mercoledì 31 agosto 2011

Il fascino antimoderno della montagna


«Sulla montagna sentiamo la gioia di vivere, la commozione di sentirsi buoni e il sollievo di dimenticare le miserie terrene. Tutto questo perché siamo più vicini al cielo», così Emilio Comici, uno dei massimi esponenti dell’alpinismo italiano tra gli anni trenta e quaranta insieme a Cassin e Carlesso, nel suo libro “Alpinismo eroico”, sintetizzava quello che la montagna può trasmetterci.

E sono proprio queste le sensazioni che si provano quando si va in alto. L’incontro con le vette riesce a regalare orme indelebili e durature. Quando si inizia un sentiero, non importa quanto si sale o la difficoltà che si affronta, tutto diventa magico. Il frastuono delle città moderne viene lasciato alle spalle e il silenzio ci accompagna nella salita. I rumori della natura diventano musiche e pensieri che riescono a non far sentire la stanchezza.

Julius Evola in “Meditazioni dalle vette”, sosteneva che la montagna potrebbe agire come simbolo per avviare una realizzazione interiore: «è dall'irrazionalità di impressioni, visioni, di inesplicabili slanci e inesplicabili, gratuiti eroismi che egli viene portato avanti, lungo vie di un ascendere, che alla fine giunge inavvertitamente ad agire anche in termini d'interiorità. E in sede di subcoscienza che egli si trova inserito in una realtà più vasta e che da essa riceve non solo trasfigurazione in senso di calma, sufficienza, semplicità, purezza, ma anche un afflusso quasi sovranormale di energie, insuscettibile ad essere spiegato con i fallaci determinismi della fisiologia, una indomabile volontà di procedere ancora, di sfidare nuove altezze, nuovi abissi, nuove pareti, poiché appunto in ciò si traduce la inadeguatezza dell'azione materiale rispetto al significato che ormai la anima, la trascendenza dell'impulso spirituale rispetto alle condizioni esterne, alle imprese, alle visioni, alle audacie che ne hanno propiziato il risveglio e che ancora costituiscono la materia necessaria per la estrinsecazione concreta di quell'impulso stesso».

L’ascensione alla vetta, dunque, non è solamente una prova fisica, ma soprattutto una prova spirituale e mentale: «la montagna per essi non è più né novità d'avventura, né romantica evasione, né sensazione contingente, né eroismo per l'eroismo, né sport più o meno tecnicizzato. Essa si lega invece a qualcosa, che non ha principio né fine e che, conquista spirituale inalienabile, fa ormai parte della propria natura, come qualcosa che si porta con sé ovunque a dare un nuovo senso a qualsiasi azione, a qualsiasi esperienza, a qualsiasi lotta della vita quotidiana».

Molto probabilmente la montagna conosciuta da Evola, da Comici e da molti altri, non è più la montagna di oggi. Una montagna sempre più popolata da “alpinisti” della domenica, da persone che credono che avere l’attrezzatura più tecnologica possa bastare per affrontare la natura e la solitudine delle immense pareti rocciose. Non è così. Renè Daumal su “Il monte analogo” scrive: «Con un pò di soldi, si arriva comodamente a trarre dalla civiltà ambiente le poche soddisfazioni corporee elementari. Il resto è falso. Falsità, trucchi, tic, ecco tutta la nostra vita tra il diaframma e la volta cranica. Il mio Superiore aveva detto bene: io soffro di un bisogno inguaribile di capire. Non voglio morire senza aver capito perchè ho vissuto. E lei, ha mai avuto paura della morte?»

La purezza e la verità di questi mondi solitari e luminosi non ha eguali. Non a caso, sin dall’antichità, la montagna era sede di nature divine e di eroi, axis mundi.

(fonte: www.ilsitodiperugia.it - di Fabio Polese)

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