martedì 20 settembre 2011

Il peccato non è reato


Questa povera nazione è travolta da bande di irresponsabili che guerreggiano sulla pelle del popolo incuranti dei suoi destini. I poteri costituzionali si sono trasformati in macchine belliche che si fronteggiano delegittimandosi reciprocamente. Il loro campo di battaglia è la società italiana; lo scopo, sia pure non dichiarato, è quello di fare a pezzi lo Stato. I giornali - soprattutto alcuni giornali - che dovrebbero contribuire a formare la pubblica opinione, si sono trasformati in gazzette che incitano le parti a non fare prigionieri. O tutto o niente. Come se la posta in gioco fosse la conquista di territori strategici. Alla fine dello scontro, che può durare ancora per molto tempo, prevedibilmente non resterà nulla da arraffare come bottino. Macerie fumanti, sfiducia montante, istituzioni distrutte. La decadenza non conosce confini. Né limiti. Essa si dispiega come può e fin dove può. Non ha remore morali nel distruggere la convivenza civile, nell’aizzare all’odio, nel delegittimare i nemici.

Apocalittici integrati funzionali alla distruzione di massa sono gli indefessi lavoratori impegnati nel terremotare le fondamenta stesse della comunità. È probabile che coloro i quali sono votati alla demolizione non di un uomo, ma di una parte consistente dell’elettorato che in lui si è riconosciuta, immaginando addirittura di poter acquisirla, non si pongano neppure minimamente il dubbio che la loro azione di logoramento della ragion di Stato finirà per travolgerli a beneficio di poteri esterni che avranno la strada spianata per impossessarsi di ciò che resterà dell’Italia.

L’irrilevanza che lamentano del nostro Paese nei consessi internazionali non è data dai comportamenti privati di Berlusconi, ma dalla sarabanda che hanno messo in piazza della sua vita e dei suoi costumi, enfatizzando il tutto come paradigma di una immoralità insopportabile, senza curarsi di distinguere tra peccato e reato: se il secondo non c’è o quantomeno non è dimostrabile allo stato, resta - e soltanto per chi crede, naturalmente, e non per gli immoralisti di professione, un tempo "libertari" - il primo che risulta comunque utile per rendere impresentabile chiunque se lanciato come un’accusa furente che neppure contro Eliogabalo venne formulata dai suoi detrattori i quali, al contrario dei nostri contemporanei, tenevano alla ragion di Stato e ai destini dell’impero.

Come ci tenevano, in epoche più recenti, gli americani quando governava Kennedy, i francesi al tempo di Mitterrand, gli inglesi sotto il regno di Edoardo che preferì Wally Simpson al trono: popoli fortunati quelli in cui la distinzione tra peccato e reato guida i poteri costituzionali ed i circoli che indirizzano l’opinione pubblica. Ancora di più lo sono quelli dove lo Stato di diritto non viene offeso quotidianamente dall’intrusione arbitraria nelle vite degli altri, spezzate o nella migliore delle ipotesi vilipese ed offerte al pubblico ludibrio. E non si tratta soltanto delle vite dei potenti, ma anche dei povericristi che non hanno neppure la voce per potersi difendere. Centomila intercettazioni o un milione, che differenza fa? La guerra totale non ammette conteggi: è l’esito che conta. In questo Stato siamo finiti. Tribale, appunto. E niente lascia presagire che la situazione migliori.

(di Gennaro Malgieri)

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