venerdì 22 aprile 2011

La cultura di destra? Clandestina, ma viva


Chi ha ucciso la cultura di destra? Le piste al vaglio degli inquirenti sono quattro: la sinistra, Berlu­sconi, Fini, il suicidio. O per dir meglio, le ipotesi finora avanzate sono le seguenti: a) l’egemonia culturale della sinistra con la sua cappa ideologico-mafiosa le avrebbe negato gli spazi di libertà e visibilità fino a soffocarla; b) l’egemonia sottoculturale del ber­lusconismo in tv e in politica l’avrebbe per metà corrotta e per metà emarginata; c) l’insipienza della destra politica avrebbe de­molito ogni ragione culturale e ideale della destra, fino all’epilo­go indecente finiano; d) la cultu­ra di destra è evaporata per la sua stessa inconsistenza.

La riapertura del caso, dopo an­ni di silenzio, è dovuta alla ripubblicazione di un saggio di Furio Jesi, Cultura di destra (già Garzanti, ora Notte­tempo), uscito negli anni Set­tanta. È già un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni Settanta con un trattato di criminologia culturale. Jesi, che morì precocemente nel 1980, convoca in un tribunale ideologico grandi autori, da Eliade a Kerényi, da Evola a Spengler, fino a Pirandello e D’Annunzio, arrivando perfi­no a Carducci e a De Amicis, so­cialista patriottico qui accusa­to di razzismo. Per Jesi la cultu­ra di destra è connotata dal raz­zismo e dall’antidemocrazia, dalle «idee senza parole», dalla mitologia irrazionalistica e dal culto della morte. Jesi liquida la cultura di destra come «una pappa omogeneizzata» (se c’è una cosa che ripugna alla cultu­ra di destra è la pappa omoge­neizzata) che esige valori non discutibili con la maiuscola: «Tradizione e Cultura, Giusti­zia e Libertà, Rivoluzione». È curioso notare che eccetto la Tradizione, quei valori sono di­chia­rati indiscutibili e maiusco­li a sinistra; Giustizia e Libertà è pure il nome di un movimento antifascista di ieri e di oggi.

Nella prefazione alla nuova edizione, che ignora i numerosi saggi sul tema usciti nel frattem­po negli ultimi 32 anni, Andrea Cavalletti sostiene che la cultu­ra di destra è «caratterizzata, in buona o in cattiva fede, dal vuo­to ». Ora, a parte l’assurdo di de­dicare centinaia di pagine al «vuoto», ne avessero dalle sue parti di «vuoti» come quei gigan­ti del pensiero e della letteratu­ra prima citati... E conclude allu­dendo, come è ovvio, a Berlu­sconi: la cultura di destra ama la relazione tra «la moltitudine e il vate» e perciò si ritrova nel pre­sente: «un simile benefattore è il tipo politico dei nostri giorni», «il linguaggio delle idee senza parole è la dominante di quan­to oggi si stampa e si dice» (ma che dice? Oggi dominano le pa­role senza idee e la stampa non è certo in mano alla cultura di destra) e la cultura di destra è egemone perché «ciò che la ca­ratterizza è la produzione del vuoto dal vuoto» (ma crede che Evola e Spengler siano i precur­sori di Lele Mora e Fede?). Con un livello così misero, capite il disagio nel discutere sulla cultu­ra di destra. E capite perché ne­ghino ancora, al più grande filo­sofo italiano del ’900, Giovanni Gentile, una via a Firenze dove fu ucciso dopo aver predicato la concordia in piena guerra civi­le.

Ma torno alla domanda inizia­le su chi ha ucciso la cultura di destra. Sono plausibili tutte le piste indicate ma a patto di chia­rirle meglio.

Certo, la cultura dominante di sinistra, dopo un periodo di dialogo e apertura, si è reincatti­vita e condanna la cultura di de­stra alla morte civile. Sono lon­tani i tempi in cui un editore co­me Laterza pubblicava, facen­do 15 ristampe, un saggio sulla cultura della destra di un auto­re di destra. In seguito, inaspri­to il clima, lo stesso editore ha declinato l’invito a integrare quel testo con i dialoghi dell’au­t­ore con Dahrendorf e con Bob­bio. Oggi dialogano solo se ti di­chiari antiberlusconiano. Ma la cultura di sinistra era egemone e faziosa già ai tempi in cui fiori­va la cultura di destra; dunque l’ipotesi è fondata ma non ba­sta.

Certo, la sottocultura televisi­va, il frivolo e il banale domi­nanti hanno reso straniera la cultura di destra, la fanno senti­re a disagio, fuori posto. Ma quella sottocultura imperversa­va dai tempi della Carrà e dei quiz, di Giovannona coscialun­ga e affini; e allora non c’era an­cora il berlusconismo. Insom­ma pure questa ipotesi è fonda­ta ma non basta.

Anche l’insipienza della de­stra politica è storia vecchia, Fi­ni l’ha portata al suo gradino ul­timo e più infame, ma sarebbe troppo ritenere che le sue piro­ette abbiano cancellato la cul­tura di destra. Quella cultura non viveva all’ombra di un par­tito; per la stessa ragione non può essere uccisa dalla politi­ca.

All’evaporazione, infine, non credo; piuttosto è vera la ra­refazione dei talenti, anche per il clima di cui sopra, tra nemici di fuori, ignoranti di dentro e il nulla che tutto pervade. Nel ge­nerale degrado della cultura, anche quella di destra spari­sce. Della cultura di sinistra so­pravvive la cappa di potere, l’as­setto mafioso e intollerante, non certo l’elaborazione di idee. Non mancano pulsioni autodistruttive, nella cultura di destra, derivate da pessimismo endogeno e sconforto esoge­no. Ma la cultura di destra ha dismesso i panni della cultura militante, panni vecchi e fuori tempo, ed è tornata al Padre. Si è fatta invisibile e celeste, me­no legata alla storia e alla lotta, più essenziale ed esistenziale, liberata dalle categorie ideolo­giche. Quegli autori citati, no­nostante alcuni brutti risvolti, restano grandi ed è meglio che non siano sporcati nella conte­sa politica e siano lasciati alla loro grandiosa solitudine.

Al termine delle indagini sommarie, si può dire: la cultu­ra di destra non è stata uccisa e vive sotto falso nome; o forse fal­so era il nome di «destra» che le fu affibbiato. Per metà non la ve­diamo perché abbiamo perso gli occhi della mente, accecati dal livore presente e dalla nullo­crazia. Per metà non si fa vede­re lei, perché si è spostata su pia­ni diversi, impolitici. È passata alla clandestinità e non ha per­messo di soggiorno.

(di Marcello Veneziani)

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