mercoledì 23 marzo 2011

Non rischiando Berlino rischia grosso


La sinistra vuole la guerra, la destra invece è in imbarazzo, e se solo potesse più che astenersi sarebbe contro. Sembra l’Italia, ma è la Germania. E se le esitazioni del governo di Roma si spiegano anche con la curiosa e personale special relationship tra il premier Silvio Berlusconi e il dittatore libico Muammar Gheddafi, con gli storici interessi petroliferi e con la prossimità geografica che (vedi le preoccupazioni della Lega Nord) rischiano di fare dell’Italia il paese più “danneggiato” dagli sbarchi di rifugiati e profughi provenienti dalla Libia, più difficile sembrerebbe capire le ragioni della Germania, che insieme a Russia, Cina, India e Brasile si è astenuta sulla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite e non sta partecipando, neanche indirettamente, all’attacco militare, deciso da tre alleati storici di Berlino come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Il ministro degli esteri, il liberale Guido Westerwelle, ha respinto le critiche, sostenendo che non solo la Germania «non è isolata», ma molti paesi, «come la Polonia », condividono la sua posizione. Ieri Westerwelle ha persino fatto capire che l’opposizione della Lega araba farebbe intendere che in realtà oggi la Germania sente di avere ancora più ragione di ieri: «Se a tre giorni dall’inizio dell’attacco la Lega araba già lo critica, allora significa che avevamo buoni motivi». Berlino spinge per pressioni economiche e politiche, e si domanda, come ha fatto il cancelliere Angela Merkel qualche giorno fa: «Perché intervenire in Libia e non altrove?». È una domanda che in Italia si fa la sinistra radicale, ma a cui in Europa tanti governi e tanti partiti di opposizione hanno trovato risposte sicure: la Libia è a due passi dai nostri confini, e peraltro – come ha dichiarato il leader dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel – è guidata da un «mafioso del petrolio». «Non è degno della Germania» negare solidarietà al popolo libico, ha attaccato il verde Tom Königs.

Ma allora perché il paese che nel 1999 fu in prima linea nella guerra in Kosovo (grazie al duo rosso-verde composto da Gerhard Schröder e Joschka Fischer) oggi è indeciso al punto che, stando alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Westerwelle avrebbe cercato persino di bloccare la risoluzione dell’Onu? Ci sono ragioni economiche, visto che insieme all’Italia la Germania è uno dei paesi europei che più avrebbero (avrebbero avuto?) da guadagnare dal mantenimento dello status quo gheddafiano (dopo Roma, è il secondo compratore di petrolio libico e il secondo esportatore verso quel paese, con un traffico che è aumentato del 56 per cento nell’ultimo anno).

Ma il motivo principale è di natura politica. La debole maggioranza di centrodestra (che comunque, tradizionalmente, non è certo militarista) non vuole imbarcarsi in un conflitto di cui si ignorano la durata e le conseguenze. Tanta incertezza, tanta imprevedibilità rischia di essere pericolosa in una stagione di importanti appuntamenti elettorali e di alta impopolarità (aumentata anche con l’effetto Giappone sul nucleare), tanto più che, secondo un sondaggio commissionato dal quotidiano Bild all’istituto Emnid, il 62 per cento dei tedeschi è a favore del conflitto, ma il 65 per cento è contro il coinvolgimento tedesco: più o meno proprio la posizione del governo Merkel.

Perché azzardare, insomma? Perché non farsi gli affari propri? Il rischio, però, è un altro. Lo ha sintetizzato così il quotidiano conservatore Die Welt: «Se l’intervento militare ha successo e fa cadere rapidamente Gheddafi, allora il Cancelliere e il suo ministro degli esteri avranno commesso il più grande errore di politica estera dal 1949 a oggi».

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