mercoledì 13 aprile 2011

Caro Francesco, non difendo i kamikaze

Caro Borgonovo,

anche a me piacciono le belle ragazze (c’ho scritto un libro: Dizionario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina). Ma non le ho mai pagate. Questo però non c’entra niente col mio libro. Tu sembri ossessionato dal berlusconismo esattamente come i suoi avversari, con una visione provinciale che non fa onore né all’una né all’altra parte.

Nei Talebani io difendo innanzitutto il diritto elementare di un popolo, o di una parte di esso, a resistere all’occupazione dello straniero, comunque motivata. Altrimenti dobbiamo avere il coraggio e la coerenza di prendere la tanto conclamata Resistenza italiana, che fu in realtà opera di poche migliaia di uomini e di donne coraggiose, e di buttarla nel cesso. Degli afgani, e in generale dei cosiddetti “popoli tradizionali”, io apprezzo alcuni valori prepolitici che sono venuti completamente meno in Occidente: coraggio, fisico e morale, dignità, lealtà, rispetto della parola data («Il Mullah Omar se promette una cosa la fa», dice Abdul Salam Zaeef che si è distaccato da tempo dal movimento talebano ma che ha conosciuto da vicino il leader) e, per quello che riguarda in particolare i Talebani, l’integrità e l’incorruttibilità. Quando il Mullah Omar si rifugia presso il capo tribale Walid i marines vanno sul posto e ne chiedono l’immediata consegna. Sulla sua testa pende una taglia di 25 milioni di dollari. Con una cifra simile, da quelle parti, si compra tutto l’Afghanistan e anche un po’ di Pakistan. Walid farà solo finta di trattare, per permettere a Omar di guadagnare terreno sui suoi inseguitori. Quando Zaeef, che non è un cuor di leone, viene catturato dagli americani che prima lo sottopongono al “trattamento Abu Grahib”, che non è una deviazione sessuale di qualche soldato o soldatessa depravati ma una pratica della “cultura superiore”, poi alle torture vere e proprie e quindi gli promettono libertà e un mucchio di soldi, Zaeef risponde: «Non c’è prezzo per la vita di un amico e di un compagno di battaglia». Tu sai - perché la cronaca ce lo dice ogni giorno - a quali prezzi oggi si vendono gli uomini e le donne in Italia, senza che ci sia bisogno di metterli sotto tortura. E non parlo solo di denaro, ma degli umilianti infeudamenti, al bacio delle babucce, a cui tantissimi si sottopongono pur di avere, quasi sempre immeritatamente, un posto di rilievo nella società.

I bombardamenti da diecimila metri di altezza, spesso con i robot, i Dardo e i Predator, non sono solo un modo vigliacco di combattere sono esattamente la ragione per cui la Nato, pur così strapotente, sta perdendo la guerra all’Afghanistan. Scrive Ahmed Rashid, considerato il maggior esperto delle vicende dell’Asia Centrale e della questione afgana in particolare: «L’indisponibilità della Nato ad accettare perdite di vite umane la costringe a diperdere dalla potenza aerea (...) ma così facendo l’Alleanza perde la speranza di conquistare la popolazione» (A.Rashid, Caos Asia, p.411, Feltrinelli, 2008).

Gli afgani, e anche i Talebani, non sono mai stati terroristi. Non c’era un afgano nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle. Non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda, scoperte dopo l’11 settembre. Ci sono arabi sauditi, tunisini, algerini, marocchini, egiziani, yemeniti, ma non afgani. Nei durissimi dieci anni di guerriglia contro gli invasori sovietici, i mujaheddin afgani non si sono resi responsabili di un solo atto terroristico, tantomeno kamikaze (eppure un’aeroflot poco difesa non era difficile da trovare). Il terrorismo è estraneo alla loro cultura. Sono dei guerrieri, che è cosa diversa. E se all’inizio del 2006, dopo un contrastato dibattito della Shura talebana, il Mullah Omar ha dato l’autorizzazione ai comandanti militari, che la chiedevano, di accompagnare le tradizionali tattiche della guerriglia con gli attentati terroristi, è perché contro un nemico che, a differenza dei sovietici, non ha nemmeno la dignità di stare sul campo e si rende irragiungibile e spesso invisibile, combattendo con i robot, che cose resta a una resistenza?

In Afghanistan, c’era Bin Laden. I Talebani se lo sono ritrovati in casa, non ce lo avevano portato loro, ma, due anni prima che il loro movimento nascesse, il nobile Massud, molto apprezzato in Occidente, a differenza di Omar, per combattere un altro “signore della guerra”, Heckmatyar. Comunque sono passati dieci anni. Bin Laden in Afghanistan non c’è più e, ammesso che sia mai esistita, nemmeno Al Qaeda. La stessa Cia ha calcolato che su circa 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri, ma sono ceceni, uzbeki, turchi, cioè non arabi, non waabiti che hanno in testa la jihad universale contro l’Occidente.

Nei documenti del Pentagono e della Cia i combattenti talebani, cui si sono aggiunti nazionalisti afgani di ogni provenienza, sono definiti insurgents, insorti. Solo i ministri La Russa e Frattini, insieme a qualche loro reggicoda, continuano a chiamarli “terroristi”. La rivolta talebana non è più solo talebana, ma come documentano tutti i reportage è una ribellione all’occupazione dell’arrogante straniero che crede, con una buona dose di egocentrismo oltre che di infantilismo, che i propri valori, perché sono i propri, siano i migliori dimenticando non solo la lezione di Montaigne che nel famoso capitolo dei Saggi intitolato I cannibali e dedicato agli indigeni sudamericani scrive: «Certo, per noi loro sono cannibali, ma ai loro occhi i cannibali siamo noi», ma anche quella sul relativismo culturale di Levi Straus che non era un estremista talebano, ma un filosofo e antropologo francese che aveva conosciuto molti popoli che hanno storia, tradizioni, diritto di famiglia, forme di giustizia, concezione della vita e della morte completamente diverse dalle nostre.

Infine tu sembri rimproverarmi, Borgonovo, di scrivere quello che scrivo “stando al calduccio della mia casa borghese”. A parte che la mia casa è tutt’altra cosa, come ti renderai conto quando verrai a trovarmi, il punto non è questo. Tu, difensore del diritto della libertà di espressione, non ti rendi conto che in questo modo castri ogni possibilità di critica. O uno fa il Byron e va a battersi personalmente per la libertà della Grecia oppure le sue parole non contano.

Io credo di aver esercitato il coraggio nella sola forma possibile in democrazia: che è il coraggio morale. Io ho scritto sempre e solo ciò che pensavo, non mi sono mai infeudato a partiti, bande, lobbies, sono stato sempre un ’chevalier seul’ e per questo ho pagato prezzi durissimi, sul piano professionale, sociale e, alla fine, anche esistenziale. Altro che i “sessantottini” cui tu, forse perché hai ancora il latte sulle labbra, sembri apparentarmi. Sulla coerenza intellettuale, morale, esistenziale e anche materiale penso che ci siano pochi, in questo Paese, che abbiano diritto di darmi lezioni.

(di Massimo Fini)

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