giovedì 18 novembre 2010

Il gerarca Pallotta e la meglio gioventù fascista


Non è facile scartabellare tra le carte di chi è morto per un’idea sbagliata. Aldo Grandi lo fa da una decina d’anni. Di mestiere, lui, fa il giornalista. È cresciuto come cronista di strada. La sua fortuna l’ha trovata nella storia, negli archivi di famiglia, nelle notizie ancora nascoste in qualche scatola del passato. Grandi nel 2004 incrociò quasi per caso Niccolò Giani e della scuola di mistica fascista. Era una miniera. Era la gioventù di Mussolini, ragazzi che la nomenklatura in fez guardava come stupidi sognatori o puritani esaltati. Grandi ha finito per adottarli. Li trova affascinanti. Forse perché in una dittatura cialtrona e opportunista questi alla rivoluzione ci credevano davvero.

Quando si parla di Giani ci si imbatte in altri due personaggi simili, due amici del gerarca «mistico»: Berto Ricci e il conte Guido Pallotta. È qui, seguendo le tracce del conte, contattato dalla nipote la quale aveva scovato in libreria il libro su Giani, si ritrova tra le mani l’archivio completo di un altro gerarca fascista, forse uno degli ultimi ancora inedito. È un’altra miniera. Sono le lettere, gli articoli di giornale, le fotografie raccolte da Aldo Grandi in Il gerarca con il sorriso (Mursia, pagg. 408, euro 22). E ci raccontano un altro pezzo di storia dei «giovani di Mussolini». Sono quelli cresciuti con il mito dell’uomo nuovo, con un’etica che avrebbe dovuto spazzare via furbi e opportunisti, codardi e «acchiappapoltrone», vecchi gerarchi e nuovi ricchi. A vent’anni incarnano l’utopia del «fascista perfetto»: credono nell’onore, nella Patria, nello Stato, da servire su tutto, anche con la morte, credono nell’etica dell’italiano moderno, non più comparsa, ma protagonista. Si rendono conto che le promesse del regime scricchiolano, e sognano la rivoluzione. Ma è una rivoluzione strana. L’obiettivo non è abbattere Mussolini, ma realizzare - senza compromessi - la sua ideologia. Un’equazione ingenua: salvare il capo, far fuori ministri e portaborse, e creare una nuova classe dirigente. È una generazione che ha creduto, combattuto e perso tutto.

Pallotta è un chierico, un fondamentalista del fascismo, squadrista della prima ora, segretario del Guf di Torino, volontario in Africa, direttore di Vent’anni, una rivista così mussoliniana che la corte del Duce considera frondista e antifascista. Pallotta comincia la sua carriera come giornalista della Gazzetta del Popolo e corrispondente del Popolo d’Italia. «Colpire, colpire, colpire inesorabilmente i nemici del fascismo, i tiepidi, gli opportunisti, gli accumulasti, i dormienti...».

Il suo stile è sferzante. Se la prende con i «falsi giovani». Sono coloro che «sussurrano e malignano, pettegolando ai margini della vita pubblica». Scrive: «Meglio disoccupati che arrivisti». Odia i «vecchi opportunisti che cambiano pelle come serpenti e monopolizzano l’esperienza in tutte le sue forme: insegnanti universitari, dirigenti d’azienda, personalità della finanza, alta burocrazia, funzionari statali e parastatali». Non sopporta il «tengo famiglia» che il fascismo non solo non è riuscito a debellare, ma ha sviluppato inseguendo la logica statalista e burocratica. I giovani di Mussolini non avevano capito che i totalitarismi sono un terreno fertile per i furbi.

La fiducia in Mussolini li porta al sacrificio totale. Giani muore in Albania, Ricci a Barce, Pallotta in un punto del deserto egiziano che si chiama Alam el Nibewa, da eroe, mentre scarica le ultime bombe a mano contro i carri inglesi. Il suo corpo non sarà mai ritrovato. L’Africa era il sogno di un impero impossibile, la colonia che avrebbe dovuto strappare l’Italia da un destino di nazione proletaria, la nuova «frontiera» di una generazione cresciuta in camicia nera. La loro vita si ferma a quarant’anni e forse è meglio così. Il futuro li avrebbe delusi. Sono pronti a dare anima, cervello e idee all’utopia fascista. Ma il Duce, a malapena li vede. E quando si ritrovano stritolati tra i gerarchetti locali, Mussolini preferisce la logica del potere a quella degli ideali. Ancora una volta la politica è una cosa troppo seria per lasciarla agli eroi o agli illusi.

(di Vittorio Macioce)

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