mercoledì 2 marzo 2011

L’Islam si libera. Anche di noi


Ero in Marocco, fino a qualche giorno fa. Leggevo i giornali europei e constatavo che molto suonava falso, che molto non tornava. Qualche giorno prima del 20 febbraio, mi avvertirono che in quella data si sarebbero mossi anche i marocchini: a Rabat, a Fez, a Casablanca, forse anche a Marrakesh e a Tangeri. Con maggior ordine, con minor durezza. «Il Marocco non è l'Egitto», mi dicevano: qui la gente è più disciplinata e la situazione sociale, politica ed economica migliore. Ma è anche gente più dura, e c'è una situazione etnica complessa - come in tutto il Maghreb - per via delle minoranze berbere. Quel che noi pensiamo sia soltanto tensione politica, in buona parte del Nordafrica è anche etnica e tribale: lo si è visto in Libia. Ma insomma, che cosa sta succedendo? Da noi, i media sono in evidente difficoltà nel comprenderlo e, peggio ancora, nello spiegarlo. I due elementi che parrebbero emergenti si mostrano altresì, quanto meno se tradotti nel linguaggio divulgativo con cui si cerca di affrontare la politica internazionale, contraddittori. Da una parte, si dice, questa gente ha voglia di «democrazia», di «entrare nella Modernità». Dall'altra, si teme ch'essa si faccia plagiare e conquistare dai «fondamentalisti» o addirittura ceda alla violenza o al ricatto di al-Qaeda. Cominciamo a far giustizia di un colossale e infondato luogo comune. «Al-Qaeda» non esiste. Non che non ci siano - intendiamoci maggiori o minori centrali di terrorismo nel mondo musulmano. Il punto è che sia i musulmani più estremisti e antioccidentali, sia le fonti politiche e informative occidentali meno inclini all'intesa o al dialogo, si sono da tempo appropriati con paradossale concordia di questa specie di «iperleggenda metropolitana internazionale» dei giorni nostri. Nata come pura e semplice espressione convenzionale («al-Qaeda» significa «base») per indicare una ventina di anni or sono, al tempo della «prima guerra del Golfo», qualunque gruppo o gruppuscolo terroristico in grado di appoggiare alla sua azione militare un minimo di propaganda politica, la parola ha finito col venir usata in senso intimidatorio sia dai terroristi per intimidire i loro avversari, sia dai fautori della repressione indiscriminata per allarmare le rispettive opinioni pubbliche spingendole a credere che tutti i musulmani non filo-occidentali fossero dei fondamentalisti, che tutti i fondamentalisti fossero terroristi e che tutti i terroristi fossero collegati tra loro da un'istituzione politico-militare coordinatrice comune e da una generale concordia d'intenti. Al-Qaeda, in questa sorta di costruzione mitopoietica, è divenuta qualcosa di molto simile all'Organizzazione Spettro dei film di OO7 di alcuni anni fa. Siamo davanti a un mostro immaginario che ricorda da vicino le varie organizzazioni di congiurati cari fin dal Sette-Ottocento alle varie «teorie del complotto»: Umberto Eco ne ha parlato nel Cimitero di Praga. Al-Qaeda somiglia ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion.

Il che non vuol dire che non ci siano i terroristi: ci sono eccome, e alcuni tra i loro gruppi sono in cerca di alleanze tattiche o strategiche. Ma in linea generale essi fanno parte del complesso panorama della fitna, la «guerra civile» che coinvolge da anni l'intero mondo musulmano: tra moderati ed estremisti, tra estremisti di opposte scuole, tra sunniti e sciiti, fra tradizionalisti e fondamentalisti, fra tradizionalisti e fondamentalisti da una parte e «progressisti-moderati» dall'altra. E allora, noi scopriamo di essere riguardo a queste cose dannatamente ignoranti e disinformati. Eppure, di mondo arabo e d'islam si parla tutti i giorni, da un trentennio almeno. Che cosa ci è successo? Che cos'è andato storto? Chi aveva il dovere di farci capire un po' meglio le cose come stanno e non lo ha fatto? Ma soprattutto, insomma, in questo benedetto mondo arabo che cosa vuole «la gente»? Ce l'hanno o no con noi? E perché? E chi li guida, chi li inganna, chi li sobilla? Si sono ribellati in tutto il Nordafrica contro regimi inetti, corrotti e violenti. Sapevamo che tali regimi erano tali. Ciò significa che gli arabi vogliono la «democrazia»? Certo. Ma quale? La nostra? Quella che abbiamo tentato di «esportare» in Iraq e in Afghanistan? Se si ribellano contro delle dittature in nome della democrazia, non possiamo non riconoscerli come nostri fratelli. Il punto però è che quei dittatori che hanno già rovesciato, come Ben Alì e Mubarak, e quello che stanno cercando di rovesciare, Gheddafi, erano da tempo non solo nostri amici e alleati, ma perfino soci in affari: dal petrolio alle Società per Azioni alle Banche. Qualcuno aveva perfino coniato la neoparola «democratura» per definire i loro regimi: dittature sì, ma che a livello mondiale appoggiavano la democrazia. Stavano proprio così, le cose? Prendiamo l'Egitto e i «Fratelli Musulmani». Agiscono in quel paese dagli Anni Trenta; sono stati un formidabile strumento di lotta anticolonialista, ma sostenevano la loro azione con la ferma sicurezza che solo all'interno dell'Islam i popoli musulmani avrebbero potuto trovare la loro strada verso la Modernità. Il regime arabo-socialista di Nasser e i dittatori militari «moderati» che gli sono tenuti dietro («moderati» in senso internazionale, in quanto amici dell'America e non avversari giurati d'Israele) li hanno duramente e ferocemente perseguitati. Eppure, eravamo pronti a giocare che in fondo si trattasse di pericolosi e fanatici «fondamentalisti». Sono stati parte notevole delle forze che hanno rovesciato Mubarak: li abbiamo visti agire, li abbiamo sentiti parlare, e ci siamo resi conto che si tratta, al contrario, di una forza politica equilibrata e ragionevole. Certo, continuiamo a sospettare di loro.

Ma che cosa faremo, se alla prima competizione elettorale seriamente libera, in Egitto, dovessero acquisire la maggioranza? Li lasceremo governare, nel nome della democrazia? O stabiliremo che la «loro democrazia» non è la «nostra», e per esportare quest'ultima o qualcosa che le somiglia cercheremo di calpestare i loro diritti e obbligarli a far come vogliamo noi? Badate: è già successo in Algeria, ai primi degli Anni Novanta, e non è che sia andata bene. Forse, dovremmo piuttosto cercar di capire una cosa. Questa gente ci conosce ormai bene: molti di loro hanno parenti che vivono e lavorano tra noi, quasi tutti vedono i nostri canali TV e moltissimi navigano in internet. Ci sono molto vicini: troppo, per non rendersi conto che la nostra prosperità, inarrivabile per loro, poggia in gran parte sulle ricchezze che noi dreniamo dal loro mondo e sul loro lavoro come manodopera. Questo è il punto da capire e da discutere. Non il fanatismo religioso, ma la sperequazione economica; non la libertà di pensiero, ma la ridistribuzione delle ricchezze. Siamo maturi per affrontare questo problema in modo non miope e non egoistico?

(di Franco Cardini)

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