lunedì 28 novembre 2011

Intellettuali berlusconiani? Non esistono, per fortuna


E adesso dove andranno gli intellettuali del Cav? Si chiedeva l’altro giorno il supplemento culturale del Fatto, Saturno, dedicando un’inchiesta ai «Berluscolti». Lasciate che io rifiuti in modo secco la domanda: non esistono intellettuali berlusconiani. Ci sono stati intellettuali che hanno preferito Berlusconi ai suoi rivali e ai suoi alleati, ci sono stati perfino intellettuali eletti nelle liste del partito di Berlusconi, ma non ci sono intellettuali berlusconiani, e questa è stata dannazione e merito di Berlusconi. A parte sparuti tentativi, nessun intellettuale può dirsi organico al berlusconismo, espressione di una «cultura» o un’ideologia berlusconiana. È esistita una cultura liberale, una cultura cattolica moderata, una cultura fascista, una cultura conservatrice o di destra. Ma non esiste una cultura berlusconiana. In politica il berlusconismo è stata una risposta pragmatica a domande immediate e bisogni reali. Poi ciascuno dirà se adeguata o inadeguata, vera o apparente, ma la cultura non c’entra; al più si può dire che l’antideologia berlusconiana può aver avuto a suo modo tratti ideologici o perfino iperideologici, come l’antipolitica ha innegabili tratti iperpolitici. Ma un rapporto tra cultura e berlusconismo non c’è stato. E questo da un verso può leggersi come un coerente pragmatismo liberale che non vuole irregimentare la cultura e allineare intellettuali organici. E dall’altro va letto come un’indifferenza alla cultura, a volte un disprezzo, non solo nella convinzione che cultura voglia dire sinistra, ma anche nella persuasione dell’irrilevanza politica, elettorale e commerciale, della cultura.

Se faccio la storia del berlusconismo dalle sue origini trovo un manipolo di intellettuali «liberali» e quasi tutti ex comunisti che hanno aderito a Forza Italia per fiducia verso il leader Berlusconi e in polemica con il mondo di provenienza, il comunismo, la sinistra e le sue rovinose utopie. Dico Licio Colletti, Saverio Vertone, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa, Giuliano Urbani, Vittorio Mathieu e altri. Molti di loro, diventando parlamentari di Forza Italia, non elaborarono culturalmente la loro scelta politica, ma l’abbracciarono per motivazioni politiche, pratiche e anti-ideologiche, più un generico liberalismo. Le loro opere più significative erano già alle loro spalle, per taluni la parabola intellettuale era già compiuta, il laticlavio politico era solo un coronamento, se non un dignitoso pensionamento. Chi ha tentato di rielaborare il berlusconismo sono stati soprattutto coloro i quali hanno cercato di dare un’identità popolare, liberale e cristiana a Forza Italia: dico su piani diversi, Gianni Baget Bozzo, Marcello Pera e Giuliano Ferrara, più altri di minor peso politico. Ma si è trattato non di intellettuali organici al berlusconismo ma al contrario di tentativi di orientare il berlusconismo, dare spessore culturale e direzione strategica a un leader e a un fenomeno che ne sono rimasti refrattari. E questo vale a maggior ragione per chi è stato considerato “vicino” al berlusconismo e che l’inchiesta di Saturno identifica in personalità assai diverse come Giordano Bruno Guerri, Dario Antiseri, Vittorio Sgarbi e Pietrangelo Buttafuoco. Naturalmente il discorso vale ancor più per chi, come me, si considerava e si considera nel residuo significato del tutto impolitico che resta, “di destra”. Per me Berlusconi è stato la gigantografia dell’italiano medio, la risposta della realtà al fumo ideologico, il populismo contro le oligarchie economiche, intellettuali e i relativi potentati. Non mi aspettavo da Berlusconi la tutela e la promozione della cultura della destra e nemmeno della cultura in generale; avrei dovuto aspettarmela semmai, se non conoscessi la loro caratura, da chi rappresentava nel polo berlusconiano la destra. Berlusconi vinceva sul terreno elettorale, ha avuto consenso popolare, ha saputo commercializzare i prodotti della politica, ha saputo sedurre. Spettava alla destra il compito di dare spessore, senso dello stato e dell’italianità, ricondurre quelle vittorie a un’effettiva mutazione culturale, una riforma se non una rivoluzione civile, che invece non c’è stata. Ma nessuno poteva ragionevolmente riporre quelle aspettative su Berlusconi e il berlusconismo. Gli aspetti inaccettabili del berlusconismo furono in parte giustificati da chi proveniva da destra come male minore rispetto al Nulla ideologico livoroso dell’antiberlusconismo e dell’antifascismo di maniera.

E come effetto più che causa di un più antico e radicale nichilismo, che passava anche dall'egemonia della tv. Infine il berlusconismo è stato accettato come puro segno di vitalismo rispetto al mortifero processo di dissoluzione in atto nel nostro paese. Se Berlusconi ha rappresentato nel bene e nel male l’autobiografia della nazione, a lui gli si opponeva da sinistra l’autopsia della nazione.

Se vogliamo, i veri messaggeri del berlusconismo non sono stati intellettuali ma personaggi e programmi televisivi; ma si è trattato di un fenomeno di massa e non propriamente culturale. Un’incidenza significativa ha avuto il giornalismo filo-berlusconiano. Ma è stata emanazione del berlusconismo o al contrario ha assemblato sensibilità diverse in una crociata di cui Berlusconi era «utilizzatore finale» ma non ispiratore reale? Naturalmente non parlo dei servi e dei cortigiani, ma di giornalisti che brillano di luce propria.

Per questo mi sembra insensato applicare ora agli intellettuali di centro-destra l’alternativa tra irriducibili e voltagabbana. Ma insensato è pure lamentarsi che il berlusconismo non li abbia valorizzati. Non era sensato aspettarselo e tutto sommato preferisco la cultura sottratta all’abbraccio nefasto della politica, che salva la sua dignitosa solitudine. Penso che avesse ragione Diogene quando rispose ad Alessandro Magno che gli chiedeva cosa potesse fare per lui, di scostarsi semplicemente dal sole. Al vero saggio interessa la luce del sole e non l’ombra del potere.

(di Marcello Veneziani)

domenica 27 novembre 2011

La tracciabilità del moralismo


Fra le “impressionanti” misure che il governo dei banchieri si accinge a prendere viene ventilata quella di togliere di mezzo il biglietto da 500 euro o, il che fa lo stesso, di mettere una tassa, operata dalle banche per conto dello Stato, sul deposito o sul prelievo di monete di questo taglio. In un pacchetto di sigarette ci stanno 20 mila euro, in una ventiquattr’ore 6 milioni. Si vuole quindi far la lotta agli evasori, ai corruttori, ai riciclatori che si servono di questi tagli. Gli obiettivi sono nobilissimi, le vere ragioni di questo provvedimento un po’ meno.

Negli ultimi mesi molti piccoli risparmiatori, temendo un crollo delle banche, hanno prelevato tutto il possibile dai conti correnti, lasciandovi il minimo indispensabile, per metterlo al sicuro in casa propria. E altri li stanno seguendo. Naturalmente questi prelievi sono avvenuti con banconote da 500, per poterli nascondere agli occhi dei ladri. Adesso, con questa misura, il governo dei banchieri vuole impedire ai risparmiatori che temono un crac degli Istituti di credito di ritirarvi il loro denaro e imporre a quelli che lo hanno già fatto di rimettercelo. Devono rimanere ostaggio delle banche.

Nella stessa direzione va la misura, molto apprezzata dalla sinistra, che vuole rendere “tracciabile” ogni pagamento al di sopra dei 300 euro o addirittura, come pretendono alcuni khomeinisti, a cui ha dato voce Milena Gabanelli, qualsiasi pagamento in contanti. I pagamenti avverrebbero quindi, in gran parte con assegni, carte di credito, bancomat, bonifici, tutte operazioni sulle quali le banche hanno le loro commissioni. Se poi ogni pagamento in contanti, di qualsiasi entità, dovesse essere tassato le banconote sparirebbero dalla circolazione, perché nessuno, nemmeno il giornalaio o il fruttivendolo, le accetterebbe (la “fresca” rimarrebbe, forse, solo al tavolo del poker, l’unico luogo pulito di questo Paese marcio fino al midollo). Saremmo obbligati a tenere tutto il nostro denaro in banca. Ma le banche sono delle società private e lo Stato non può obbligarmi a tenervi il mio denaro. Io il mio denaro ho diritto di metterlo dove mi garba.

Lo Stato nasce, oltre che per amministrare giustizia, per battere moneta. Se non ha fiducia nella propria moneta non è più uno Stato. Se uno Stato non è capace di contrastare l’evasione, la corruzione, il riciclaggio senza far pagare un pesante pedaggio ai cittadini che non sono né evasori, né corruttori, né riciclatori di denaro sporco, non è più uno Stato. Rovesciamolo assieme alle sue classi dirigenti, politiche ed economiche, che ci hanno portato a questo punto e ricominciamo da capo. Infine non è possibile che lo Stato (che non per niente Nietzsche chiama “il più freddo di tutti i mostri”) si intrufoli attraverso la cosiddetta “tracciabilità” nella mia vita privata fino a conoscere, nel dettaglio, i miei acquisti, le mie predilezioni, i miei gusti, i miei vizi. Milena Gabanelli sostiene che “la gente comune non ha necessità di più di una cinquantina di euro alla settimana”. Ma dove vive, in un monastero? Una buona bottiglia di vino e un pacchetto di sigarette fan già 15 euro al giorno. Il moralismo della sinistra è insopportabile. E ora capisco perché tanti, senza per questo essere dei lestofanti, votavano Berlusconi. Perché Berlusconi difendendo la sua libertà criminaloide difendeva anche, per estensione, la libertà di tutti dallo strapotere dello Stato. Aridatece subito il Caimano.

(di Massimo Fini)

giovedì 24 novembre 2011

Disse: l'euro è marcio. Licenziato


Non concede interviste, non partecipa a dibattiti televisivi e raramente parla in conferenze pubbliche. Eppure quella che è arrivata è la sua ora, questo è il momento in cui potrebbe svergognare tutti i suoi nemici, per lo più annidati nei palazzi di Bruxelles. Bernard Connolly, 61 anni, è l’autore di Il cuore marcio dell’Europa, il libro che già nel lontano 1995 prevedeva il fallimento dell’Unione monetaria europea e che gli fece perdere il posto di economista presso la Commissione Europea che allora ricopriva. Nel testo, che ebbe grande successo di vendite nel suo paese d’origine (il Regno Unito) ma che gli valse un’indagine per accertare se fosse perseguibile per aver rivelato segreti d’ufficio dalla quale uscì pulito, Connolly criticava vivamente la modalità surrettizia e antidemocratica con cui veniva progressivamente istituto un supergoverno europeo e lo SME, il sistema monetario europeo antesignano dell’euro.

Nel 1998 Connolly predisse che l’introduzione dell’euro avrebbe prodotto nel tempo l’aumento dei deficit di molti paesi, condotto alcuni di essi sull’orlo del default e innescato disordini sociali. Trasferitosi negli Usa dopo il suo eurolicenziamento, ha lavorato come analista finanziario a New York per Aig Financial Products e da qualche anno si è messo in proprio. In queste vesti ha tradotto le sue convinzioni sull’Unione monetaria europea in consulenze per gli investitori che si sono rivolti a lui, sempre più costose, man mano che i fatti venivano a dargli ragione.

Nel 2005, per esempio, quando era un dipendente di Aig Financial Products, ha convinto un certo numero di hedge fund e investitori privati a scommettere contro la solvibilità di alcuni paesi dell’euro. Ha fatto loro acquistare credit default swaps di paesi che allora presentavano tassi di interesse di poco superiori a quelli tedeschi, ma che lui giudicava molto fragili in prospettiva: Grecia, Portogallo e Irlanda. Nel 2008 e nel 2009, quando i rischi di default di questi tre paesi sono decisamente cresciuti e il valore degli swaps acquistati quattro anni prima è andato alle stelle, gli hedge fund hanno mietuto copiosi profitti. Altri investitori di medio e lungo termine ringraziano Connolly per averli tenuti alla larga dai bond di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Gli hedge fund intenzionati a scommettere su una prossima dissoluzione della zona euro dell’euro fanno la fila per i suoi rapporti, che a volte superano le 70 pagine e chiamano in causa riferimenti abbastanza stravaganti per un analista finanziario come John Stuart Mill e gorge W. F. Hegel.

Il suo “servizio completo”, inclusivo di meeting e consulenze telefoniche, può costare fino a 100mila dollari, e il suo ufficio produce fino a 20 mila parole di analisi finanziaria alla settimana. Con tutto ciò Connolly continuerebbe a mostrare, secondo coloro che lo frequentano, una profonda preoccupazione nei confronti delle conseguenze economiche e sociali dell’avverarsi delle sue predizioni, e considererebbe la sua più importante missione contribuire a evitare il disastro che a suo parere si sta profilando. “E’ angosciato”, afferma James Aitken, un analista finanziario suo amico che lavoro con lui alla Aig Financial Products, “vede a cosa sta portando tutto questo, e lancia l’allarme contro il pericolo di questa tragedia umana”.

L’ultima apparizione pubblica di Connolly di cui si ha notizia è stata una conferenza a Los Angeles nella scorsa primavera, organizzata dal Milken Institute. Anche lì ha cercato di dimostrare che non gli sta a cuore solo fare soldi come consulente degli speculatori, ma vorrebbe che le sue profezie di sventura fossero prese sul serio per poter evitare il peggio.

“L’attuale politica di prestiti abbinata all’austerità porterà a disordini sociali” ha detto illustrando il caso di Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. “E non si dovrebbe dimenticare che tutti e quattro i paesi di cui stiamo parlando hanno avuto guerre civili, dittature e rivoluzioni. Questa è storia. E questo sarà il futuro se questa maligna follia dell’unione monetaria continua ad essere perseguita e schianta al suolo questi paesi”.

(di Rodolfo Casadei)

lunedì 21 novembre 2011

Quel presidente con i superpoteri

L'irruzione delle idee e del pensiero di Carl Schmitt nella crisi italiana è stato sottovalutato. Meritevolmente Ruggero Guarini, ha opportunamente rotto il silenzio su una circostanza che avrebbe dovuto stimolare gli studiosi a sottolineare l'impatto del grande studioso tedesco, scomparso nel 1985 all'età di novantasette anni, sulle convulsioni politico-istituzionali che ci tengono in apprensione.

Quel che è venuto in evidenza nel corso della formazione del governo Monti è stato l'eccezionalità del contesto e della soluzione adottata. Perciò è facile, per chi abbia dimestichezza con la dottrina schmittiana, riconoscere che il tema della sovranità si lega strettamente a ciò che è accaduto, anche al di là della volontà dei protagonisti, ed in particolare del protagonista assoluto, il presidente della Repubblica. Non so se Napolitano si sia reso conto che egli ha dato respiro politico ad un assunto rimasto sepolto nei cassetti dei politologi per decenni, implicitamente riconoscendo che "sovrano è chi decide sullo stato d'eccezione". Lo affermava perentoriamente Schmitt nello scintillante e profetico "Teologia politica" (1922) spiegando che un tale "stato" è quello non descritto, non previsto nell'ordinamento giuridico, dal quale si crea una situazione "normale", ricondotta cioè in un alveo nel quale si riconoscono tutti e ne prendono contezza. Sovrano, perciò, è colui che decide in maniera definitiva, perfino forzando le prassi costituzionali senza tuttavia stravolgerne le norme, se lo stato di normalità si è ristabilito al fine di non far deflagare in conflitti incontrollabili le posizioni contrapposte. "Il caso d'eccezione - scrive - rende palese nel modo più chiaro l'essenza dell'autorità statale".

La Costituzione repubblicana non ammette e non vieta che il presidente della Repubblica riconosca lo "stato d'eccezione" e si regoli di conseguenza ancor prima di aver ottenuto la legittimazione delle forze politiche, in costanza di un sistema democratico parlamentare, al suo operato. È quanto ha fatto Napolitano, operando scelte che hanno portato alla costituzione di governo autenticamente politico, a prescindere dalla sanzione partitica che ha avuto con la fiducia delle Camere. Il disordine economico-finanziario che ha condotto l'Italia sul baratro della dissoluzione sociale e statuale esigeva una decisione. E tale è stato il conferimento dell'incarico ad un signore che non è stato eletto, ma giudicato evidentemente idoneo a fronteggiare la crisi. Al decisionismo è connessa la dicotomia schmittiana amico-nemico che designa il primato della politica a fronte di altri domini. Il nemico, come una certa vulgata ha erroneamente tentato di accreditare, non è l'inimicus (quello privato per intenderci), ma l'hostis (il nemico pubblico per eccellenza) contro il quale è obbligatorio dispiegare la massima potestà a difesa della comunità sotto attacco.

Nel nostro caso la guerra per fortuna non c'entra, tuttavia è suggestivo aver rappresentato lo spread e gli speculatori come i nuovi soggetti bellici ai quali è obbligatorio contrapporsi con tutti i metodi al fine di difendere gli interessi minacciati e la democrazia posta sotto tutela proprio dai mercati, quelli che secondo George Soros, a differenza dei cittadini, "votano tutti i giorni" e non si attardano attorno ai bizantinismi per sferrare attacchi micidiali. Schmitt non si è fermato sulla soglia del Quirinale. Egli lo penetrato spiritualmente e chi lo ha accolto certamente non se n'è reso conto, ma si sa le idee si posano dove vogliono e quando vogliono. E quindi perfino la nozione incarnata di Custode della Costituzione, riferita al presidente della Repubblica, ha una sua giustificazione alla luce della teoria del giurista che così suggestivamente titolò un celeberrimo saggio nel 1929.

L'esordio merita di essere citato poiché il clima che evoca è prossimo alle vicende che viviamo. "La richiesta di un custode e difensore della Costituzione è per lo più indizio di condizioni costituzionali critiche". Infatti, argomenta Schmitt, i progetti intorno ad una simile figura furono elaborati per la prima volta dopo la morte di Cromwell, vale a dire "in un'epoca di disgregazione in politica interna del governo repubblicano, al cospetto di un Parlamento incapace di effettive decisioni ed immediatamente prima della restaurazione della monarchia".

Al caos istituzionale e civile si rispose con il "difensore della libertà" o della Costituzione. "Si era allora, nel sentimento della sicurezza politica e del benessere, tacciata come 'politica', e con ciò liquidata, la semplice richiesta di un custode della Costituzione". Le assonanze con il nostro tempo non sono difficili da cogliere. Se anche noi abbiamo bisogno di un Custode della Costituzione, che non agisca soltanto nell'immaginario collettivo soltanto quando le crisi di legalità e di legittimità si fanno più acute, è necessario che una tale figura, incarnata nel capo dello Stato, cioè nel "decisore" (per le ragioni esposte sopra), non sia il frutto dell'improvvisazione di un momento eccezionale, ma costituisca il riferimento permanente di una comunità che voglia sostenersi nelle frequenti convulsioni generate da "inimicizie" esterne, economico-finanziarie, e non solo, tali da provocare il collasso sociale e l'usurpazione dei diritti democratici da parte di poteri che abitualmente agiscono nell'ombra. Ragion per cui, costituzionalizzare ciò che ha fatto Napolitano nelle ultime settimane, dando vita - e lo scrivo con rispetto istituzionale e culturale - ad una sorta di presidenzialismo non esplicitato, come pure ha osservato il direttore Mario Sechi, ritengo sia indispensabile.

Ecco che Schmitt ritorna. Con l'idealtypus del decisore, ripreso negli anni Ottanta da Gianfranco Miglio, maestro di generazioni di studiosi di scienza della politica ed in particolare del neo-ministro della Cultura Lorenzo Ornaghi, che scriveva: "Se in un regime elettivo-rappresentativo, si vuole (e non si può non volerlo) un supremo potere decisionale (cioè un Governo) sottratto alle pressioni ed ai ricatti degli interessi frazionali organizzati, la via obbligatoria è costituita dall'elezione diretta del suo titolare da parte del popolo". Il cerchio si chiude. La politica torna sovrana. E Schmitt e Miglio possono sorridere assistendo alla vittoria del realismo sulle querelles populiste.

(di Gennaro Malgieri)

Lo stato d'eccezione c'è. Ma chi è il sovrano? La teoria di Carl Schmitt e il «garbuglio» italiano


Nato nel 1888 e morto nel 1985, verso la fine degli anni Venti si affermò come uno dei massimi studiosi della politica e del diritto. Più tardi commise l'errore di porre il suo sapere e la sua autorità al servizio del nazismo, ragion per cui, caduto quel regime, fu arrestato dagli alleati, internato in un campo e indiziato per crimini di guerra nel processo di Norimberga, dove si difese sostenendo che i suoi scritti erano soltanto analisi teoriche.

Una volta rilasciato, si ritirò a vita privata, e quando morì la sua figura era scomparsa quasi del tutto dal dibattito politico e culturale europeo. Da un pezzo però alla sua opera è stato restituito il rango che le spetta e ormai viene considerata quasi universalmente, persino da molti studiosi di sinistra, l'espressione per molti aspetti abbagliante di un pensatore geniale.

Lo "stato di eccezione" è uno dei concetti chiave del suo pensiero politico. Strettamente collegato al concetto di "sovranità", per l'appunto, con lo "stato di eccezione", esso designa una situazione in cui, essendosi lo stato democratico rivelato incapace di sovranità e decisione politica, il diritto viene sospeso. Essenziale in questa teoria è perciò il valore attributo alla capacità di "decisione" e la conseguente attribuzione, durante lo "stato di eccezione" (guerre, rivoluzioni, caos sociale e crisi simili), di poteri eccezionali al Capo dello Stato. Questa forma di dittatura – sempre secondo Schmitt – rivela la vera essenza del diritto, alla base del quale ci sarebbe una decisione d'imperio posta da chi, a un certo punto, si trova effettivamente in condizione di imporla. È questa decisione originaria, incondizionata e arbitraria perché fondata sostanzialmente sulla forza, a raccordare la società col diritto. Passato lo stato d'eccezione, l'energia fondatrice si istituzionalizza formalmente, il sovrano si eclissa e dallo "stato di eccezione" si passa di nuovo all'ordine, fino alla crisi successiva.

Bene: chi sono le figure e le forze che in questi giorni da noi si sono rivelate capaci di imporre quella decisione d'imperio che ha generato la presente sospensione del diritto e il varo di un governo tecnocratico? Il Presidente Napolitano? Il professor Mario Monti? Il tandem Merkozy? Gli ottimati del sistema bancario e finanziario europeo e mondiale? Il circo politico-mediatico-giudiziario che per anni in sostanza non ha fatto altro che invocare lo "stato di eccezione"? Peccato non poterlo chiedere al professor Schmitt. Del quale non ho nessun titolo né per sostenere né per negare che sia davvero un pensatore epocale. So però che in ogni frase, riga o parola della limpida, asciutta, vigorosissima prosa con cui egli trattò i molti importanti e complessi argomenti che affrontò nelle sue dottissime opere (temi storici, giuridici, costituzionali, statuali, teologici, politici, teologico-politici e anche letterari) si avverte l'implacabile ronzio di una grande mente, insieme profonda, lucida e rigorosa. Ragion per cui mi affretto a consigliare la lettura di due suoi capolavori editi entrambi dalla Adelphi: «Il nomos della terra», splendida sintesi del suo pensiero, e l'incantevole «Terra e mare», in cui illustrò quel pensiero in una forma non meno semplice che rigorosa.

(di Ruggero Guarini)

giovedì 17 novembre 2011

La dittatura giacobina dei poteri “forti”. Ci sarà una nuova “Vandea”?


Le vicende italiane ed estere dell’anno che si conclude rendono sempre più evidente la presenza di “poteri forti”, come oggi si usa dire, che operano dietro le quinte della scena internazionale. Un tempo questi poteri venivano chiamati “forze occulte”. Oggi essi non hanno bisogno di nascondersi: mostrano il loro volto, e dialogano e interferiscono con le istituzioni politiche.

Uno dei principali centri di potere è la Banca Centrale Europea (BCE), con sede a Francoforte, un organismo di carattere privato, con propria personalità giuridica, incaricato dell’attuazione della politica monetaria per i diciassette paesi dell’Unione europea che aderiscono all’ “area dell’euro”. La BCE, ideata dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e istituita il 1º giugno 1998, ha assunto, di fatto, la guida della politica non solo monetaria, ma economica e sociale europea, espropriando progressivamente gli Stati nazionali della loro sovranità in questo campo.

In una lettera inviata al presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi il 5 agosto 2011, Mario Draghi e Jean Louis Trichet, a nome del Consiglio direttivo della BCE, hanno dettato una precisa agenda al governo italiano. Essi non si sono limitati a suggerimenti e raccomandazioni di carattere generale, ma hanno fissato, punto per punto, la politica economica e sociale del nostro Paese, indicando come “misure essenziali”: 1) privatizzazioni su larga scala; 2) la riforma del sistema di contrattazione salariale; 3) la revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti; 4) la modifica del sistema pensionistico; 5) il taglio dei costi del pubblico impiego, fino alla riduzione degli stipendi dei dipendenti statali. Hanno infine chiesto che tali regole fossero prese per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare, auspicando una riforma costituzionale che le rendesse più cogenti.

Si può pensare ciò che si vuole di queste misure economiche e sociali. E’ certo però che per la prima volta un gruppo di eurocrati, indipendenti dal potere politico, interviene in maniera così diretta e imperativa nella vita pubblica del nostro Paese. Che cosa accade se un governo nazionale resiste all’imposizione di questi dettami? Lo abbiamo visto proprio in Italia. La BCE è oggi l’unica istituzione europea che può esercitare una prerogativa tipica dello Stato sovrano, quale è l’emissione di moneta. La forza di una moneta dovrebbe corrispondere alla ricchezza di uno Stato. In realtà la Banca Centrale, non essendo uno Stato, emette moneta e stampa banconote senza produrre ricchezza. Essa però impone agli Stati nazionali, a cui è interdetto battere moneta, le regole per produrre la propria ricchezza. Se gli Stati in difficoltà si allineano, la Banca Centrale li aiuta comprando i loro titoli di Stato e diminuendone in questo modo l’indebitamento. Se essi non obbediscono alle indicazioni ricevute, la BCE cessa di sostenerli finanziariamente riducendo l’acquisto degli stessi titoli di Stato. Ciò comporta un aumento del cosiddetto “spread”, che è la differenza tra il rendimento dei titoli di Stato tedeschi (Bund), considerati i più affidabili, e quelli italiani (BTp), percepiti come “a rischio” dagli investitori. Se lo spread aumenta, lo Stato italiano è costretto a garantire ai propri titoli rendite più alte, aumentando così il suo deficit, a tutto vantaggio della speculazione dei potentati finanziari. E’ difficile che in una situazione di questo genere un governo regga. Né la Spagna, né la Grecia, né l’Italia hanno resistito a questa formidabile pressione. La BCE, in una parola, “pilota”, e qualche volta provoca, le crisi politiche degli Stati nazionali.

Naturalmente la BCE non agisce isolata, ma di concerto con altri attori: il Fondo Monetario Internazionale, le agenzie di rating, che valutano la solidità finanziaria di stati e governi nazionali, l’Eurogruppo, che riunisce i ministri dell’Economia e delle finanze degli Stati membri che hanno adottato l’Euro. Queste iniziative sono concordate in luoghi discreti, ma ormai a tutti noti, come gli incontri periodici del Council on Foreign Relations (CFR), della Commissione Trilaterale, del Gruppo Bilderberg. Sarebbe riduttivo immaginare che dietro queste manovre siano Stati nazionali come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Germania o la Francia. L’obiettivo non dichiarato della BCE è proprio la liquidazione degli Stati nazionali.

L’Unione europea, presentata come una necessità economica, è stata infatti una precisa scelta ideologica. Essa non prevede la nascita di un forte Stato europeo, ma piuttosto di un non-Stato policentrico e caotico, caratterizzato dalla moltiplicazione di centri di decisione con compiti complessi e contrastanti. Ci troviamo di fronte a trasferimenti di potere che avvengono non verso una sola istituzione ma verso una pluralità d’istituzioni internazionali, le cui competenze rimangono volontariamente oscure. Ciò che caratterizza questa situazione è la grande confusione di poteri e la loro conflittualità latente o manifesta: in una parola un’assenza di sovranità tale da esigere il costituirsi di una suprema Autorità mondiale. L’ex presidente della BCE Trichet in un discorso tenuto a New York il 26 aprile 2010, presso il CFR ha esplicitamente evocato la necessità e l’urgenza di un super governo mondiale, che fissi regole economiche e finanziarie per affrontare lugubri scenari di depressione economica.

Questa visione viene da lontano e vuole imporre all’umanità una “Repubblica universale” direttamente antitetica alla Civiltà cristiana nella quale si amalgamerebbero tutti i Paesi della terra, attuando cosi il sogno ugualitario di fondere tutte le razze, tutti i popoli e tutti gli Stati. Il romanzo profetico di Robert Hugh Benson Il Padrone del mondo (Fede e Cultura, Verona 2011, con prefazione di S.E. Mons. Luigi Negri) mostra come questa utopia tecnocratica possa sposarsi con l’utopia religiosa del sincretismo. In nome di questo superecumenismo tutto viene accettato fuorché la Chiesa cattolica di cui si programma l’eliminazione, dopo quella degli Stati nazionali.

L’eliminazione della sovranità nazionale comporta, come logica conseguenza, quella della rappresentanza politica. L’ultima parola è ai tecnocrati, che non rispondono alle istituzioni rappresentative, Parlamento e governi, ma a club, logge, gruppi di potere i cui interessi sono spesso in antitesi con quelli nazionali.

I tecnocrati aspirano a guidare governi di emergenza, con leggi di emergenza, che spianano la strada alla dittatura giacobina, come accadde nella Rivoluzione francese. Al giacobinismo si contrapposero però allora, in Francia e in Europa, con successi e insuccessi, le insorgenze contro-rivoluzionarie. Ci sarà oggi una nuova Vandea nel Vecchio continente devastato dagli eurocrati?

(di Roberto de Mattei)

Ecco perché l’Europa è nella rete di Goldman Sachs


La Goldman Sachs? Una banca d’affari che in Europa ha «tessuto una rete d’influenza unica sedimentata nel corso dei lustri grazie a una fitta trama sia pubblica, sia sotterranea». A dirlo non sono i soliti quattro gatti appassionati di trame e complotti internazionali, ma quelli di Le Monde.

La bibbia dei “gauche caviar” d’Oltralpe parte da Mario Monti e Mario Draghi per accusare la banca d’affari statunitense di gestire un occulto direttorio europeo capace di manovrare, in base ai propri interessi, gli uomini chiamati prima a generare e poi governare la crisi dell’euro.

La caccia di Le Monde ai Goldman’s Boy parte proprio da Mario Monti. Come ricorda il quotidiano francese il nostro premier in pectore ha collezionato non solo l’incarico di consigliere internazionale della Goldman Sachs, conferitogli nel 2005, ma anche le cariche, non proprio ininfluenti, di presidente della Commissione Trilaterale e di socio del Bilderberg Group.
Ma l’appartenenza alla Trilaterale e al Bilderberg sembrano dei requisiti irrinunciabili per tutti i Messia delle disastrate nazioni europee.

Non a caso Peter Denis Sutherland presidente non esecutivo della Goldman Sachs International, membro del Bilderberg Group e presidente onorario della Trilaterale, è stato chiamato a dirigere le operazioni per il salvataggio dell’economia irlandese. Peccato che la Commissione Trilaterale, ideata nel 1973 da David Rockfeller, venga spesso accusata di non essere non soltanto un “think tank” dedito al coordinamento delle politiche di Asia, Europa e Stati Uniti, ma un centro di potere occulto creato - scriveva il senatore repubblicano Barry Goldwater - per sviluppare «un potere economico mondiale superiore ai governi politici delle nazioni coinvolte».

Ben peggiori sono però, ricorda Le Monde, i sospetti che circondano Mario Draghi l’attuale governatore della Bce, titolare tra il 2002 e il 2005 della carica di vice presidente della Goldman Sachs International. In quel fatale 2005 la Goldman Sachs rifila alla Grecia gli strumenti finanziari indispensabili per nascondere i debiti e metter piede nell’euro. A render possibile il raggiro targato Goldman Sachs contribuisce non poco Lucas Papadémos, il premier greco, membro come Mario Monti della Commissione Triennale, chiamato oggi - al pari del “Supermario” nostrano - a salvare la patria in pericolo.

Una patria accompagnata da lui stesso sull’orlo del precipizio quando, da governatore della Banca Centrale di Atene, affida a Petros Christodoulos, un ex gestore di titoli della Goldman, lo scellerato maquillage dei conti ellenici.
Tra i Goldman’s Boys nostrani Le Monde dimentica Romano Prodi. A puntare il dito sull’ex premier dell’Ulivo ci pensa già nel 2007 il Daily Telegraph accusandolo di esser stato sul libro paga della Goldman una prima volta tra il 1990 e il 1993 e poi di nuovo dopo il 1997.

Ma alla luce dello scenario disegnato da Le Monde è assai interessante anche il “cursus honorum” di Massimo Tononi, il 47enne manager bocconiano nominato nel 2006 sottosegretario all’Economia del governo Prodi dopo una fulgida carriera in Goldman Sachs. Tornato alla Goldman dopo quell’esperienza, Tononi è oggi il presidente di Borsa Italiana, la società di proprietà del London Stock Exchange che controlla Piazza Affari. Una carica assunta lo scorso giugno, poche settimane prima del fatidico decollo dello spread. Uno di quei casi che solo Dio sa spiegare. Non a caso Lloyd Craig Blankfein, presidente dal 2006 della Goldman Sachs e grande finanziatore delle campagne elettorali di Obama, spiega così il suo mestiere di banchiere. «Io faccio il lavoro di Dio».

(di Gian Micalessin)

San Paolo contro le ideologie


Riguardo al tema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e famigliare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”; rifiuto che è doveroso.

La questione è seria, rilevante e di bruciante attualità. Per fortuna, la parola di Dio ci aiuta ad approfondirla correttamente, offrendoci un magistero vincolante per ogni credente, che per altro non dovrebbe essere disatteso da nessun ricercatore senza pregiudizi. C’è a questo proposito una pagina della Lettera ai Romani, davvero ammirevole per la chiarezza e il rigore teologico (Rm 1,18-32).

L’insegnamento rivelato

San Paolo comincia enunciando un principio generale: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia” (v. 18).
Ma passa ben presto a esaminare il caso specifico dell’omosessualità. Qui i prevaricatori, egli afferma, sono particolarmente condannabili perché “avendo conosciuto Dio non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti” (Rm 1,21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi” (Rm 1,24).

Un’analisi impressionante

A prevenire ogni malinteso e ogni lettura accomodante l’Apostolo prosegue in un’analisi che impressiona, formulata con termini insolitamente espliciti: “Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne” (Rm 1,26-28).
Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando “gli autori di tali cose […] non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (Rm 1,32).
E’ una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.

Tre affermazioni

A ben guardare, troviamo in questa esposizione una triplice delucidazione.
In primo luogo, si condannano apertamente le pratiche erotiche in esame. Sono definiti “atti ignominiosi” (v. 27), “azioni indegne” (v. 28), frutto di “passioni infami” (v. 26).
In secondo luogo, contro la “cultura dell’omosessualità”, si osserva che l’aberrazione suprema si ha quando “gli autori di tali cose […] non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (v. 32).
In terzo luogo, abbiamo qui una inattesa formulazione di “teologia della storia”, che san Paolo ricava da ciò che è avvenuto nel mondo ellenistico: il dilagare della “ideologia dell’omosessualità” è al tempo stesso la prova e la conseguenza dell’esclusione di Dio dall’attenzione sociale e dalla assurda renitenza a dargli la gloria che gli spetta (v. 21).
Potremmo dire che, secondo questa prospettiva, la “ideologia della omosessualità” non è solo una colpa: è anche un castigo, il castigo inflitto a un’umanità che ha deciso di far senza il suo Creatore e di estrometterlo dai suoi pensieri. “Così hanno ricevuto in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento” (v. 27).

Una prospettiva oggi viva

Ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale di questi ultimi secoli: il ripudio teorizzato del Creatore – fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” – ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.

Un attentato alla libertà umana

L’ideologia dell’omosessualità – come spesso càpita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti – diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.

Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilìa” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobìa” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della “stupidità” nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.
Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, spalleggiati dai loro complici ideologici, col beneplacito di coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?

Un silenzio ingiustificato

Concludiamo con una domanda. Come mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino della Lettera ai Romani (1,21-32) non è mai citato da nessuno? Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?

(di Card. Giacomo Biffi)

martedì 15 novembre 2011

Occidente sempre pronto alle nuove avventure militari. Prossimo bersaglio l'Iran


Deus dementat quos vult perdere (Il Dio fa impazzire coloro che vuole perdere), dicevano i latini. L’Occidente, quasi non fosse pago della drammatica crisi in cui è precipitato e che può spazzar via il sistema economico e finanziario su cui si basa, sta preparando nuove avventure militari. Agli inizi di novembre Nalum Barnea, giornalista israeliano solitamente ben informato, ha pubblicato sulla prima pagina del suo giornale i piani dettagliati degli attacchi, anche nucleari, che americani, israeliani e inglesi si appresterebbero a sferrare contro l’Iran. In questo quadro il governo britannico avrebbe garantito a Obama (premio Nobel per la pace) sottomarini, missili Tomahawak e, all’occorenza, l’impiego di forze speciali sul terreno. In quegli stessi giorni nella base Nato di Decimomannu in Sardegna sei squadroni di bombardieri israeliani simulavano un attacco a Teheran. Queste notizie sono state poi confermate dal Guardian, ma soprattutto, sia pur in modo più generico, dal presidente israeliano, il premio Nobel per la pace Shimon Peres: "L’attacco all’Iran è sempre più vicino".

Che esistessero questi piani è noto già da tempo, la novità è la partecipazione degli inglesi. Si vuol ripetere con l’Iran ciò che si è fatto con la Libia? Se questo fosse il progetto sarebbe folle, "demenziale" per dirla con i latini. L’Iran non è la Libia, è un grande Paese con cento milioni di abitanti, armato modernamente. Si conta, come in Libia, sul dissenso interno che indubbiamente esiste anche se non belle proporzioni sbandierate in Occidente? Allora vuol dire che non si conosce quel popolo.

Gli iraniani si sentono innanzitutto dei persiani e, in questo senso, hanno un sentimento nazionale fortissimo (mi ricordo che quando ero a Teheran un pasdaran che aveva combattuto lo Scià mi disse: "Non riesco a odiarlo del tutto, perché era comunque un persiano"). Un attacco militare all’Iran compatterebbe intorno al regime anche il più acerrimo avversario di Ahmadinejad. Inoltre farebbe saltare il tappo del radicalismo islamico, finora tenuto a stento dai rispettivi regimi, in tutti i Paesi musulmani formalmente alleati dell’Occidente, dall’Egitto al Marocco alla Giordania.

Il pretesto per l’attacco sarebbe dato dall’ultimo rapporto dell’Aiea, l’agenzia dell’Onu per il controllo nucleare. In realtà questo rapporto non contiene nulla di nuovo salvo il fatto che l’Iran ha una quantità di uranio arricchitto sufficiente per costruirsi l’Atomica. Ma ciò non vuol dire affatto che abbia questa intenzione e non piuttosto quella di spalmare l’uranio su più centrifughe rimanendo in quel 20% di arricchimento necessario e sufficiente per gli usi civili del nucleare (per fare la Bomba bisogna arrivare al 90% di arricchimento). E tutte le ispezioni dell’Aiea hanno finora accertato che nei loro siti nucleari gli iraniani non hanno mai superato il limite del 20%.

È una situazione paradossale. L’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, ha accettato gli ispettori dell’Aiea per cui se dovesse uscire dai binari consentiti costoro potrebbero facilmente verificarlo. Israele non ha firmato il Trattato, possiede l’Atomica e pretende di attaccare un altro Paese che non ce l’ha sulla base che ipoteticamente potrebbe farsela. Un processo alle intenzioni piuttosto protervo che ricorda i metodi usati nel 2003 contro l’Iraq di Saddam accusato di possedere "armi chimiche" che non aveva.

(di Massimo Fini)

sabato 12 novembre 2011

Monti ci salva dalla crisi. Ma chi salverà la democrazia?

La sovranità appartiene ai mercati, che la esercitano nelle forme e nei limiti delle istituzioni europee. Più o meno è così che oggi funziona l’articolo 1 della nostra costituzione, quella reale.

In questa crisi economica sempre più soffocante, il trambusto di quest’ennesima crisi politica dell’Italia sembra un banale raffreddore di stagione, proprio come la crisi della nostra democrazia. Un ciclo ventennale di politica sessista e autocrazia personale sta volgendo al suo misero epilogo. Ma invece di ripristinare le normali procedure democratiche, non vediamo l’ora di finire sotto ad un governo di tecnocrati e banchieri senza uno straccio di legittimazione popolare, ma benedetti dall’alta finanza e dai burocrati europeisti. Per vent’anni abbiamo accusato Berlusconi di usurpazione della democrazia. Oggi pensiamo di liquidare Berlusconi installando un governo di burocrati. Ma la tecnocrazia finanziaria non aiuta la democrazia.

Mario Monti può diventare il salvatore della patria, con il suo aplomb mediatico, la sua mostruosa competenza e una carriera professionale immacolata. In confronto a Berlusconi è un santo. Però Monti è un uomo di apparato, spigliato nel parlare a testa alta con banche e imprese, ma praticamente muto sui grandi valori della politica. Con Mario Monti al governo e Mario Draghi alla Bce ci siamo commissariati da soli. Dai politici peones siamo passati agli eurocrati senza voti: ma perchè in Italia democrazia e competenza restano divise?

Ancora una volta, ci ritroviamo un ultra-sessantenne al governo, con una maggioranza che non si sa e un programma che non si sa. Ma con un obiettivo vitale: portare fuori l’Italia dal rischio default, abbassare lo spread, calmare i mercati. Oggi gli elettori e i loro voti sono sostituiti dai mercati e dai loro indici. Per sapere se un politico o una legge sono efficaci, una volta si contavano i voti e si ascoltavano le opinioni. Oggi si guardano gli indici di borsa: se sale, promosso; se scende, bocciato.

E’ bastato che Monti aprisse bocca per dire che lo aspetta un grande lavoro, e i mercati hanno applaudito con euforia. In pratica hanno votato la loro fiducia a Monti ancora prima che sia nominato dal capo dello stato e abbia sbrigato quella superflua pratica chiamata voto di fiducia. Va a finire che Berlusconi passerà per un leader democratico che rispettava il parlamento.

Stiamo allegramente correndo incontro ad un governo para-democratico che nasce col compito di massacrare quel che resta del sistema previdenziale, dei servizi pubblici, della scuola, dei diritti del lavoro. Tutto senza dibattiti o referendum. Tutto in nome dell’euro e dell’Europa. Anche in nome del popolo italiano, cioè di coloro che pagheranno il debito prodotto dalla casta?

Avremo un bilancio in perfetta forma e Merkel e Sarkozy non derideranno più l’Italia. Non faremo più assurde gaffes diplomatiche e non vedremo, si spera, fanciulle esperte di massaggi promosse ad onorevoli e onorevoli che non distinguono tra parlamento e postribolo. Almeno la moralizzazione non costa niente. Avremo dunque una tecnocrazia morale, per la pulizia dei conti e della politica. Speriamo non pulisca via anche la democrazia.

(di Gabriele Cazzulini)

venerdì 11 novembre 2011

Quando la democrazia si arrende alle Borse


La politica esce a mani alzate dal Parlamento e si consegna alla Signoria del Mercato. La democrazia si è arresa alla borsa. Il Popolo Sovrano, tramite i suoi rappresentanti, abdica e lascia il regno nelle mani dei tecnici eurocrati.

E la cosa più triste è che la sottomissione dell’Italia,della sua sovranità nazionale, popolare e democratica allo spread ci sembra logica, naturale, inevitabile, indiscutibile.

È inutile menarsela, la democrazia si è arresa e la politica finisce con lei. In giro non lo dicono, anzi ieri il pittoresco Galli della Loggia è arrivato a sostenere che ha vinto la politica. Ma come, professor Ernesto, la politica alza bandiera bianca, si arrende a una soluzione tecnica, si ritira sui Monti, e sarebbe la rivincita della politica? Dite piuttosto che la politica tutta ha fallito, dite che si è mostrata inadeguata e ha tradito gli elettori. Dite questo semmai, ma per favore non raccontateci che la resa della politica all’economia sia una vittoria della stessa politica.

Qui non perde solo Berlusconi e non cade solo un governo, decade il valore della democrazia e il verdetto delle urne. Pensate che Parlamento uscì dal voto, con che maggioranza, e pensate cos’è oggi. Una sconfitta della politica, per tutti. Ma non solo: la politica si è mostrata incapace di gestire pure il vuoto che ha propiziato, non ha proposto programmi alternativi e spaventata dal tracollo dell’economia, ha invocato il Tennico. Una democrazia commissariata, anche se i nuovi Generali non vengono dalla Scuola di guerra ma dalla Bocconi.

(di Marcello Veneziani)

lunedì 7 novembre 2011

Alla scoperta di Céline: storia di Bagatelle per un massacro


Louis-Ferdinad Céline (1894-1961), lo scrittore maledetto, il medico-scrittore che si è portato addosso per tutta la vita il marchio dell’antisemitismo più rabbioso. E di tutti i libri di Céline quello che più ha contribuito a creare la sua leggenda nera: Bagatelle per un massacro (1937), uno dei testi con la storia editorale più tormentata del Novecento.

Ovvero un libro che si legge poco e di cui si parla molto, riducendolo unicamente a icona dell’odio razziale. Ecco il cortocircuito intellettuale che cerca di interrompere il saggio di Riccardo De Benedetti Céline e il caso delle “Bagatelle” (Medusa, pagg. 162, euro 14).

De Benedetti, abituato ad occuparsi di autori scomodi e della loro influenza culturale (basti pensare al suo La chiesa di Sade del 2008), in questo caso ricostruisce nel dettaglio le vicende editoriali del volume ponendo grande attenzione all’edizione italiana Guanda del 1981 che venne rapidissimamente ritirata. Ed ecco che subito si sfata una leggenda da salotto. La censura ebbe ben poco a che fare con la scomparsa del pamphlet dagli scaffali. L’abbozzo di dibattito sull’antisemitismo, e qualche sdegno contro l’autore contò molto meno della questione dei diritti.

La vedova di Céline, Lucette Destouches, si oppose allora come si oppone adesso alla ristampa dell’opera. La signora sostiene sia la volontà del defunto marito, che in effetti subito dopo la guerra decise di tenere questo virulento libello (che con L’École des cadavres e Les Beaux Draps forma una sorta di trilogia) ben lontano dai torchi. Ecco perché gli editori, consci che il libello proprio per il suo profumo sulfureo è alla fine assai appetibile, sono appostati in attesa che scadano i diritti. Quanto al dibattito che si scatenò in Italia nel 1981, De Benedetti segnala tra i tanti che si spesero nell’eterno minuetto del «sì è letteratura», «no è spazzatura ideologica» (Moravia la pensava così) un articolo di Bernard-Henry Lévy che venne pubblicato sull’Espresso.

Ecco cosa scriveva il filosofo d’oltralpe: «È “sociale” come nessuno, questo filantropo confesso che ora propone... la “nazionalizzazione” del credito, delle assicurazioni, dell’industria. Sì, bisogna forse lasciargli un posto al dolce sole del progressismo. Perché Céline il mascalzone, Céline il razzista, Céline il collaborazionista rivendica, piaccia o non piaccia, la sua parte nella fondazione del socialismo alla “Francese”». Insomma, un bel ribaltamento che nessuno ha approfondito.

Ma questo è solo uno degli esempi dei tanti modi di guardare a Céline che la damnatio memoriae e le beghe editoriali hanno fatto finire in un cantuccio, fuori dai riflettori dell’odio. Tra i tanti che De Benedetti enumera, basti ricordare tutti i sospetti del fascismo verso Bagattelle per un massacro (allora il titolo veniva scritto così) nella prima edizione italiana fatta da Corbaccio nel 1938. Non piaceva che il suo razzismo fosse così poco scientifico.

(di Matteo Sacchi)

domenica 6 novembre 2011

Onore al combattente Giuseppe Meridda


Il sassarese (ma ozierese di nascita) Giuseppe Meridda era sottotenente nell'11° Reggimento Bersaglieri quando nel 1938 in Spagna perse la vita in combattimento durante la guerra civile. Una condotta giudicata eroica, che fu riconosciuta dall'esercito italiano, che gli assegnò due medaglie di bronzo ed una medaglia d'oro al valor militare, ma anche dalla Spagna, che gli riconobbe la Gran Croce al merito di guerra. Il prossimo 16 novembre l'Associazione Nazionale Bersaglieri - sezione sassarese "Gigi Murtula" ha organizzato un giornata di commemorazione in onore di Meridda. Il programma prevede alle 18,30 nella Chiesa del Santissimo Sacramento (Padre Manzella) in via Matteotti la Santa Messa officiata da monsignor Giancarlo Zichi. Subito dopo si andrà in corteo verso piazza Marconi. Qui nell'androne dell'Istituto Tecnico Commerciale Dessì - La Marmora sarà deposta una corona sotto la lapide che ricorda il suo passato di allievo della scuola e si ricorderà la sua figura con interventi di studiosi e degli stessi studenti, che hanno anche preparato una mostra di foto e documenti. In città il militare ozierese morto nel 1938, tra l'altro, è uno dei nomi più conosciuti da quelle generazioni di studenti che in alcuni giorni dell'anno scolastico alle lezioni hanno preferito il gioco nella palestra a lui intitolata.

venerdì 4 novembre 2011

Evola spinse la destra a "cavalcare la tigre"


Non so cosa avrà capito il ladro che mi rubò la Mini Minor e si trovò sul sedile una copia, tutta sottolineata e chiosata, di Cavalcare la tigre di Julius Evola. La sua perdita mi fece soffrire quasi più dell’auto rubata. Avevo vent’anni e consideravo quel libro una specie di manuale pratico di filosofia di vita, un codice d’onore in epoca disonorata, un galateo indispensabile per un Vero Signore, ma non nel senso alto borghese in cui ne scrisse Giovanni Ansaldo o, peggio, delle buone maniere prescritte dalle donne Letizia dei rotocalchi. Il Signore evoliano era «l’uomo differenziato», fiero di distinguersi dalla massa. La sua era un’opera da asceta in campo, come uno Zarathustra disceso dai monti in piena epoca nichilista.

Cavalcare la tigre è un manuale di sopravvivenza metapolitica per chi dissente dal proprio tempo e dal mondo in cui vive; ma, non potendolo modificare, preferisce ritirarsi in attiva solitudine e padroneggiarlo, cavalcarlo per non essere travolto. «Cavalcare la tigre» è un motto cinese, rispolverato anche da Mao, e suggerisce non di affrontare la tigre o tentare la fuga, ma di saltarle in groppa e correre su di lei. È un breviario aristocratico di nichilismo attivo per chi ha scelto non la politica, ma l’apolitìa, come la chiama Evola, o la scelta «impolitica» come invece l’aveva definita Thomas Mann.

Cavalcare la tigre compie ora cinquant’anni e la Fondazione Evola diretta da Gianfranco de Turris ha deciso di ricordare quell’opera che ebbe un effetto bomba sulla destra giovanile, soprattutto quella radicale. E ha organizzato all’Accademia di Romania in Roma un incontro per discutere di quel libro di culto che pervase almeno tre generazioni di non conformisti. Dal ’61 ad oggi continua a essere ristampato continuamente; l’edizione più recente ha l’introduzione di Stefano Zecchi e la postfazione di de Turris, che è il curatore dell’opera omnia evoliana.

Cavalcare la tigre è l’opera di un pensatore legato alla Tradizione il quale, vivendo nell’irreversibile Età Oscura (kaly yuga), in preda a decadenza, desolazione e rovine, favorisce la corsa verso la dissoluzione perché solo raggiungendo il punto zero si potrà poi risalire e invertire la rotta. Una posizione che rischia la complicità con i dèmoni della decomposizione. L’anomìa, il caos, la trasgressione, l’anarchia diventano per l’evoliano occasioni per temprarsi.

Cavalcare la tigre fu il ’68 della destra colta e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione. Un Sessantotto ante litteram, uscito ben prima dell’Uomo a una dimensione di Marcuse o della sua Teoria della liberazione e delle altre opere che furono breviari del ’68. Come il suo coetaneo Marcuse (nacquero ambedue nel 1898 e morirono negli anni Settanta) aveva fatto precedere i suoi testi sulla contestazione globale da un saggio sulla liberazione sessuale, Eros e civiltà, così Evola fece precedere la sua tigre dionisiaca da un testo dedicato alla Metafisica del sesso, in cui la trasgressione sessuale poggiava sulla pratica orientale del Tantra.

Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. Ma non perché istigasse alla violenza e al terrorismo, come pensarono alcuni questurini dell’ideologia, ma perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. O, per altri versanti, fu una password verso l’uso della modernità e dei suoi mezzi, quel «modernismo reazionario» di cui scrisse J. Herf.

Chi cercò invece di restare nell’ambito della milizia politica, vide Cavalcare la tigre come un fiume di confine per tentare una sintesi tra il radicalismo rivoluzionario di destra e quello di sinistra, o anarco-comunista. L’ibridazione assunse vari aspetti, tra cui quello nazi-maoista, e affiorò nella fase iniziale del ’68, per poi lentamente dissiparsi nel livore partigiano degli anni Settanta. Alla fine prevalse l’individualismo, il rifiuto della politica, magari il culto dell’esteta armato, ma nella disperazione eroica e nel rifiuto stoico; genere Yukio Mishima, per intendersi. Quel libro divenne l’alibi per esperienze trasgressive, ma anche per comportamenti sdoppiati, quasi schizoidi o perfino per piccoli compromessi col presente. Fu un alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani.

In quel testo Evola tornava alla sua gioventù dadaista e all’Autarca, l’individuo assoluto della sua prima filosofia. Tornava a Nietzsche e al suo nichilismo attivo, incontrava Ernst Jünger, del quale tradusse - nello stesso periodo in cui scriveva Cavalcare la tigre - l’Operaio, e al poeta Gottfried Benn. Fra il Tantra e Dioniso. Poi, davanti al ’68, Evola tornò alla Tradizione, si spinse nel ruolo di teorico di una Destra metastorica e postfascista e si spense nel ’74, in piena epoca di stragi «nere» che gettarono su di lui un’ingiusta luce diabolica, da Grande Ispiratore. Poi la tigre disarcionò i suoi cavalcatori e continuò a correre verso il nulla.

(di Marcello Veneziani)

giovedì 3 novembre 2011

Lo show di Buttafuoco tra viagra e cellulari: mando in onda i miti della nostra modernità



Pietrangelo Buttafuoco è una di quelle persone, scrivessimo intellettuali forse non gli piacerebbe, che non ama cantare in coro. Una di quelle (poche) che è molto difficile rinchiudere nelle scatole, sempre così strette, dell’ideologia. Il suo modo di fare il giornalista, lo scrittore, e se del caso il conduttore di programmi televisivi, è caratterizzato dal pensare molto senza mai pensarsi troppo addosso. È più facile in fondo definirlo in negativo a partire da quello che Buttafuoco non è. Deve essersene accorto anche lui, magari in modo subliminale, a giudicare dal titolo che ha scelto per la trasmissione con cui da oggi andrà in onda - per 15 mercoledì alle 22 e 45 - su Rai5: Questa non è una pipa.

Nessun talk-show piuttosto uno spazio sospeso tra il teatro e la sociologia per ridefinire (anche con l’aiuto di Salvatore Sottile l’ex portavoce di Gianfranco Fini) quegli oggetti feticcio che caratterizzano la nostra società. Insomma quella che se fosse virata a sinistra verrebbe immediatamente chiamata televisione «alta».

Buttafuoco, perché una trasmissione che gioca con il titolo di un quadro di René Magritte?

«Il titolo l’ho scelto perché spiega tutto. Nel senso che ogni singolo oggetto ha decine di significati sui cui noi non ci fermiamo mai a pensare. La Coca-Cola non è una bibita è il racconto di un mondo, di un progetto politico e tecnico, di un’idea universale. Il Viagra non è solo il modo di mantenere un erezione è un cambiamento del costume della sessualità dei rapporti tra essere umani... Eppure sono cose a cui raramente pensiamo, eppure ci consentono di fare un accattivante dizionario della modernità».

Ma perché abbiamo così tanti totem?

«Per Carlo Marx il materialismo scientifico era una teoria, per noi è diventato realtà... il nostro orizzonte è tutto mondano e terreno, gli oggetti hanno assunto un ruolo fondamentale, hanno sostituito le divinità, ci raccontano meglio di qualsiasi altra cosa... Ecco noi raccontiamo quindici di questi feticci che raccontano lo spirito del tempo».

E come li raccontate?

«Con una trasmissione a costo bassissimo e assolutamente artigianale, novemila euro a puntata, lo stile è quasi teatrale... E soprattutto mi sono divertito a fare una cosa molto heideggeriana raccogliendo il chiacchiericcio della gente... niente talk show ma chiacchiericcio vero a cui poi abbiamo accostato delle voci importanti. Insomma c’è il popolare e non il populista. C’è una fatica di analisi antropologica, persino politico...».

Ecco a proposito di Talk Show... Ma in un momento in cui la Tv generalista è in crisi e c’è un grande spazio «vuoto», soprattutto in Rai, perché la sua trasmissione va su Rai5. Rete molto colta ma non certo ammiraglia...

«Uno spazio sulle televisioni generaliste un programma come questo non l’avrà mai, perché la televisione ha un’impostazione “de sinistra” fuori da quei canoni non accetta nulla... Non fanno entrare nessuno che non sia della solita congrega e non è un problema solo dalla Rai. Tutto ciò che è stravagante, alieno ai salotti romani non è accettabile. E spesso sono i moderati stessi che si appiattiscono di più su questo canone. Il berlusconismo non ha portato una vera rivoluzione in questo senso. C’è una schiavitù intellettuale... Io pago un pregiudizio di area chi mi da spazio come qui a Rai5 è sempre qualcuno di eccentrico, come Pasquale D’Alessandro e Massimo Ferrario».

E allora Santoro?

«Santoro è un furbo meraviglioso è un grande professionista, persino un grande attore, un capocomico... Alla destra ha fatto un favore lanciando molti dei suoi personaggi. Forse per avere dei bei programmi di destra allora dobbiamo aspettare di avere un governo di sinistra. Per ora è tutto così ministeriale vecchio... Ma se la ricorda la fiction su Giovanni Paolo II? L’hanno trasformato in un capo partigiano... I moderati soffrono di sudditanza intellettuale. Molto meglio parlare con Carlo Freccero».

E la trasmissione «In onda» di Telese e Porro su La7?

«Mi hanno chiesto dei monologhi il primo è andato in onda domenica, li faccio da CasaPound, ovviamente una cosa così sarebbe impossibile per la Rai...».

Perché da CasaPound?

«Perché è casa mia...».

(di Matteo Sacchi)

mercoledì 2 novembre 2011

Il pensiero delle destre? Il wiki-catalogo è questo


L'Uomo qualunque, Almirante e l'Msi, Pino Rauti e i Far, Achille Lauro, il Fuan, Il Borghese, Beppe Niccolai, Ordine Nuovo, piste false e bombe vere, il Manifesto dei conservatori, il Fronte, i Campi Hobbit, An e ritorni di fiamma, Fini e la fine, Liberal, Tocqueville. «Aiuto! La destra sta sparendo...».

Destra. Forse è stata cancellata dal berlusconismo come lamentano i conservatori, forse è solo un'illusione come predicano i progressisti... Scatola vuota nella quale ognuno può mettere quello che vuole, contenitore senza contenuti (oppure troppi), paradigma superato di un sistema ormai defunto, la destra in realtà non esiste. Semmai esistono le destre, anzi le «culture delle destre». Alle quali, sballottate tra Julius Evola e l'Istituto Bruno Leoni, manca un resistente collante culturale.

In Italia, comprese tra il nazi-leghismo etnico e l'iperliberismo anarco-rivoluzionario, si contano tante (troppe) destre: tradizionalista, cattolica, pagana, utopista, radicale, nazional-popolare, liberalconservatrice, fascista, neofascista, estrema, ordinovista, monarchica, populista, esoterica, neocomunitarista, antiutilitarista, sociale, missina, ecologista, «nuova», liberale, berlusconiana.

Funambolismi lessicali che nascondono diverse e spesso antitetiche visioni del mondo accomunate forse solo da una cultura anti-egualitaria. E, c'è da aggiungere, ricompattate per lungo tempo attorno a un unico nemico: l'ideologia comunista. Scomparsa la quale, seppure ancora evocata, anche l'ultimo fronte comune è crollato. Per il resto, è da tempo che si cerca di accordarsi su alcuni valori chiave capaci di dare sostanza politica e filosofica alla triade Dio-Patria-Famiglia (e con qualche distinguo Mercato), e cioè: difesa dell'Identità (qualsiasi essa sia), rispetto delle Radici (qualsiasi esse siano), salvaguardia delle Differenze, esaltazione delle Diversità, sostegno a una molteplicità di Uguaglianze e di Libertà. Già molto più complicato invece l'accordo sui rapporti tra Stato e Mercato, sulla tutela dei legami sociali, sul concetto di Nazione, sulla forma migliore di democrazia... Approvato all'unanimità dall'intero arco costituzionale delle «destre», invece, il fatto che dal dopoguerra a Tangentopoli (e anche oltre...) l'Italia è stata dominata da un'egemonia culturale della Sinistra. Il che, va da sé, non è moltissimo.

Ma ora per mettere ordine nella Grande Casa delle Destre, ecco che la «Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice» pubblica il volume digitale di Mario Bozzi Sentieri Bibliodestre. Una storia attraverso i libri (1945-2010), una bibliografia di oltre 200 pagine sulle destre italiane (www.fondazionespirito.it/bibliodestre-una_storia_attraverso_i_libri.pdf). Come scrive Bozzi Sentieri nella premessa «La lettura cronologica e tematica delle fonti, comprese quelle manifestatamente avverse, sollecita una visione complessiva di quelle esperienze, offrendo nel contempo l'immagine della dinamicità, delle contraddizioni, delle ambizioni espresse da quel mondo, anche nei momenti di maggiore emarginazione politica e di minorità culturale».

Ovviamente, come ammette lo stesso autore, la ricerca non pretende di essere esaustiva (e infatti l'invito è che gli internauti partecipino inviando tutte le integrazioni e rettifiche necessarie). E infatti anche solo scorrendo gli oltre duemila titoli censiti ci sembra manchino alcuni filoni della destra cattolica, la destra liberale è lacunosa (che fine ha fatto Bruno Leoni?), non c'è Panfilo Gentile, c'è poco degli irregolari di destra come i «vociani» o i toscani maledetti alla Montanelli, manca il fascista di sinistra Camillo Pellizzi, e anche il politologo Domenico Settembrini, non c'è traccia della triade poetica mitomodernista Conte-Zecchi-Kemeny...

In compenso è ricchissima la bibliografia sulla destra missina, viene dato il giusto spazio anche a un economista eretico come Giano Accame, c'è una ricca sezione sulle riviste - da Orion a Charta minuta, da La Voce della Fogna fino a FareVerde - ci sono persino gli scritti culturali di Marzio Tremaglia. E poi è interessante la bibliografia relativa ad alcuni settori come l'ecologia, la satira (per sfatare l'idea che a destra non si ride), addirittura il mondo skinheads e soprattutto la storia delle destre «locali», suddivise per regione.

Insomma, tutto ciò che serve - o quasi - a disegnare il grande albero delle Destre. Un albero con tanti rami quante sono le sue parole d'ordine (prima tradizione, nazione, società; poi attivismo, organizzazione, impegno; quindi populismo, leaderismo, ultraliberismo), radici così distese quanti sono i suoi valori (l'istinto «conservatore», il bisogno di comunità, l'individualismo e l'ansia di libertà) e un grande tronco. Che come insegna la parola «destro» è «diritto», cioè - retoricamente - «retto».

(di Luigi Mascheroni)

martedì 1 novembre 2011

Così Marcel Proust scoprì il passato in pieno futurismo


La più bella opera che io abbia letto di recente non è un'opera e non è recente, anche se è uscita da poco. È un mosaico di frammenti staccati da un edificio vecchio di un secolo. Il palazzo in questione, di sette piani, è Alla ricerca del tempo perduto. La raccolta di schegge ha assunto invece il nome di Breviario proustiano, curato da Patrizia Valduga e ispirato da Giovanni Raboni (Einaudi, pagg. 238, euro 18,50). È sorprendente come un'antologia di passi estrapolati dalla Recherche - scritta tra il 1909 e il 1922, pubblicata in 7 volumi tra il 1913 e il 1927 - viva egregiamente di vita propria. Non lessi da ragazzo la Ricerca, ma alla stessa età in cui Proust l'aveva concepita. Si vede che c'è un giro di boa della vita in cui il bisogno di leggerla coincide col bisogno di scriverla.

Le riflessioni proustiane erano perdute negli scaffali della Recherche, e la Valduga le restituisce, lucide e perfette, viventi di vita autonoma, fuori dall'edificio paterno da cui provengono. Breviario prezioso soprattutto per chi predilige l'aforisma e il pensar breve, è d'indole e formazione più filosofica che letteraria, e lascia cadere lo stucco per puntare al succo; ossia nella prosa cerca il saggio, nello stile ricerca il pensiero, e dietro il ninnolo l'idea.

Marcel Proust ha percorso contromano il '900, guardando nello specchietto retrovisore. È andato incontro all'800, lo ha rianimato nel pieno fervore modernista e futurista del suo tempo. Fuori infuriava il futuro, splendeva il Sol dell'Avvenire, si cantava la bellezza della macchina e della velocità. Ma dentro la sua stanza foderata di sughero non arrivavano gli spasmi della modernità, il viaggio si compiva nella mente innamorata, insieme a una straordinaria rivoluzione, in senso astronomico. La nostalgia era nata come sentimento doloroso di una lontananza da casa o dai luoghi cari, così era stata definita da medici e letterati; con Proust traslocava dallo spazio al tempo e si faceva nostalgia del tempo perduto. Non che prima di Proust non vi fossero rimembranze e ricordanze, per alludere a gran poeti; ma è con Proust che la nostalgia designa un rimpianto consapevole e il ripensamento minuzioso del tempo perduto. E questo mentre fuori pulsavano le officine industriali, ideologiche e letterarie del futuro. Ma Proust stesso avverte che l'euforia per i vagoni in corsa che infervora il primo '900, è destinata a tramontare e si torna ad amare la bellezza di Venezia, quella Venezia passatista vituperata da Marinetti (che poi morì proprio lì). Accanto alla nostalgia del passato perchè «i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti», Proust coltiva anche una nostalgia simultanea per gli eventi mentre accadono; è una specie di «nostalgia preventiva» che delle cose presenti preavverte la loro perdita, prefigura il loro svanire. Un meraviglioso espediente della natura, secondo Proust, che fa balenare il presente nell'orto prezioso dei ricordi.

Non manca in Proust una vena ironica che sembra avvicinarlo a Oscar Wilde; ma Wilde è un Proust estroverso, con la brillante superficialità di chi vuol stupire. Wilde ama il paradosso, che è una verità invertita e divertita, senza l'implacabile indagine introspettiva di Proust. Di lui condivide la voluttà della scrittura, non il tormento del pensiero.

È possibile tracciare una filosofia proustiana? Il florilegio ci permette di cogliere nitidamente tre versanti della Ricerca proustiana: la scoperta della curvatura del tempo, il passato che riaffiora nel presente e si congiunge al futuro; la scoperta di un ponte, di un cammino introverso che dalla luce della realtà conduce nell'antro recondito dell'anima, in quel luogo oscuro denominato psiche dove sorgono le idee e i sentimenti. E infine la scoperta che le cose sono animate; liberate dall'inerzia del loro esistere banale, vibrano di ricordi allusivi (effetto madeleine). Le cose parlano in Proust, sussurrano a chi sa ascoltare. Una rivoluzione straordinaria. Qui la solitudine di Proust si ritrova con Freud e con Bergson e anche con Nietzsche, con la fisica teorica e con l'inconscio jungiano.

Nella ricerca proustiana del tempo perduto, la morte di chi ti è caro o lo svanire del passato, tra i dolori che arreca, dona però un piacere: quel che resta nella memoria degli affetti è un ricordo selettivo, il meglio che merita di essere salvato, la sintesi gloriosa o squisita di quel che fu. Non il suo lato noioso, banale o negativo. La morte screma la vita, l'assenza depura la presenza dalla pesantezza del quotidiano. Resta il fior fiore delle persone, dei fatti e delle cose. Folgorante poi la sua intuizione sull'oblio, che preserva nelle sacche della memoria involontaria la realtà più autentica del passato. E ce la restituisce in uno di quegli agguati che il passato tende al presente appostandosi dietro l'angolo e riapparendo a sorpresa.

E poi s'intrecciano come in una trama di fili dorati, i suoi acuti pensieri sulla solitudine necessaria dell'artista e sul suo inevitabile vivere per sé, sulla considerazione del genio come specchio del mondo; la metafisica applicata alla vita quotidiana fin nei minimi risvolti, la penetrante analisi dell'amore («Non si ama che ciò che non si possiede»), della malattia e di «quella lunga disperata e quotidiana resistenza alla morte» che è la vita pensata. La spremuta di Proust non perde le sue vitamine ma le condensa. Poi verranno i proustiani di maniera, che sarebbe meglio chiamare proustatici; troppe rozze madeleine intinte nella tazza di Proust... «e un Marcel diventa ogni villan che pasteggiando viene».

Nell'ultimo libro della Recherche, Proust scrive: «Fra dieci anni noi, fra cento anni i nostri libri, non ci saremo più». Esatta fu la profezia sulla sua vita, non sulla sua opera. I cent'anni sono vicini ma sulla Recherche non è caduta la polvere dell'oblìo.

(di Marcello Veneziani)

Perché hanno ucciso Gheddafi - Massimo Fini