giovedì 3 marzo 2011

Intervista a Marcello Veneziani


In una piovosa giornata di fine febbraio Marcello Veneziani, filosofo, giornalista, scrittore, ma soprattutto pensatore di destra mi ospita nel cuore di Roma, nei pressi del pantheon, dove ogni centimetro dell’urbe trasuda storia, mitologia, destino. Dove Raffaello Sanzio e Vittorio Emanuele riposano in un’atmosfera davvero sacra. Il tema dell’incontro è “Amor fati”, l’ultima sua fatica letteraria. La passione civile con cui risponde alle domande è rara in quest’Italia che sembra essersi dimenticata delle sue origini e, dunque, del suo destino.

“L’ultima traccia del fato è nella superstizione di una data: il 21 dicembre 2012, indicata come la fine del mondo; la fine del mondo è l’unica realizzazione verace e universale del comunismo”. Ecco, perché oggi la superstizione fa proseliti?

Io credo che quando non abbiamo riferimenti simbolici e religiosi significativi, ripieghiamo su fenomeni che Oswald Spengler chiamava di seconda religiosità, cioè forme di superstizione, ed è un tipico fenomeno che coglie le società in crisi, le società in decadenza, e che coglie soprattutto i settori più fragili di queste società, perché magari altri riescono a rispondere mantenendo ancora una coerenza razionale nelle loro risposte. C’è chi invece ha bisogno di irrazionale,e non riuscendo ad avere risposte significative dal punto di vista simbolico e anche mitologico, se le fabbrica attraverso queste forme di bricolage religioso.

Lei afferma, nel suo saggio: “Si vorrebbe consigliare alle masse necrofile e masochiste di visitare piuttosto la cappella Sistina, e godersi il Giudizio Universale di Michelangelo. Almeno lì c’è arte e c’è pure il conforto divino, si muore in bellezza e lì viene a prelevarci il signore in persona. Lei crede in un Dio?

Io mi considero, nel senso di Eliad, “homo religiosus”, nel senso che ho una spiccata tendenza a pensare in modo religioso. Non mi considero tout court un credente, non sono un cattolico praticante, mi considero, se vogliamo, un cattolico sulla soglia, nel senso che sto lì, ho molte incertezze, ritengo che sia stato fondamentale per la civiltà europea l’incontro con il cristianesimo, però dal punto di vista cattolico e religioso non me la sento di definirmi un credente. Ecco, però, rispetto a questi fenomeni di seconda religiosità, dico: “Viva la tradizione cristiana”.

Perché oggi la famiglia, l’amor patrio e il senso religioso si sono dissolti e, come Lei dice, “sono in caduta libera”?

Perché ci siamo centrati sull’individuo, cioè riteniamo che un individuo possa essere autonomo e autosufficiente, cioè possa bastare a se stesso e possa prescindere da ogni contesto comunitario e trascendente, e quindi possa tranquillamente fare a meno di contesti come la famiglia, la patria, e dall’altra parte il senso del sacro. E’ questa forma euforica, che poi è diventata depressiva, di auto-sufficienza totale, che produce questo effetto, e quindi questa crisi.

”La nostra, Lei afferma, è una civiltà che celebra la libertà come rescissione da ogni legame umano e trascendente”. Storicamente, il ’68, ha influito su questo concetto di “libertà liberata dall’essere e dal lògos, che esprime invece connessione”?

Sì, credo che il ’68 sia stata nella nostra epoca la svolta, nel senso che nel corso della storia si possono individuare tanti momenti in cui c’è stato un giro di boa, dall’avvento della modernità in poi, ma riguardo alle nostre ultime generazioni, credo che il ’68 sia stata l’ultima rivoluzione verso il niente, l’ultima rivoluzione rispetto ad ogni connessione con il sacro, con la tradizione, con la responsabilità, con tutto ciò che ci lega al mondo con un vincolo di ordine e responsabilità. E io devo dire, avendo scritto anche un libro dedicato al ’68, non considero tanto il ’68 circoscritto nel suo movimento storico, sociale. Lo considero una specie di chiave d’accesso, di password, per indicare un’epoca, un’epoca che possiamo chiamare epoca del ’68 ma che è stata per certi versi precedente al ’68 e per altri versi successiva. Un modo per abbreviare il passaggio di un’epoca.

Dopo la caduta del muro, sostiene, è avvenuta sia una globalizzazione ossessiva, sia il rafforzamento delle identità. Non crede che oggi la nostra identità sia seriamente messa in pericolo, in primis dalla globalizzazione, e in secondo luogo dal mondo islamico?

Sicuramente. Io ho confidato sulla possibilità che l’identità si ridesti proprio perché minacciata; cioè il pericolo dell’identità può alle volte suscitare un dispositivo reattivo in senso spirituale ed intellettuale, che possa consentire di recuperare e di risvegliare l’identità. L’identità ovviamente non è un’entità ferma, fissa, statica; l’identità è sempre nel flusso del mutamento. Per questo io preferisco parlare di tradizione, che è un’identità che si muove, che si evolve, pur mantenendo elementi di costanza e di fedeltà. E credo che sicuramente l’identità oggi sia schiacciata da un verso da conati di integralismo, che poi possono essere di natura localistica, per alcuni versi, ma soprattutto di natura religiosa, nel senso del fanatismo religioso islamico, dall’altra. E dall’altra parte il grande fenomeno della globalizzazione, che sicuramente mortifica, deprime l’identità, e quindi suscita un desiderio di in appartenenza, che produce lo spaesamento, quella che si chiama de-territorializzazione, de-localizzazione, tutti fenomeni legati allo sradicamento.

Altro tema molto importante che affronta è il progresso. Lei afferma che “il progresso è inumano sia nella sua genesi che nel suo sviluppo, poiché riduce l’uomo a mezzo di locomozione della storia per il suo appuntamento eternamente rinviato col progresso”. Cosa pensa del rapporto fra fede e progresso?

Io credo che il progresso, se applicato ad ambiti relativi, cioè la tecnologia, la scienza, lo sviluppo, il benessere, sia un dato di fatto. Non sono dell’idea di demonizzarlo. Critico la convinzione che il progresso sia una sorta di schema teologico, metafisico, entro cui noi siamo inseriti e quindi noi siamo una sorta di esperimento per l’uomo che verrà, siamo sempre delle imperfezioni che vanno mandate al macero o al mattatoio della storia come diceva Hegel, per consentire una generazione ancora migliore. E da questo punto di vista credo che sia una perversione del disegno teologico. Il disegno teologico parla di una metanoìa, di un rinnovamento e quindi di un cammino verso Dio, ma non ritiene che le generazioni siano un mezzo rispetto al fine del progresso; ritiene che ogni uomo sia un fine in sé e quindi ogni persona realizzi in sé questo progresso. In altri termini: c’è una differenza di fondo fra il progresso religioso, che potremmo definire con San Bonaventura l’”itinerarium mentis in deum”, cioè il cammino verso Dio, che è un cammino della mente, quindi dello spirito; e dall’altra parte la convinzione che la storia produca Dio, cioè che Dio si faccia attraverso la storia. Questa è un’idea profondamente anti-umana perché considera gli uomini soltanto le pedine per poi raggiungere gli stadi più avanzati.

Nel saggio, Lei collega la scomparsa di Dio dalla nostra epoca con la scomparsa della comunità. In che senso?

Anzitutto dobbiamo risalire al significato etimologico di religione, che è un legame. Un legame non solo con il trascendente, ma anche con gli altri, cioè una comunità improntata all’amor di Dio o al timor di Dio, a seconda dei punti di vista. C’è un nesso strettissimo fra la fede in Dio e la convinzione di avere un comune destino con gli altri uomini. Tutto questo fa parte di una tradizione, di una civiltà. Indubbiamente si può immaginare un rapporto di solitudine fra l’Io e Dio, ma sicuramente nella nostra solitudine, nel cuore della nostra solitudine, vibra comunque un rapporto consolidato con ciò che ci ha preceduto, con chi ci ha generati, con chi seguirà. Siamo inevitabilmente, nel momento in cui dialoghiamo con Dio, non soli, ma con altri. Dunque c’è una comunità, che per i cristiani è l’ecclesia, cioè la vera e propria comunità religiosa che dà luogo a questo incontro col divino. In altri termini, non si può prescindere dalla triplice dimensione che ci caratterizza, cioè quella personale, quella comunitaria e quella trascendente.

L'amor fati è “non solo amore di ciò che accade e di ciò che ci assegna la vita, ma regale distacco ,rispetto agli eventi e agli esiti, del nostro agire, signoria della vita rispetto alle dipendenze del mondo, attenzione senza apprensione per il giorno che viene”. Ciò sembra essere d’impaccio per l’uomo contemporaneo rispetto alla sua volontà di realizzarsi come uomo.

Sicuramente si considera la realizzazione dell’uomo attraverso una sorta di svincolamento continuo da ciò che ci lega, ciò che ci caratterizza, ciò che ci appartiene, nella convinzione che la perfezione sia l’infinito, la non finitudine, la rottura con tutto ciò che ci delimita in un corpo, in un luogo, in una civiltà, in una famiglia. Non si avverte che una libertà assoluta è la negazione della libertà, perché se una libertà non ha come punto di riferimento i limiti di una persona, i confini di una persona, ciò che una persona è attraverso la sua caratterizzazione fenomenica, storica, positiva, si rovescia nel suo contrario: la libertà come dispersione in un etere incerto e la perdita nell’assoluto dell’Io, e quindi il nichilismo.

Proprio venendo al nichilismo, da Lei già individuato come nemico interno della società nel suo precedente saggio “Contro i barbari”,oggi sotto che forme si presenta? E le nuove generazioni sono davvero nichiliste?

Io credo che non solo le nuove generazioni, ma anche quelle più mature sono improntate al nichilismo. Quello che noto, ed è l’unico elemento di conforto in questa visione disperata della realtà è che comunque, nonostante questa percezione di insignificanza, di nulla che caratterizza la vita, noi lo stesso compiamo atti ordinari, ci appassioniamo a cose anche passeggere, pur sapendo che sono insignificanti, perché evidentemente c’è un dispositivo ontologico dentro di noi che ci porta a non immaginarci soltanto versati nel nulla, ma ci porta a considerare che in noi c’è una traccia di qualcosa che sopravvive, qualcosa che resta; e quindi io credo che le nuove generazioni abbiano ulteriore percezione del nulla, del nichilismo, ma che anche in loro ci sia questa istintiva reazione all’andare verso il niente, verso il vuoto. Non riusciamo a pensare se non ordinando, connettendo; e non riusciamo ad agire se non sperando. Quindi abbiamo dentro di noi un dispositivo che ci porta a vivere nonostante il nichilismo. E quindi alle volte vorrei dire che il vero antagonista del nichilismo è la realtà, cioè il senso della realtà. E questo spiega anche il significato più profondo di amor fati: Amor fati è l’amore della realtà, è amare la realtà com’è, quel che noi siamo, e quindi partendo da questa accettazione della realtà, ci poniamo già in una posizione che tende a superare il nichilismo, perché la realtà ci dice che le cose ci sono, profumano, esistono, ci guardano, ci ispirano, ci nutrono; e di conseguenza in questo legame col mondo, in questa connessione col mondo, noi conferiamo senso al mondo e quindi ci allontaniamo dal nichilismo.

Quali i rimedi?

Bisogna partire dalla ontologia, dalla realtà delle cose, non dai valori, perché i valori sono una conseguenza della realtà. Nel momento in cui noi guardiamo la realtà, assegnamo significato alla realtà, per fare un esempio concreto ed elementare: se riteniamo che sia significativo che io sia nato da due persone, che sono quelle dei miei genitori, e io assegno un valore, a quel punto, al rapporto con i miei genitori, lo faccio in conseguenza del fatto che ho riconosciuto questa realtà, questo fatto ontologico, biologico, spirituale, per cui io derivo da quelle due persone. E allora è partendo dalla realtà che dobbiamo tentare di superare il nichilismo. Partendo dalla realtà e poi conferendo senso e quindi valore alla realtà.

”L’uomo, liberandosi dal sacro, credeva di acquisire maggiore libertà, trasferendo i beni dal cielo alla terra, invece il senso della sua vita è stato riposto fuori da sé, trasferito su altri soggetti e perfino su altri oggetti, ricalcando all’inverso il cammino dalla religione all’idolatria”. Ecco, intende dire che chi rifiuta il sacro è schiavo della sua libertà, rimanendo etero-diretto dai beni materiali, che per lui sono il mezzo per auto realizzarsi?

Sì, per certi versi sì, per altri versi si può dire anche un’altra cosa, che chi non accetta questo legame significativo con il sacro, alla fine subisce altri legami infimi con le cose che alla fine vengono sacralizzate e che diventano oggetto di totem, e quindi la stessa tecnica, tutto ciò che a quel punto supplisce al vuoto del sacro assume un’importanza sacrale per noi. Quindi avviene sia l’uno che l’altro: sono due fenomeni congiunti che sono, se vogliamo, anche delle spie del nostro bisogno comunque di dare senso alle cose; e quando non riusciamo a darlo, ci aggrappiamo alla nuda, matematica certezza di alcuni dati tecnici per supplire a quella assenza di significato.

Un saggio uscito proprio in questi giorni, dal titolo “Crocifisso di stato”, di Sergio Luzzatto, pone ancora una volta il problema del crocifisso nei luoghi pubblici, e fa riaffiorare il rapporto conflittuale fra Civiltà e Tradizione da un lato, costituzione formale e principio di non discriminazione dall’altro. Cosa si sente di dire?

Io credo che il crocifisso in un luogo pubblico non è un atto confessionale; è il riconoscimento di una tradizione. E’ il riconoscimento, in uno spazio pubblico, di qualcosa che ha caratterizzato la nostra civiltà. Quando si parla di religione civile, e se ne parla anche da una prospettiva laica, perché la religione civile è stata in auge ai tempi dell’epoca pagana, cioè della romanità; è diventato un motivo di riferimento di Machiavelli, che era un pagano; Russeau stesso ha fatto riferimento alla religione civile. Ma la religione civile che cos’è se non la traduzione in un linguaggio comune, civile appunto, storicamente condiviso di tradizioni, convinzioni, simboli, miti, riti, che derivano anche dalle tradizioni religiose. Quindi il crocifisso va visto come il segno di una civiltà. Noi siamo stati permeati per 2000 anni da quel simbolo, e quella è una ragione per dare identità. Poi chi è credente a quel simbolo riconoscerà un valore molto più importante, quello di legarci al divino, di darci una prospettiva meta-umana, meta-storica; e invece chi non ha questa prospettiva religiosa riconoscerà comunque nel crocifisso i suoi padri, i suoi avi, le epoche che lo hanno preceduto, il fatto che gran parte della nostra arte è nata all’ombra di quel simbolo, il fatto che Raffaello, Michelangelo, Leonardo, abbiano dipinto grandissime cose nel nome di quella fede. Mi pare un segno di ipocrisia, o addirittura di nicodemismo, come direbbero i teologi, cioè l’andare a trovare Cristo di notte, questa idea di nascondere i simboli religiosi.Sono il linguaggio della nostra comunità, per questo io credo che vadano accettati. Ciò non impedisce ad altri di coltivare altri simboli, però nello spazio pubblico è bene che ci sia ciò che ha caratterizzato per millenni la nostra comunità.

E a chi obietta che con la revisione del concordato nel 1984 il cristianesimo non è più la religione di stato cosa risponde?

Io non sono dell’idea di restaurare la religione di stato. Io parlo proprio dell’dea che la tradizione civile del nostro paese è permeata anche di simboli religiosi; e quindi, nel nome di questa tradizione secolare, che riguarda il nostro immaginario collettivo, le generazioni che ci hanno preceduto, la storia, è giusto che il crocifisso stia nei luoghi pubblici. Pensiamo che per esempio anche l’atto più laico della nostra storia, il risorgimento, ha derivazioni religiose: la stessa parola viene da resurrezione, il primo saggio sul risorgimento l’ha scritto un gesuita, Bettarini, la prima teoria del risorgimento è di Gioberti. Questo per dire che persino un evento storico, laico, con un’impronta anti-clericale e massonica ha avuto una derivazione religiosa. Quindi perché dovremmo ritrarci di fronte a questo simbolo? E’ un simbolo importante e significativo da un punto di vista civile,e non da un punto di vista meramente confessionale.

In questo periodo, per ovvie ragioni, si parla molto dell’Unità d’Italia. A suo parere, l’unità non ha indebolito ulteriormente dall’interno le nostre tradizioni, già minacciate dall’esterno?

Io credo che l’unità sia stata responsabilità reciproca: sia della chiesa e dei cattolici da una parte, sia dei fautori del risorgimento, dei sovrani, dei condottieri questa separazione , questo divorzio. Ed è stato un po’ il limite della nostra unificazione, perché se avessimo tentato di mettere insieme la tradizione che ha permeato l’Italia con il processo unitario probabilmente avremmo oggi una visione più matura, avremmo anche un’etica condivisa del risorgimento che ha tentato di mettere ai margini la tradizione cattolica; e dall’altra parte c’è stata una reazione cattolica clericale tesa a sminuire il valore dell’identità nazionale. E’ stato un errore, anche perché l’unità nazionale è stato il coronamento di un processo storico antico che deriva profondamente da radici laiche e religiose al tempo stesso. Non saremmo italiani se non concepissimo alle nostre origini un padre e una madre che sono l’impero romano e la chiesa cristiana. Sono quelli i genitori dell’Italia. E’ il Medioevo cristiano che affonda le sue radici nella storia d’Italia. Lo ha spiegato Gioacchino Volpe: la lingua italiana è permeata di questi umori. E tutta la storia, l’arte della configurazione religiosa io credo sia la rappresentazione più evidente; “I promessi sposi”, l’opera che coincide col processo risorgimentale, è permeata di valori religiosi. Quindi tentare in modo disincantato, laico, adeguato al nostro tempo, un incontro fra queste due sensibilità credo sia una ricchezza, tanto per l’aspetto civile dell’unità d’Italia, quanto per l’aspetto religioso.

(fonte: www.ildemocratico.com)

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