giovedì 9 agosto 2012

Più di così non si può produrre


La finanza non è la causa della crisi che sta travolgendo il mondo occidentale, ne è solo l’aspetto più evidente contro cui è comodo e facile scagliarsi per evitare di dirsi la verità. Perché la crisi autentica è quella della cosiddetta ‘economia reale’, cioè di un modello di sviluppo basato sul meccanismo produzione-consumo (oggi addirittura ribaltatosi in un ‘consumare per produrre’) e sull’illusione delle crescite esponenziali che, come ho detto altre volte, esistono in matematica ma non in natura.

La locomotiva chiamata Rivoluzione Industriale, partita dall’Inghilterra a metà del Settecento, ha percorso a velocità sempre crescente, che con la maturazione della globalizzazione (che mosse i suoi primi passi proprio allora, essendo i due fenomeni strettamente collegati) è diventata folle, due secoli e mezzo, ma ora è arrivata al suo limite. Non si può più crescere. Non si può produrre di più di quanto abbiamo già prodotto.

Prendiamo, a mo’ di esempio, l’automobile. A chi si può vendere oggi un’automobile? A dei mercati marginali. Certo la si può vendere anche in India e in Cina, ma con una crescita a due cifre anche questi Paesi (che nel frattempo stanno saturando definitivamente i nostri mercati) arriveranno presto ai limiti cui siamo giunti noi. Certo si possono inventare ancora nuove tecnologie e loro applicazioni soprattutto nel campo del virtuale, ma dopo il computer, il cellulare, Internet, l’iPhone, l’iPad che altro ancora? Come c’è una bolla immobiliare c’è, su scala planetaria, una superbolla produttiva.

Sbaglia però chi predica, come mi pare facciano, sia pur con molte differenze, i firmatari del famoso Appello contro ‘il pensiero unico’, una riconversione al marxismo. Figli della Rivoluzione Industriale liberismo e marxismo sono in realtà facce della stessa medaglia: l’industrialismo appunto, che è il vero nocciolo della questione e che nessuno mette in discussione. Sono entrambi modernisti, illuministi, ottimisti, economicisti, produttivisti, hanno entrambi il mito del lavoro (che per Marx è ‘l’essenza del valore’ – non per nulla Stakanov è un eroe dell’Unione Sovietica – e per i liberisti quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso ‘plusvalore’), tutti e due pensano che industria e tecnologia produrranno una tal cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o, più realisticamente, la maggior parte di essi (i liberisti). Questa utopia bifronte ha fallito. Perché ha alle sue radici gli stessi ‘idola’: industrialismo, produzione, consumo, crescita, sviluppo.

I firmatari dell’Appello stanno quindi totalmente dentro il ‘pensiero unico’ che è quello di chi ritiene, a destra come a sinistra, che lo Sviluppo, in un modo o nell’altro, sia irrinunciabile. Chi ne sta fuori sono coloro che ritengono che invece di crescere sia necessario decrescere (produrre di meno, consumare di meno) sia pur in modo graduale, limitato e ragionato per ritrovare non solo una stabilità economica, che non ci renda schiavi della dittatura anonima dei ‘mercati’, ma una vita più semplice e più umana, senza stress, depressione, nevrosi, anomia, tumori psicosomatici, cardiopatie che, com’è noto, sono tutte malattie della Modernità. Sono quindi gli Antimodernisti i veri antagonisti del ‘pensiero unico’ ed è ai loro danni che si consuma un ‘furto di informazione’ perché sono costantemente ignorati, altro che i signori Gallino, Lunghini, Tronti, Asor Rosa e persino Guido Viale promosso a economista.

(di Massimo Fini)

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