
Ero in Marocco, fino a qualche giorno fa. Leggevo i giornali europei e  constatavo che molto suonava falso, che molto non tornava. Qualche  giorno prima del 20 febbraio, mi avvertirono che in quella data si  sarebbero mossi anche i marocchini: a Rabat, a Fez, a Casablanca, forse  anche a Marrakesh e a Tangeri. Con maggior ordine, con minor durezza.  «Il Marocco non è l'Egitto», mi dicevano: qui la gente è più  disciplinata e la situazione sociale, politica ed economica migliore. Ma  è anche gente più dura, e c'è una situazione etnica complessa - come in  tutto il Maghreb - per via delle minoranze berbere. Quel che noi  pensiamo sia soltanto tensione politica, in buona parte del Nordafrica è  anche etnica e tribale: lo si è visto in Libia. Ma insomma, che cosa  sta succedendo? Da noi, i media sono in evidente difficoltà nel  comprenderlo e, peggio ancora, nello spiegarlo. I due elementi che  parrebbero emergenti si mostrano altresì, quanto meno se tradotti nel  linguaggio divulgativo con cui si cerca di affrontare la politica  internazionale, contraddittori. Da una parte, si dice, questa gente ha  voglia di «democrazia», di «entrare nella Modernità». Dall'altra, si  teme ch'essa si faccia plagiare e conquistare dai «fondamentalisti» o  addirittura ceda alla violenza o al ricatto di al-Qaeda. Cominciamo a  far giustizia di un colossale e infondato luogo comune. «Al-Qaeda» non  esiste. Non che non ci siano - intendiamoci maggiori o minori centrali  di terrorismo nel mondo musulmano. Il punto è che sia i musulmani più  estremisti e antioccidentali, sia le fonti politiche e informative  occidentali meno inclini all'intesa o al dialogo, si sono da tempo  appropriati con paradossale concordia di questa specie di «iperleggenda  metropolitana internazionale» dei giorni nostri. Nata come pura e  semplice espressione convenzionale («al-Qaeda» significa «base») per  indicare una ventina di anni or sono, al tempo della «prima guerra del  Golfo», qualunque gruppo o gruppuscolo terroristico in grado di  appoggiare alla sua azione militare un minimo di propaganda politica, la  parola ha finito col venir usata in senso intimidatorio sia dai  terroristi per intimidire i loro avversari, sia dai fautori della  repressione indiscriminata per allarmare le rispettive opinioni  pubbliche spingendole a credere che tutti i musulmani non  filo-occidentali fossero dei fondamentalisti, che tutti i  fondamentalisti fossero terroristi e che tutti i terroristi fossero  collegati tra loro da un'istituzione politico-militare coordinatrice  comune e da una generale concordia d'intenti. Al-Qaeda, in questa sorta  di costruzione mitopoietica, è divenuta qualcosa di molto simile  all'Organizzazione Spettro dei film di OO7 di alcuni anni fa. Siamo  davanti a un mostro immaginario che ricorda da vicino le varie  organizzazioni di congiurati cari fin dal Sette-Ottocento alle varie  «teorie del complotto»: Umberto Eco ne ha parlato nel Cimitero di Praga.  Al-Qaeda somiglia ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion.
Il che non vuol dire che non ci siano i terroristi: ci sono eccome, e alcuni tra i loro gruppi sono in cerca di alleanze tattiche o strategiche. Ma in linea generale essi fanno parte del complesso panorama della fitna, la «guerra civile» che coinvolge da anni l'intero mondo musulmano: tra moderati ed estremisti, tra estremisti di opposte scuole, tra sunniti e sciiti, fra tradizionalisti e fondamentalisti, fra tradizionalisti e fondamentalisti da una parte e «progressisti-moderati» dall'altra. E allora, noi scopriamo di essere riguardo a queste cose dannatamente ignoranti e disinformati. Eppure, di mondo arabo e d'islam si parla tutti i giorni, da un trentennio almeno. Che cosa ci è successo? Che cos'è andato storto? Chi aveva il dovere di farci capire un po' meglio le cose come stanno e non lo ha fatto? Ma soprattutto, insomma, in questo benedetto mondo arabo che cosa vuole «la gente»? Ce l'hanno o no con noi? E perché? E chi li guida, chi li inganna, chi li sobilla? Si sono ribellati in tutto il Nordafrica contro regimi inetti, corrotti e violenti. Sapevamo che tali regimi erano tali. Ciò significa che gli arabi vogliono la «democrazia»? Certo. Ma quale? La nostra? Quella che abbiamo tentato di «esportare» in Iraq e in Afghanistan? Se si ribellano contro delle dittature in nome della democrazia, non possiamo non riconoscerli come nostri fratelli. Il punto però è che quei dittatori che hanno già rovesciato, come Ben Alì e Mubarak, e quello che stanno cercando di rovesciare, Gheddafi, erano da tempo non solo nostri amici e alleati, ma perfino soci in affari: dal petrolio alle Società per Azioni alle Banche. Qualcuno aveva perfino coniato la neoparola «democratura» per definire i loro regimi: dittature sì, ma che a livello mondiale appoggiavano la democrazia. Stavano proprio così, le cose? Prendiamo l'Egitto e i «Fratelli Musulmani». Agiscono in quel paese dagli Anni Trenta; sono stati un formidabile strumento di lotta anticolonialista, ma sostenevano la loro azione con la ferma sicurezza che solo all'interno dell'Islam i popoli musulmani avrebbero potuto trovare la loro strada verso la Modernità. Il regime arabo-socialista di Nasser e i dittatori militari «moderati» che gli sono tenuti dietro («moderati» in senso internazionale, in quanto amici dell'America e non avversari giurati d'Israele) li hanno duramente e ferocemente perseguitati. Eppure, eravamo pronti a giocare che in fondo si trattasse di pericolosi e fanatici «fondamentalisti». Sono stati parte notevole delle forze che hanno rovesciato Mubarak: li abbiamo visti agire, li abbiamo sentiti parlare, e ci siamo resi conto che si tratta, al contrario, di una forza politica equilibrata e ragionevole. Certo, continuiamo a sospettare di loro.
Ma che cosa faremo, se alla prima competizione elettorale seriamente libera, in Egitto, dovessero acquisire la maggioranza? Li lasceremo governare, nel nome della democrazia? O stabiliremo che la «loro democrazia» non è la «nostra», e per esportare quest'ultima o qualcosa che le somiglia cercheremo di calpestare i loro diritti e obbligarli a far come vogliamo noi? Badate: è già successo in Algeria, ai primi degli Anni Novanta, e non è che sia andata bene. Forse, dovremmo piuttosto cercar di capire una cosa. Questa gente ci conosce ormai bene: molti di loro hanno parenti che vivono e lavorano tra noi, quasi tutti vedono i nostri canali TV e moltissimi navigano in internet. Ci sono molto vicini: troppo, per non rendersi conto che la nostra prosperità, inarrivabile per loro, poggia in gran parte sulle ricchezze che noi dreniamo dal loro mondo e sul loro lavoro come manodopera. Questo è il punto da capire e da discutere. Non il fanatismo religioso, ma la sperequazione economica; non la libertà di pensiero, ma la ridistribuzione delle ricchezze. Siamo maturi per affrontare questo problema in modo non miope e non egoistico?
(di Franco Cardini)
Il che non vuol dire che non ci siano i terroristi: ci sono eccome, e alcuni tra i loro gruppi sono in cerca di alleanze tattiche o strategiche. Ma in linea generale essi fanno parte del complesso panorama della fitna, la «guerra civile» che coinvolge da anni l'intero mondo musulmano: tra moderati ed estremisti, tra estremisti di opposte scuole, tra sunniti e sciiti, fra tradizionalisti e fondamentalisti, fra tradizionalisti e fondamentalisti da una parte e «progressisti-moderati» dall'altra. E allora, noi scopriamo di essere riguardo a queste cose dannatamente ignoranti e disinformati. Eppure, di mondo arabo e d'islam si parla tutti i giorni, da un trentennio almeno. Che cosa ci è successo? Che cos'è andato storto? Chi aveva il dovere di farci capire un po' meglio le cose come stanno e non lo ha fatto? Ma soprattutto, insomma, in questo benedetto mondo arabo che cosa vuole «la gente»? Ce l'hanno o no con noi? E perché? E chi li guida, chi li inganna, chi li sobilla? Si sono ribellati in tutto il Nordafrica contro regimi inetti, corrotti e violenti. Sapevamo che tali regimi erano tali. Ciò significa che gli arabi vogliono la «democrazia»? Certo. Ma quale? La nostra? Quella che abbiamo tentato di «esportare» in Iraq e in Afghanistan? Se si ribellano contro delle dittature in nome della democrazia, non possiamo non riconoscerli come nostri fratelli. Il punto però è che quei dittatori che hanno già rovesciato, come Ben Alì e Mubarak, e quello che stanno cercando di rovesciare, Gheddafi, erano da tempo non solo nostri amici e alleati, ma perfino soci in affari: dal petrolio alle Società per Azioni alle Banche. Qualcuno aveva perfino coniato la neoparola «democratura» per definire i loro regimi: dittature sì, ma che a livello mondiale appoggiavano la democrazia. Stavano proprio così, le cose? Prendiamo l'Egitto e i «Fratelli Musulmani». Agiscono in quel paese dagli Anni Trenta; sono stati un formidabile strumento di lotta anticolonialista, ma sostenevano la loro azione con la ferma sicurezza che solo all'interno dell'Islam i popoli musulmani avrebbero potuto trovare la loro strada verso la Modernità. Il regime arabo-socialista di Nasser e i dittatori militari «moderati» che gli sono tenuti dietro («moderati» in senso internazionale, in quanto amici dell'America e non avversari giurati d'Israele) li hanno duramente e ferocemente perseguitati. Eppure, eravamo pronti a giocare che in fondo si trattasse di pericolosi e fanatici «fondamentalisti». Sono stati parte notevole delle forze che hanno rovesciato Mubarak: li abbiamo visti agire, li abbiamo sentiti parlare, e ci siamo resi conto che si tratta, al contrario, di una forza politica equilibrata e ragionevole. Certo, continuiamo a sospettare di loro.
Ma che cosa faremo, se alla prima competizione elettorale seriamente libera, in Egitto, dovessero acquisire la maggioranza? Li lasceremo governare, nel nome della democrazia? O stabiliremo che la «loro democrazia» non è la «nostra», e per esportare quest'ultima o qualcosa che le somiglia cercheremo di calpestare i loro diritti e obbligarli a far come vogliamo noi? Badate: è già successo in Algeria, ai primi degli Anni Novanta, e non è che sia andata bene. Forse, dovremmo piuttosto cercar di capire una cosa. Questa gente ci conosce ormai bene: molti di loro hanno parenti che vivono e lavorano tra noi, quasi tutti vedono i nostri canali TV e moltissimi navigano in internet. Ci sono molto vicini: troppo, per non rendersi conto che la nostra prosperità, inarrivabile per loro, poggia in gran parte sulle ricchezze che noi dreniamo dal loro mondo e sul loro lavoro come manodopera. Questo è il punto da capire e da discutere. Non il fanatismo religioso, ma la sperequazione economica; non la libertà di pensiero, ma la ridistribuzione delle ricchezze. Siamo maturi per affrontare questo problema in modo non miope e non egoistico?
(di Franco Cardini)
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