martedì 25 maggio 2010

Dalla rivoluzione impossibile all'anomalia finiana

Professor Tarchi, qual era la rivoluzione impossibile?
Quella che un certo numero di militanti e dirigenti dell’organizzazione giovanile del Msi cercarono di costruire negli anni Settanta: un tentativo di modifica radicale dell’ambiente politico nel quale si erano trovati ad operare. Un tentativo che ne comportava – nei loro intendimenti – un profondo svecchiamento, l’abbandono della nostalgia per l’autoritarismo fascista, il confronto aperto con la modernità e i suoi problemi, l’apertura di un dialogo franco con gli avversari, con i quali si sentiva di avere, oltre ad un certo numero di divergenze ideali, un buon numero di affinità psicologiche e di preoccupazioni comuni.
Se un ragazzo di vent’anni le chiedesse cosa fossero i Campi Hobbit, cosa risponderebbe?
Un tentativo di uscire dal grigiore della routine neofascista, di cimentarsi su nuovi terreni culturali – la musica rock, il teatro, l’ecologia - e di attivare uno spirito comunitario.
L’introduzione al suo ultimo libro sembra contrassegnata da un sentimento dominante, cioè la sensazione che con i Campi Hobbit si sia persa un’occasione per creare “un’altra destra”. Il programma della Nuova Destra, di cui faceva parte, era molto rivoluzionario per l’epoca (l’ecologismo ad esempio). Se le cose fossero andate diversamente forse la “svolta di Fiuggi”, con tempi, modi e contenuti diversi, si sarebbe potuta fare prima. Che ne pensa?
Diffido degli anacronismi, che non servono a comprendere le dinamiche politiche. Se nel Msi fosse stato possibile condurre al successo le idee di cui i Campi Hobbit furono uno dei luoghi di elaborazione e la Nuova Destra il principale veicolo, quel partito sarebbe stato modificato da capo a piedi, e di una Fiuggi non ci sarebbe stato bisogno, perché l’evoluzione avrebbe reso inutile l’abiura. Ma non è successo: non ce ne erano le condizioni.
Se dovesse descrivermi tre idee “rivoluzionarie” della Nuova Destra, quali sarebbero?
In primo luogo, il passaggio dall’antimodernità all’apertura e al confronto critico con la modernità. Poi, il rifiuto della dicotomia sinistra/destra e la ricerca di nuove sintesi ad essa trasversali. Infine, la denuncia delle pretese egemoniche del modello di civiltà occidentale e la conseguente rivendicazione del diritto alla specificità dei popoli e delle culture.
Una volta ha scritto che alcune cose del Msi, di cui faceva parte, le apparivano stantie e fuori luogo: il nostalgismo, il clima da caserma, l’ossessione per l’ordine. Conferma questo giudizio? Vuole spiegare, al di là degli altri retroscena, quando come e perché uscì dal Msi?
Lo confermo pienamente. La rottura con i vertici missini fu traumatica. Ne costituì la logica premessa un’opposizione interna che durò per quasi tutti gli anni Settanta. Ormai il dissenso dalle posizioni di Almirante era insanabile, e mi dedicavo molto più alle iniziative culturali e metapolitiche della cosiddetta Nuova Destra che al partito di cui pure ero un dirigente nazionale. Il pretesto formale per dichiararmi “decaduto dall’iscrizione” fu una pagina satirica – peraltro non scritta da me ma da Stenio Solinas – de La voce della fogna, la rivista “underground” che dirigevo, in cui si mettevano alla berlina vizi e tic dei dirigenti missini.
Che idea si è fatto della crisi all’interno del PdL?
Credo che vi prevalgano aspetti personali più che dissensi politici. Da parecchi anni Fini cerca di affrancarsi dal “peso” dei partiti in cui milita; già ai tempi di Alleanza nazionale i segni della sua insofferenza erano vistosi e gli strappi improvvisi erano diventati più la regola che l’eccezione. Fini vuole conquistarsi il ruolo che oggi è di Berlusconi, e per farlo punta sul consenso che può riscuotere nel centrosinistra per farsi legittimare come l’uomo ideale per gestire la situazione di delicata transizione che potrebbe crearsi all’indomani dell’uscita di scena dell’attuale Presidente del Consiglio.
Che ne pensa di quella che ormai appare come un retromarcia dei finiani: cioè passare da gruppi autonomi a “corrente” dentro il PdL? E’ un’idea ormai “superata”, da vecchio partito (in fondo, anche Veltroni era contro le correnti), oppure ha ancora un senso?
È una necessità tattica: fuori dal Pdl, i finiani rischierebbero, in caso di elezioni anticipate, di diventare una forza di scarso peso, una sorta di replica dell’Udc. Dall’interno, invece, possono puntare a un’azione di costante logoramento della classe dirigente e nel contempo dialogare con l’opposizione. Se di una corrente si tratta, va detto, è una corrente anomala, diversa da tutte quelle degli altri partiti.

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