gustavo Selva: “Erano grandi le potenzialità di trasformare An in una forza politica aperta, ma quando il partito è tornato al governo nel 2001, ha prevalso l’autoreferenzialità e si è richiuso tutto”. Da quando ha assunto la guida del Msi, per poi traghettarlo in An e metterlo alla prova del governo, Gianfranco Fini ha scelto di triangolare alternativamente con le correnti, privilegiandone ora una ora l’altra con l’obiettivo di gestirne la conflittualità e addomesticarne le ambizioni. Ne ha fatto uno strumento di potere che si è tuttavia lentamente trasformato in una trappola per lo stesso leader: Fini si è scoperto schiacciato e bloccato dal proprio ruolo di eterno mediatore. Ha detto una volta Maurizio Gasparri, l’amico della giovinezza col quale il leader non ha più il rapporto di un tempo: “Vogliamo dire la verità? Venti anni fa abbiamo fatto la scelta giusta scegliendo Gianfranco e non credo che con altri le cose sarebbero andate meglio. Certo è intervenuta una certa accettazione reciproca dei ruoli. Un po’ come in famiglia: il papà e la mamma uno non se li sceglie”.

Una condizione politica e psicologica, quella di Fini, confermata anche dagli uomini oggi più vicini al presidente della Camera, il quale smentisce la vulgata che lo ha sempre descritto come il temibile dominus di An e che, al contrario, spiega come sia stato possibile per il capo di An aver vissuto lo scioglimento del proprio partito quasi come una liberazione.
Il leader non ne poteva più di quegli umori arcaici che hanno reso divertenti le cronache delle riunioni di An, drammatiche ma mai del tutto serie, piacevoli da raccontare, grasse ma nel contempo effimere, piene di battute sfacciate e di aneddoti da curva sud, di tipi umani, di macchiette, di colore. Certo vi era immerso fino al giorno prima, ma per ragioni tattiche, forse per calcolo o per sincera maturazione, a un certo punto Fini ha cominciato a pensare che non fossero certo queste le riunioni di una classe dirigente di destra, spendibile nell’amministrazione moderna ed europea; non sono mai state di questa risma le riunioni vincenti e noiose dei gollisti francesi dei tempi buoni, o quelle dei conservatori inglesi come il giovane David Cameron.

E’ vero, i cronisti italiani non avrebbero saputo che cosa scrivere se nei congressi di An non ci fosse stata la simpatia da osteria dei Gramazio, le smorfie e gli intercalare dei Nino Strano o le lacrime del novantenne della Garbatella. Ma Fini ha detto basta a questo agitato intrattenimento di maschere, al romanticismo della platealità di cui la destra italiana è ancora prigioniera, agli allucinogeni del passato, alla tipica droga di cui fanno uso i vecchi. In età decisamente matura questo leader cerca un futuro per sé e per la destra, sa che nulla è immobile come un mare increspato, come un eterno svolazzo di bandiere, non vuole più ubriacarsi di identità. E dunque nel progetto di formare una classe dirigente bipolarista, sarkozysta, noiosa e perbene, anche il partito di Berlusconi, con tutti i suoi difetti, non solo non è un errore ma a un certo punto per Fini diventa quasi un destino. L’ex leader di An è entrato nel Pdl decidendo di non costituire An in una corrente interna al nuovo soggetto, il cofondatore lo ha spiegato chiaramente nel proprio discorso al congresso dello scioglimento.

Fini ha usato parole che rivelano il disprezzo maturato negli anni per il correntismo di Alleanza nazionale: “[Il Pdl deve essere] un contenitore ampio, arioso, plurale, inclusivo, interclassista, aperto, certamente unitario […] ma che certamente mai e poi mai dovrà pensarsi e organizzarsi secondo la degenerazione della democrazia che è la correntocrazia […] nessuno pensi all’interno del Pdl di costruire la corrente di An […]”. L’ex leader ha lasciato liberi i colonnelli e il corpo della creatura che aveva guidato per vent’anni. Lo ha fatto, sì, perché ha deciso di investire nel nuovo progetto politico, ma lo ha fatto soprattutto perché sempre di più era arrivato a considerare i propri diadochi e la nomenclatura di Alleanza nazionale alla stregua di una zavorra che gli impediva di spiccare il volo. Un esempio, nonché forse l’origine lontana del divorzio, è quanto accadde nel luglio del 2005, ai tempi del referendum sulla legge 40. In quell’occasione Alleanza nazionale si è divisa aprendo una profonda disputa intorno al referendum sulla fecondazione medicalmente assistita. Fini è in un primo momento a favore dell’interdetto contemplato nella legge 40 così come i suoi colonnelli, poi tuttavia studia la faccenda e nel corso dei mesi cambia idea lì dove la dirigenza di An è rimasta sulle posizioni originarie. L’immagine è questa: Gianfranco Fini solo, nella hall dell’hotel Ergife di Roma dopo la sua relazione, mentre le correnti sono riunite in conclave per decidere come demolire la sua posizione. E’ l’immagine del leader solo, che decide e aspetta, che combatte contro il suo stesso partito. Che dice gelido: “Se pensate che la mia posizione sia un tradimento dei valori, allora non abbiamo più nulla da dirci!”. Che attacca le correnti a sciabola sguainata, le definisce senza troppi complimenti “una metastasi”. Che al bar li chiama, sospirando, “questi del partito”.

Sull’altro piatto della bilancia, poi, l’almanacco di recriminazioni dei cuori infranti: “Fini ha scelto da solo – dicono – non ci ha mai avvertito di nulla. Neanche quando è andato in Israele”. Per non dire dei fondatori amareggiati, di Gaetano Rebecchini che nel 1994 partecipò alla gestazione di An con una spruzzata di cattolicesimo tradizionalista apostolico romano, e che in quei giorni sbatteva la porta: “Vado via”. Un malcontento condiviso da quasi tutto il corpo organizzato del partito. E’ il momento in cui Fini capisce quanto sia in realtà lontano dai propri ex fedelissimi e dal perimetro del loro potere. Nella circostanza, siamo nel luglio del 2005, l’80 percento del partito si esprime contro la svolta laica di Fini, che voterà come il centrosinistra. Il capo del partito comincia a maturare una riflessione profonda sui legami politici e culturali tra sé, i colonnelli e il partito, riflessione che lo porterà a un freddo ma progressivo distacco dai diadochi che precipita proprio in quei giorni con un episodio passato agli annali del giornalismo come “l’episodio della Caffetteria”.

Nicola Imberti è un giovanissimo e precario cronista politico del Tempo di Roma quando si trova per circostanze fortuite a sorseggiare un caffè alla Caffetteria, un bar di Piazza di Pietra, dietro al Pantheon, a due passi da Montecitorio. E’ a pochi centimetri di distanza da Altero Matteoli, Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa e non riesce a credere alle proprie orecchie. I tre colonnelli si fanno ascoltare mentre si consultano, senza levità, sul presunto rincretinimento del proprio capo, vittima di attacchi depressivi e mutevolezze caratteriali. Diceva La Russa di Fini: “E’ malato. Non vedete com’è dimagrito, gli tremano le mani. Non possiamo farlo trattare con Berlusconi sul partito unico. Non è capace”. Replicava Matteoli: “La vera questione è capire chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui e dirgli: svegliati! Se serve prendiamolo a schiaffi ma scuotiamolo”. A cosa si riferissero non è chiaro. Certo era un periodo forse difficile per il capo. Covava idee poco conciliabili con quelle dei colonnelli e gli si attribuiva un flirt con una ministra di FI. Imberti torna in redazione e compila uno scoop che, a 28 anni, gli varrà l’assunzione al Tempo, ma che innesca immediatamente un terremoto dentro An. Letto l’articolo, il leader di An sussurra a chi gli era vicino: “Per coerenza dovrebbero dimettersi”. Così Fini processa i propri luogotenenti, azzera tutti gli incarichi nel partito e fa poi in modo che Gasparri sia sostituito dal più fidato Mario Landolfi al ministero delle Comunicazioni.

L’episodio della Caffetteria vissuto come un tradimento e la reazione muscolare di Fini hanno lasciato degli strascichi di rancore profondo destinati a venire fuori di quando in quando ancora oggi. Da quel momento i rapporti non sono stati più gli stessi: lo scandaluccio delle confessioni di fronte a una tazzina di caffè ne ha rivelato la sostanza e i limiti, tanto che il successivo e consensuale divorzio del capo dai dirigenti, siglato all’indomani della vittoria alle politiche del 2008, non stupisce più di tanto. Fini prende coscienza di un fatto: il partito di cui pure è per statuto il satrapo irremovibile non gli assomiglia per niente. Alleanza nazionale soffre ancora del retaggio dei compromessi culturali che si dovettero fare a Fiuggi nell’abbandonare la fiamma e la tradizione avita. Fini ha guidato il cambiamento e lo ha fatto da leader, cioè perseguendo la strada della spasmodica mediazione, talvolta nascondendo la verità e persino le proprie convinzioni più profonde. Negandole e contraddicendole di quando in quando. Ciò è stato comprensibile e giustificabile nel periodo della transizione, ma la forse insoddisfacente capacità di elaborazione culturale da parte della dirigenza postmissina nel corso degli anni è stata irragionevole e inspiegabile. Fini non ha avuto il tempo, la voglia o la capacità di nutrire culturalmente la sua creatura dirimendo le aporie intellettuali che l’attraversavano e quando si è trovato ad averne bisogno, ha scoperto in An un mostro che non aveva più nulla in comune con lui, con le sue aspirazioni e la sua – vera o presunta – maturazione.

Fini ha preferito, coccolato dai colonnelli, una lunga navigazione a vista che nel corso degli anni lo ha portato ad attorcigliarsi nei fili dei compromessi di potere correntizio che, a posteriori, ha imputato per intero all’ambizione personale dei propri diadochi. Così, alla vigilia dell’ingresso nel Pdl, dato uno sguardo al rottame che si lasciava alle spalle, il leader di An è finito, come Mussolini, a prendersela con il materiale umano che aveva a disposizione. Questa analisi risulta evidente nelle parole di Fabio Granata. Il deputato finiano, intervistato dallo scrittore Andrea Camilleri, ha spiegato così, attaccando i colonnelli “berlusconizzati”, l’ingresso di An nel Pdl. Sono parole che, assolvendo Fini, per la verità non rendono giustizia ai colonnelli: “Quando con Fini abbiamo deciso di affrontare anche l’ultima fase, quella della confluenza di An nel Pdl, abbiamo ragionato a partire da una considerazione fondamentale: non avevamo più una classe politica adeguata a reggere la sfida, in termini di identità e prospettiva, che ci eravamo posti con la nascita di Alleanza nazionale. In altre parole: i berlusconiani erano già dentro casa nostra; noi abbiamo sciolto An perché An era già berlusconizzata al cento percento. Abbiamo dunque sciolto un equivoco”.
Il vecchio Msi, come ha scritto Alessandro Giuli (“Il passo delle oche”, Einaudi, 2007), era un partito a basso tasso di laicità, generalmente nazional-conservatore, allineato sulle posizioni del Vaticano in materia di divorzio e aborto. In dodici anni di vita Alleanza nazionale non si era mai posta il problema di tornare sull’argomento. Ciò, nel corso del tempo, ha ingarbugliato l’identità di An rendendola un pasticcio che Pietrangelo Buttafuoco ha definito ironicamente “pollaio dei valori”.

Non che Fini non lo sapesse, ma quando ha deciso di mettere un po’ di ordine era forse troppo tardi e la chiamata storica del Pdl era già arrivata marcando una distanza troppo profonda tra lui, i colonnelli e il partito. Non fosse stato col Pdl, Fini avrebbe comunque escogitato un sistema per librarsi in volo e scrollarsi di dosso quella che considerava la polvere aennina: sarebbe stato il progetto di Alleanza per l’Italia, il partito nuovo, immaginato dopo lo scioglimento della Cdl, attraverso il quale mettere in pratica una ouverture verso il blocco moderato, il sistema col quale scaricare il “colonnellume” e i compromessi culturali propri di An dentro i quali Fini si sentiva ormai stretto. Come diceva già nel 2006 Alessandro Campi suggerendo, ma anche interpretando, gli umori di Fini: “An è un partito da rifondare, o del quale decretare il fallimento politico-progettuale e quindi la chiusura. La formulazione può apparire brutale, ma il realismo appartiene al Dna della destra: inutile dunque coltivare illusioni. Meglio affrontare i problemi alla radice cercando di risolverli. A partire da quello di una classe dirigente di partito che, al centro come alla periferia, è ancora oggi composta quasi per intero da personalità che si sono formate nei ranghi del Msi, molte delle quali hanno dato ciò che potevano già all’epoca delle battaglie d’opposizione. L’apertura verso la società civile, il ricambio di energie e di uomini, immaginato una decina di anni fa con la nascita di An, semplicemente non si è realizzato, con i risultati che oggi si vedono”. Un partito, An, cui è sempre mancato un luogo di elaborazione culturale che non fosse periferico o ancillare.

Non è un caso se Fini ne abbia dovuto costruire uno sostanzialmente indipendente dalle dinamiche aennine, FareFuturo, il pensatoio finiano, che ha preso il posto del “forum delle idee”, primo e tardivo tentativo di mettere ordine nel pollaio dei valori. E non è neanche un caso se, quando la forza identitaria del partito gli poteva tornare utile, e cioè nel momento della fusione con Forza Italia, Fini, lungi dal rafforzare i propri legami con An e i colonnelli, li abbia lasciati andare entrambi. Oggi è FareFuturo ad assomigliargli più di qualsiasi altra cosa, è la fondazione-pensatoio ciò di cui il cofondatore del Pdl ha bisogno per riempire di forza culturale le proprie intuizioni politiche.

(di Salvatore Merlo)

Pubblichiamo un estratto del libro “La conversione di Fini” di Salvatore Merlo (Vallecchi, 220 pagine, 16 euro), in libreria dal prossimo 28 aprile.

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