martedì 17 luglio 2012

E tu, politico, sei Bardo o Principe?


Ma davvero il peccato originale della politica è di non aver tratto insegnamento da Shakespeare e aver seguito invece la lezione di Machiavelli? Di Shakespeare filosofo politico parlano due saggi usciti di recente. Il primo è un ampio lavoro d'impronta filosofica, di un intellettuale versato nel teatro, Franco Ricordi, Shakespeare filosofo dell'essere (Mimesis, pagg. 520, euro 28) che rintraccia nell'opera shakespeariana la denuncia di un totalitarismo fondato sullo spettacolo. L'altro, più direttamente e interamente politico, è un agile pamphlet di Marco Follini, Io voto Shakespeare (Marsilio, pagg. 109, euro 10) dedicato alla coscienza perduta della politica.

Sanguigno e celeste, tormentato e tempestoso, Shakespeare fu un ponte straordinario tra l'Inghilterra e la romanità, tra l'impeto barbarico e la civiltà umanistica, tra la solitudine del sovrano e gli umori popolari. C'è nella sua opera il riassunto epico delle passioni pubbliche e private e della loro contrastata mescolanza, ma anche la forza di un pensiero davanti alla vita e alla morte. Su di lui e sulla sua incerta biografia fiorirono leggende e dicerie, che resero il Bardo simile a Omero; una delle più colorite era che fosse di origine italiana e il suo cognome fosse la traduzione del nostro Crollalanza, proveniente dalla Val Chiavenna.

Follini è noto come la Prima Crepa, il precursore sottile di Casini e poi di Fini nell'abbandono del centro-destra. Passò in breve da vicepremier di Berlusconi alla Margherita. Nella vita precedente fu democristiano e perfino demitiano. Al di là delle sue posizioni contingenti, Follini è un politico-intellettuale che scrive cose non banali. A suo parere Shakespeare rappresenta l'irruzione della coscienza come ombra inquieta del potere; la sua opera è anzi il racconto della coscienza e il richiamo alla responsabilità della politica. L'antagonista di Shakespeare, secondo Follini, è Machiavelli: in loro Follini vede la contrapposizione tra la politica come tormento interiore e come pura e cinica dimensione pubblica. È proprio Machiavelli a dire che i problemi della coscienza non riguardano la politica ma l'anima, la vita personale o il confessore. Il libretto di Follini ha un'impronta luterana, oppone un mini-scisma protestante in chiave politica allo spirito pagano e perfino «cattolico» di Machiavelli (così lo interpretavano i suoi critici britannici).

Ritengo improprio il paragone tra i due perché diverse restano le finalità: Machiavelli descrive la politica per trarre leggi e consigli e per fondare, condurre e conservare il potere, edificare uno Stato e una Nazione. Shakespeare invece descrive le passioni che animano il potere e la vita stessa, ma non assegna compiti di fondazione e conquista, né offre consigli per il potere. In questa luce, si potrebbe anche ribaltare il giudizio e considerare Shakespeare colui che descrive il potere così com'è, senza porsi il compito di rinnovarlo, racconta le passioni ma non pretende di suscitare la loro virtuosa correzione; al centro della sua opera è l'Individuo nel suo tempo e nel suo popolo. Al centro dell'opera di Machiavelli è invece la Patria, lo Stato, e gli uomini ne sono locatari, sovrani provvisori, sudditi. C'è in Machiavelli la passione del cambiamento e anche l'etica del politico. Un'etica separata dalla morale, ma vibrante. Quando Machiavelli si dice disposto a dare l'anima sua per la salvezza della patria sua, o quando teorizza che si possono usare mezzi aspri per fini supremi, è meno cinico di quanto appaia: pone la priorità dell'amor patrio sull'amor di sé, sacrifica il bene personale al bene comune, propone di forzare i sentimenti nell'interesse supremo della res publica. Ed è sempre più alta l'etica del fine che giustifica i mezzi, con cui di solito si volgarizza e brutalizza il machiavellismo, rispetto alla più frequente antimorale dei mezzi che si sostituiscono ai fini: la corruzione nasce quando i mezzi diventato i fini e pervertono la politica: il potere e la ricchezza, diventano gli scopi dell'agire politico. E comunque Machiavelli in una lettera a Soderini dice una cosa assai diversa di quella a cui di solito lo si riduce: «Si habbi nelle cose ad avere el fine et non el mezzo», ovvero bisogna concentrarsi sullo scopo e non sui modi e i mezzi per conseguirlo. Il fine trascende i mezzi, non li giustifica.

Shakespeare e Machiavelli, a mio parere, non si ritrovano e non si scontrano sul terreno della politica, dove l'uno si concentra sui moventi passionali e l'altro sugli effetti pubblici, e dove l'uno è animato dalla voglia di rappresentare i temperamenti e l'altro di ritrovare le leggi e i buoni consigli che muovono la politica. Ma si incontrano a teatro, di cui Machiavelli è autore significativo, anche se non paragonabile a Shakespeare. Il punto d'incontro tra i due è la rappresentazione drammaturgica della realtà, la politica vista come opera d'arte; o quel che per Platone è Teatrocrazia (o applicata al nostro tempo teatrinocrazia). Là, a teatro, Niccolò torna coevo di William, anzi fratello di sangue, s'ingaglioffa con i suoi personaggi, gioca a dadi, a carte, va a caccia e a donne. Ma Shakespeare poi trascrive e trasfigura quelle esperienze di strada, di bettola, e racconta quel mondo brulicante di impulsi e destini; mentre Machiavelli, come scrisse in una memorabile lettera al Vettori, entra la sera nel suo scrittoio, si libera della sua veste sporca del quotidiano, si mette panni reali e curiali e conversa con le antique corti degli antiqui homini, e si pasce di quel cibo che «solum è mio» e «sdimentico ogni affanno». Perciò poi Machiavelli scrive saggi sul Potere, la Storia e gli Arcana Imperii, mentre Shakespeare narra storie, drammi e passioni.

La chiave dell'opera di Machiavelli è nel suo cognome e nel suo stemma: Mali clavelli, i «quattro mali chiodi» che crocifissero il Signore. E la spiegazione migliore di quel simbolo si può desumere da una sua lettera a Guicciardini: gli altri vorrebbero «un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei uno che insegnasse loro la via di andare a casa il diavolo», perché «io credo che questo sarebbe il modo di andare in Paradiso, imparare la via dello Inferno per sfuggirla». Conoscere e perfino frequentare il diavolo, ma per non diventare suo amico e succubo. La lezione di Niccolò, realista ma non cinico.

(di Marcello Veneziani)

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