lunedì 29 agosto 2011

Il tragico fallimento della guerra in Afghanistan


Non si può lasciare una guerra perché un soldato è caduto in battaglia. Sarebbe grottesco: se si interviene in una guerra, bisogna accettarne i rischi. È quanto accaduto al caporal maggiore David Tobini ucciso in un agguato talebano, molto ben congegnato, nella vallata del fiume Murghab, nel nord dell’Afghanistan.

I caduti italiani in Afghanistan sono ora 41. Cifra che presa d’amblè, può far impressione, ma che, in dieci anni di conflitto, non è particolarmente rilevante. I danesi, con un contingente che è un quarto del nostro, ne hanno avuti altrettanti. Gli inglesi 386 su 9500, proporzionalmente il quintuplo dei nostri. Del resto i britannici sono stati gli unici a battersi sul campo senza far uso sistematico dell’aviazione che è certamente utilissima dal punto di vista militare ma devastante sotto quello politico perché colpisce più i civili che i guerriglieri andando così ad aumentare l’appoggio agli insorti. Gli altri contingenti, pur superiormente armati, sul terreno non sono in grado di battersi alla pari con i talebani come dimostra anche l’episodio di Murghab dove gli italiani, per sottrarsi a perdite ancora maggiori, sono stati costretti a chiedere l’intervento dell’aviazione Nato. È che i giovani occidentali non hanno, anche quando sono militari ben addestrati, la vitalità necessaria per affrontare sanguinosi corpo a corpo. Il benessere li ha fiaccati. Inoltre troppo diverse sono le motivazioni. Da una parte c’è gente che si batte per liberare il proprio Paese dall’odiosa occupazione dello straniero, dall’altra soldati che non sanno per che cosa combattono.

Ad ogni caduto italiano i ministri Frattini e La Russa ripetono talmudicamente che «la missione continua». Ma che senso abbia oggi questa missione né Frattini né la Russa né alcun altro è in grado di spiegarcelo. Affermare che i soldati italiani in Afghanistan stanno difendendo la Patria e l’Occidente dal terrorismo internazionale è ridicolo, se non fosse tragico. Il terrorismo internazionale, quaedista, waabita, non sta, con tutta evidenza, in Afghanistan. Quel che resta di Al Quaida è trasmigrato da anni altrove. Lo stesso Al Zawahiri, che formalmente ha sostituito Bin Laden, ha affermato che cellule di Al Quaida esistono in Somalia, in Yemen, in Egitto, i Giordania, ma non ha nominato l’Afghanistan. Perché in Afghanistan non c’è Al Quaida, ma un’insurrezione contro lo straniero che ha come punta di lancia i talebani che coinvolge ormai quasi tutta la popolazione.

Il presidente Napolitano, ex comunista pacifista diventato guerrafondaio «in senectute», continua a ripetere, come un disco rotto, che «l’Italia deve rispettare i propri impegni internazionali». Ma quali impegni? Siamo in Afghanistan da più di dieci anni e invece di indebolire il talebanismo lo abbiamo rafforzato. Gli olandesi se ne sono andati nell’agosto del 2010. I canadesi, i francesi e i polacchi lo faranno entro il 2012. Gli stessi americani stanno trattando (ci sono stati incontri in Europa e a Dubai) col Mullah Omar improvvisamente promosso al rango di «talebano moderato». Solo noi dobbiami rimanere a fare i servi degli Usa, sciocchi come tutti i servi e ad ammazzare e farci ammazzare senza un vero perché?

(di Massimo Fini)

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